Francis Scott Fitzgerald: Cronache di un’epoca ruggente

Questa è la storia di un successo troppo passeggero, di rovinose cadute, dei desideri di rialzarsi e dei pensieri romantici fra le due guerre. È la storia di Francis Scott Fitzgerald che si mischia a quella dei suoi romanzi, dagli acuti jazz alle pause rag time, tra tutti forse quello più apprezzato, ma meno conosciuto, di una generazione ruggente che ha saputo raccontare i dubbi di un’epoca spietata. Francis Scott Fitzgerald è i suoi protagonisti, giovani alla ricerca di un posto nel mondo, traditi dalla vita e dai desideri di grandezza, spesso incompleti e insoddisfatti, in cui ogni sforzo sembra apparire vano. Fitzgerald è l’egotista romantico Amory Blaine in Al di qua del Paradiso, è il grande Jay Gatsby, è il Dick Diver di Tenera è la notte. Come colpito da una maledizione si ritrova a vivere le stesse storie che racconta, dietro alla maschera della letteratura narra le gesta e le cadute di quella generazione che preannuncia, forse più di altre, quella che sarà la Beat Generation. Ma nulla avviene per caso ed è il destino delle generazioni perdute inserirsi nella storia in maniera indelebile:

Questo è ciò che si è. Questo è ciò che tutti sono, tutti voi, giovani che avete prestato servizio nella guerra. Voi siete una generazione perduta. (Gertrude Stein, su Ernest Hemingway)

Hemingway e Fitzgerald a Parigi

Scrivere una monografia di un artista è sempre un costante ritorno alla vita che ha vissuto, come una traccia indelebile che si mescola tra finzione e realtà, tra la necessità di sfogo e il dovere di raccontare la propria epoca. Come tanti altri, in quel periodo, la linea di separazione tra vita e letteratura è così flebile da poter confondere il lettore. Fitzgerald ci può riportare negli anni ruggenti perché è stato lui, il primo, ad averli vissuti.

Sempre, dopo essersi messo a letto, udiva voci – vaghe, indistinte, incantevoli – fuori della finestra e, prima di addormentarsi, faceva sogni ad occhi aperti. Sognava di diventare un grande campione di football; oppure sognava che i giapponesi invadevano l’America e lui veniva fatto generale, per il suo valore: il più giovane generale del mondo. Sognava sempre di diventare qualcuno, mai di esserlo. (Di qua dal Paradiso)

Di qua dal Paradiso che, fra tutti, è quello in cui la vita vissuta si confonde con quella letteraria. Tante sono, infatti, le somiglianze tra Amory Blaine, il protagonista, e il suo creatore, non solo a livello biografico (l’università di Princeton, la carriera pubblicitaria e la ridotta partecipazione alla guerra, per citarne solo alcuni). Si tratta di un romanzo di formazione per entrambi, dalle colline gonfie di speranze del Midwest alla disillusione di New York, che lo rende uno dei più sinceri e meno costruiti. Amory, il giovane egotista, è un personaggio dalle molteplici aspirazioni artistiche, dai dubbi sulle proprie capacità e sulle possibilità di essere parte di un mondo che sembra non lasciare spazio agli ultimi romantici, impegnato com’è dalla ricostruzione e dal boom economico. Fitzgerald ci racconta la sua storia, quella di chi cerca la propria strada fra gli eventi che segnano una vita. Amory è, però, un primo segno della necessità di raccontare il presente, è l’eroe “mancato”, tratto caratteristico  di tutti gli altri romanzi, che si ritrova a fare i conti con i propri fantasmi e le aspirazioni tradite. Come a preannunciare quello che sarà tutta la vita del suo autore:

Adesso si rendeva conto della verità: il sacrificio non è acquisizione di libertà; assomiglia piuttosto a un’importante carica elettiva, è simile a un potere ereditario: per certe persone, in certi momenti, un lusso essenziale, comportante non una grazia ma una responsabilità, non già un titolo sicuro bensì un rischio infinito. Il suo stesso impeto può trascinare alla rovina: una volta trascorsa l’ondata emotiva che lo ha reso possibile, chi si è sacrificato può trovarsi, per sempre, naufrago in un’isola di disperazione. (Di qua dal Paradiso)

Il successo del romanzo consente a Fitzgerald di sposare Zelda che, prima, aveva rotto il fidanzamento per le ristrettezze economiche (come succederà tra Amory e Rosalind, senza però il lieto fine). L’unione tra i due non influenzerà soltanto le loro vite ma anche i sogni di una generazione che vedeva in loro un simbolo del successo raggiunto, lo stesso, presumibilmente, di Belli e Dannati. In realtà si tratterà di un matrimonio pieno di screzi e difficoltà, di felicità e disillusione, come viene dimostrato in Tenera è la notte, scritto in risposta al libro di Zelda Lasciami l’ultimo Valzer.

