Fuorisalone | Parlare pur male di Milano, purché se ne parli?

Riceviamo una mail dall’organizzazione dell’Home Festival di Treviso, che ci invita a visitare lo stand che hanno allestito al Fuorisalone per presentare la nuova edizione del loro festival. Essendo ormai di base a Milano, decido di andare a dare un occhio. Avevo fatto del mio meglio per tenermi fuori da questa manifestazione, visto che del Salone del Mobile non pensavo potesse fregarmene di meno, e neppure l’insistenza dei più convincenti amici milanesi di origine o di adozione erano riusciti a mettere in dubbio questa mia convinzione. Leggendo l’invito, tuttavia, la curiosità di capire quale cappero di motivazione aveva spinto un festival di un certo nome ad allestire un palco per la settimana del design è stata più forte. Mi sono quindi fatto coraggio e mi sono tuffato tra le folle che hanno invaso le strade di Milano, per l’occasione infighettate perfino di più del solito, e sì che non era facile riuscirvi.

Effettivamente, se volete provare capire l’anima di una città, non c’è occasione migliore di quella dell’avvenimento che la travolge e riesce a attrarre gente da ogni dove: l’evento dell’anno, insomma. L’anno scorso ho vissuto questa sensazione di contagioso delirio a Berlino, più o meno in questo stesso periodo dell’anno, quando l’intera Kreuzberg è investita dal Kultur Festival, il festival delle culture, che riunisce tutte le comunità straniere in un grosso carnevale che si protrae per tre coloratissimi giorni. Analogamente, mi è venuto da pensare alla Balloon Fiesta di Bristol, in cui i cieli della città si riempiono di mongolfiere, o all’Up Fest in cui si riuniscono gli street artist e i graffitari. Ma che ci fosse una città che riuscisse a spingere fuori da case e locali i propri residenti e imbarcare turisti invitandoli al salone del mobile me lo sarei aspettato forse giusto in Svezia. E men che meno nel nostro paese, dove diventa sempre più difficile comprare una casa, figurarsi arredarla con mobili che possono essere esposti in un salone – Milano non fa più eccezione, ormai non si trova lavoro neppure in quella che è passata alla storia come la sua capitale morale e workolitica, a meno che, giustamente, non lavoriate nel design, come in un circuito che si autoalimenta. Cosa che peraltro si riflette nel fatto che al salone vero ci vanno solo i professionisti dell’ambiente, mentre è il contro-evento – il Fuorisalone – ad aver fagocitato l’evento vero e proprio.

Come succede spesso a Milano, ci si abitua così tanto all’evidenza che le cose funzionino al contrario, o al massimo secondo casualità, che non ci si stupisce più neppure che il contenitore possa sostituire perfettamente il contenuto, e i giorni del salone vengano vissuti come un party dedicato alla solita fighetteria locale che si protrae per quattro giorni invadendo le aree principali della città: innanzitutto la sede centrale dell’Università statale, a Festa del Perdono, dove le quattro settimane di lavori per allestire tutte le installazioni hanno impedito qualsiasi attività di studio e didattica, e Brera, dove l’accademia, le chiese, alcuni vecchi palazzi e perfino l’orto botanico sono stati rivestiti di un monotematico bianco, entrambe aree in cui si è puntato principalmente sull’estetica e sull’arte; Tortona, dove ha travolto le numerose boutique vintage e i negozietti lungo la strada; addirittura Lambrate e il parco Sempione. Proprio il Sempione per quattro giorni si è trasformato in un enorme open air di atmosfera berlinese, con una postazione DJ sistemata subito dietro le mura del castello sforzesco, a propagare ininterrottamente una colonna sonora fino all’arco della Pace.

Eppure, proprio al confine tra il non-sense dei fuori-evento così tipici di Milano e il buono che vi cresce intorno sta il fatto che il Fuorisalone, malgrado il salone, possa diventare l’occasione tanto attesa per affollare le strade di una città così ossessionata dalla propria misantropia, e trovare una scusa per lasciarsi andare a quattro giorni di delirio gratuito all’ombra della torre dell’Unicredit, che ha sostituito la madonnina del Duomo come feticcio nella religione del capitale dai cui ritmi si vive imprigionati e inscatolati tutto il resto dell’anno. Mai come in questa occasione, ho sentito di avere avuto ragione nei momenti in cui ho pensato, appena arrivato qui, che si può vivere Milano come Berlino, e viceversa, perché le due città mi sembravano avere più somiglianze di quanto sembrasse. Una su tutte, è quella di inseguire entrambe un’ideologia e un ritmo vitale insensati con un trasporto fondamentalista, seppure proseguendo in direzioni praticamente antitetiche.

Come ha scritto, con parole un po’ diverse, anche Walter Benjamin in età piuttosto giovane, al ritorno dal suo viaggio a Milano nel 1912, pochi anni dopo la prima Expo, forse è nel momento in cui cominci a vedere e riconoscere questo non-sense e a goderti rilassato tutto quello che gli fiorisce intorno che cominci a goderti davvero questa città. Allora, se per avere un carnevale vero a Milano, bisogna vestirlo da salone del mobile, sapete che vi dico? Ben venga. Che poi a proposito, trascinato da tutto questo pensare e rielaborare, lasciandomi trasportare da una galleria a un negozio di tappeti a un cocktail party, sapete, è successo che di passare allo stand dell’Home Festival mi è proprio scivolato via di mente. Ma al Sempione, vi dico, ballicchiando all’ombra di un albero seguendo il drum-beat che veniva portato dal venticello fresco del crepuscolo, si stava da dio.

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