Dopo un breve periodo, con la nascita della piccola Frances, la coppia ritorna a New York, stabilendosi in una villa a Long Island, la stessa che farà da ambientazione per Il grande Gatsby. Intanto escono Belli e Dannati, lunga storia fra due innamorati alla ricerca del successo e della stabilità economica, ritratto di un amore costretto a fare i conti con le aspirazioni dell’epoca e che si ritrova svuotato di ogni senso una volta raggiunte e Racconti dell’età del Jazz:

E questo mi ha insegnato che non si può avere niente, non si può avere assolutamente niente. Perché il desiderio inganna. È come un raggio di sole che guizza qua e là in una stanza. Si ferma e illumina un oggetto insignificante, e noi poveri sciocchi cerchiamo di afferrarlo: ma quando lo afferriamo il sole si sposta su qualcos’altro e la parte insignificante resta, ma lo splendore che l’ha resa desiderabile è scomparso. (Belli e Dannati)

Arrivano gli anni di Parigi e della generazione perduta, e non quelli raccontati da Woody Allen, dove la coppia si trasferisce per ridurre le spese di una vita che, tra feste e viaggi, stava dilapidando il loro capitale. Sono gli anni, soprattutto, di Gatsby, il romanzo più conosciuto dello scrittore americano giunto fino a noi, come testimoniano le numerose trasposizioni cinematografiche, ultima quella di Luhrmann che, in realtà, sarà un fiasco per l’epoca. Fitzgerald trova in Jay Gatsby un alter ego di Amory Blaine, in maniera maggiore rispetto all’Anthony Patch di Belli e Dannati. Jay Gatsby è un vincente, è il self made man che, di ritorno dalla guerra, riesce a costruire una fortuna e dedicarsi ad una vita di lussi e divertimenti. Ma è anche un uomo oscuro, dal passato turbolento e pieno di ansie, nascoste dietro una maschera d’indifferenza e apatia:

Sorrise con aria comprensiva, molto più che comprensiva. Era uno di quei sorrisi rari, dotati di un eterno incoraggiamento, che si incontrano quattro o cinque volte nella vita. Affrontava – o pareva affrontare – l’intero eterno mondo per un attimo, e poi si concentrava sulla persona a cui era rivolto con un pregiudizio irresistibile a suo favore. La capiva esattamente fin dove voleva essere capita, credeva in lei come a lei sarebbe piaciuto credere in se stessa, e la assicurava di aver ricevuto da lei esattamente l’impressione che sperava di produrre nelle condizioni migliori. Esattamente a questo punto svaniva, e io mi trovavo di fronte a un giovane elegante che aveva superato da poco la trentina e la cui ricercatezza nel parlare rasentava l’assurdo. (Il Grande Gatsby)

Jay Gatsby diventa, così, il Don Juan di una generazione confusa, che ha appena superato la trentina e inizia a guardare ciò che è stato della sua gioventù. Lo stesso Fitzgerald, mascherandosi dietro le parole del narratore, si accorge della profonda solitudine dei suoi eroi e dei suoi sogni, dell’inutile corsa al successo e al denaro, quando ciò che conta è altro: la salute di Zelda (che, intanto, aveva iniziato a mostrare segni di instabilità) e, per Gatsby, il veccho amore per Daisy. Il protagonista si rende così simbolo della parte più decadente dell’intera produzione di Fitzgerald, in cui l’ostentazione maschera la povertà che rimane nelle anime di chi ha vissuto la prima guerra mondiale in prima persona (tratto che sembra preannunciare i romanzi successivi, suoi e di molto altri, in particolare dopo la seconda guerra mondiale, Hemingway fra tutti). Se una generazione perduta americana, la prima almeno, ha un simbolo non può essere che il grande Jay Gatsby e, con lui, il suo autore, sempre più perduto nell’uso di alcolici e insuccessi letterari, una storia, questa sì, che si ripete per ogni epoca.

Perfino in quel pomeriggio dovevano esserci stati momenti in cui Daisy non era riuscita a stare all’altezza del sogno, non per sua colpa, ma a causa della vitalità colossale dell’illusione di lui che andava al di là di Daisy, di qualunque cosa. Gatsby vi si era gettato con passione creatrice, continuando ad accrescerla, ornandola di ogni piuma vivace che il vento gli sospingesse a portata di mano. Non c’è fuoco né gelo tale da sfidare ciò che un uomo può accumulare nel proprio cuore. (Il Grande Gatsby)

È il 1934, il rapporto con Zelda si fa sempre più difficile, le stesse condizioni di Fitzgerald peggiorano come il suo alcolismo, è l’anno dell’uscita del romanzo più doloroso e meno convincente (secondo i suoi contemporanei) della sua carriera, è l’anno di Tenera è la notte. Dick Diever, psicologo affermato e di bell’aspetto, dopo anni di matrimonio con Nicole, sua paziente in Svizzera, incontra Rosemary, stella del cinema. Si tratta del romanzo più europeo di Fitzgerald, che esemplifica, ancora una volta, il segno indelebile tra le sue esperienze di vita e quelle letterarie, impiegando nove anni per completarlo. Dick Diever è l’apoteosi dell’eroe fitzgeraldiano ed è lo stadio finale di quello che erano stati Blaine e Gatsby. La disillusione, qui, è completa e non solo dal punto di vista morale e finanziario ma, soprattutto, psicologico. Dick si abbandona agli eccessi alcolici, ad un’infatuazione passeggera e a scelte sconvenienti per fuggire da una vita che lo attanaglia. Non è grottesco, non è un codardo è il risultato della stessa generazione del Jazz che Fitzgerald vede smantellarsi davanti ai suoi occhi. I sogni sono traditi, le speranze inutili, la felicità sempre più lontana:

Si scrive di cicatrici guarite, un parallelo comodo della patologia della pelle, ma non esiste una cosa simile nella vita di un individuo. Vi sono ferite aperte, a volte ridotte alle dimensioni di una punta di spillo, ma sempre ferite. I segni della sofferenza sono confrontabili piuttosto con la perdita di un dito o della vista di un occhio. Possiamo non perderli neanche per un minuto all’anno, ma se li perdessimo non ci sarebbe niente da fare. (Tenera è la notte)

Fitzgerald si ritrova a parlare di sé, senza più rimorsi, riflettendo sulla sua vita e su tutto quello che gli è stato dato e tolto senza che il progresso si potesse fermare. L’opera di questo scrittore risulta intimamente connessa con la società che stiamo vivendo oggi, anche senza conflitti mondiali. Si ha un lento ed inesorabile procedere nei suoi tre personaggi (Amory, Jay, Dick) verso un nichilismo e una disillusione completa. Non è difficile pensare di poter leggere i loro tre romanzi come una storia unica, segnata dagli amori perduti e da quelli ritrovati, dalle occasioni fallite e cercate per tutta una vita, nel desiderio di essere parte del gran mondo. La forza delle opere di Fitzgerald non si ritrova soltanto nella grande capacità narrativa e stilistica, o nel contatto con la sua vita ma nella sincerità che si trova nel leggere i dubbi di un eterno giovane condannato a farsi testimone della sua epoca, con lacrime e parole. A differenza di altri scrittori, come Hemingway, non è nelle manifestazioni di forza, tipiche del conflitto, che ritrova la dissoluzione dell’uomo, sembra dirci che non è la guerra, con la sua non vita, a spezzare i rapporti, ma quello che ne è rimasto. Forse la guerra non è mai finita ed è la vita a non essere iniziata, perché nella competizione e per il denaro si combatte ancora. Fitzgerald è la parte oscura del sogno americano, quella che ottiene tutto e poi lo perde, inesorabilmente, in una carriera così rapida da ricordare quella di James Dean. In un successo che ti prende e ti svuota, lasciandoti solo:

Amory provava pena per loro, ma non ancora per se stesso – arte, politica, religione, qual che fosse per essere il suo mezzo di espressione, egli sapeva di trovarsi ormai al sicuro, affrancato da qualsiasi isteria – poteva accettare quello ch’era accettabile, vagabondare, crescere, ribellarsi, dormire sonni profondi per moltissime notti. Non c’era alcun Dio nel suo cuore, lo sapeva; le sue idee erano ancora in tumulto; c’era pur sempre la pena della memoria; il rimpianto per la perduta gioventù – tuttavia le acque della della delusione avevano lasciato un deposito nell’anima sua: responsabilità e amore per la vita, il agitarsi di vecchie ambizioni e sogni irrealizzati. (Di qua dal Paradiso)

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