A Cuor Contento | Dentro il tour di Giovanni Lindo Ferretti

Chi è davvero Giovanni Lindo Ferretti, da dove viene quest’uomo che ha superato anni e avversità, successi e polemiche, che è stato capace di dirsi fedele a una linea senza mai tracciarla? Chi è quest’uomo nato a Cerreto Alpi il 9 settembre del 1953 che arriva sul palco vestito con un look insieme spartano e accattivante, con la testa ancora rasata ai lati come quando più di trent’anni fa si faceva alfiere della musica punk in Italia? Allora ai lati della testa correva la scritta CCCP, oggi c’è solo la pelle nuda ma non importa, non è più tempo di proclami, di scritte sul corpo, tutto il passato è sotto la pelle, in profondità.

Nulla sembra essere superficiale in quest’uomo, tutto sembra venir fuori quando lo concede, quando lo permette, da cavità nascoste e segrete, profondità del cuore e abissi dell’anima. Le stesse da cui deve, per forza provenire questa voce così calda, così profonda che pure sa farsi acuta quando sale senza fatica e senza sforzo ma con una parvenza di dolore come a scalare una montagna, lui che sulle montagne c’è nato ed è tornato a vivere dopo aver visto il mondo, per davvero, e delle montagne ama la fatica e la tranquillità di spazi chiusi e caldi, e detesta le scalate, inutili espressioni di potenza. Lui che dell’umiltà ha ormai fatto una strada da percorrere con onestà e senza rimpianti, e cosa ben più importante, senza nulla rinnegare del proprio passato ma, anzi, portandosi appresso il peso di ogni singola parola detta.

È dentro tutto questo la forza e il potere quasi sciamanico di un tour che ormai va avanti da anni in cui, accompagnato dagli ex Üstmamò, Ezio Bonicelli (violino e chitarra elettrica) e Luca Alfonso Rossi (basso e chitarra), Giovanni Lindo propone con una veste nuova le canzoni che, come un filo (forse non più rosso ma nemmeno di un altro colore come molti si ostinano in maniera scorretta a voler credere), attraversano non solo la sua lunga carriera ma, cosa ben più importante, le curve della memoria della sua vita come passi vallivi da attraversare a cavallo del suo amato Tancredi, tra punti impervi e valli a rasserenare cuore e passo.

A Cuor Contento è il nome del tour che come un manifesto racconta di un uomo che non ha abbandonato paure e illusioni ma crede nella possibilità, se non della felicità, almeno di una serenità dell’animo che non cade dal cielo, ma passa attraverso una disciplina, un sottrarsi quasi al mondo secolare, come lo intendiamo oggi, per ritornare come dentro la cavità materna a un mondo che non è solo spirituale ma da quel mondo è capace di trarre l’elemento più profondo e sacrale, quello della terra e della carne, senza mediazioni né certezze, per fermarsi un passo prima del mistero.

È stato un tempo il mondo giovane e forte, odorante di sangue fertile, rigoglioso di lotte, moltitudini

A cuor contento nasce nel 2011 e da allora è l’occasione grazie alla quale Giovanni Lindo Ferretti lascia la sua casa materna, per tornare a viaggiare lungo lo stivale. Il viaggio è un punto centrale nella vita prima ancora che nella carriera di Ferretti, un’inquietudine che lo ha tenuto lontano dallo star fermo, dall’immobilità delle radici. Da Reggio a Parma, da Parma a Reggio, da Modena a Carpi, da Carpi al Tuwat, il viaggio a Berlino, l’incontro con Zamboni e la nascita dei CCCP. E ancora l’Algeria e i Balcani, un lento insinuarsi negli interstizi di una geografia dimenticata, una cartina antropologica fatta di canti notturni, di incroci di civiltà, di tradizioni, di popoli, di religioni. Un mondo di connessioni del cuore e del pensiero capace di far cominciare Berlino a Carpi e che ha visto una a una crollare le ideologie, le utopie sotto le rivolte dell’Algeria francese, il calcolo politico ed economico mascherato da mattanza etnica nei Balcani, la dissoluzione dell’Unione Sovietica, unità di produzione e sconfinati paesaggi mongoli.

Foto di Alex Majoli

Dentro A Cuor Contento c’è l’intera storia musicale e umana di Giovanni Lindo Ferretti, dai CCCP ai CSI, dai PGR ai progetti solisti, da Co.Dex fino a Saga il grande racconto epico del rapporto uomo/cavalli uscito nel 2013 e che s’intreccia alla Fondazione Ferretti e alla scommessa di proporre un teatro barbarico fatto di sudore, polvere e animali. Non è poco, è uno spaccato di più di trent’anni di canzoni, di musiche, di prese di posizione talvolta controverse, controcorrente, in ogni caso originali, mai timorose, usate spesso fuori contesto, male interpretate a proprio piacimento. Una storia fatta d’incontri e scontri, di unioni e addii, di voci, di musicisti, di personaggi dentro storie, e accadimenti molto più grandi dentro la Storia del Novecento, tra muri che cadono, disgregazioni politiche, sogni infranti, la Storia che doveva finire e invece non è finita affatto.

È forse nostalgia il motore di un tour come questo? Assomiglia tutto questo alle bancarelle fuori al Berliner Dom dove si vende ancora chincaglieria della Germania Est? Un check point Charlie per turisti inconsapevoli?

Ma il ponte è stabile, io tremolante

Niente di tutto questo. Di là dal sostentamento per le proprie attività, per la casa e i cavalli che Ferretti con la consueta disarmante onestà non nasconde, il suo tour è calato in maniera impressionante dentro il tempo presente, dietro quel microfono, dietro quel salmodiare che sa di mediterraneo, d’incenso, di chiese e di moschee, dove si cela il racconto di un percorso che si fa testimonianza tangibile di una vita, delle sue strade, di lunghezze infinite, di stanchezze ed entusiasmi. Senza che nulla sia rinnegato.

È questa la forza di Ferretti, che come un magnete attrae ai suoi concerti non solo chi quegli anni in qualche modo li ha vissuti ma anche un esercito di ragazzi giovanissimi capaci di gridare per due ore, di esaltarsi alle prime note dei grandi classici dei CCCP, perché sentono che la forza del Punk, quella forza iconoclasta declinata secondo un gusto italiano, da balera, da liscio sta lì ancora in piedi, viva e vegeta, vera. E Ferretti si sorprende quasi, sorride davanti alle grida di ragazzine che lo guardano estasiate. Ma sa forse, a suo modo, di essere, nonostante tutto, un modello, un richiamo grazie alla forza delle proprie convinzioni, a un rapporto con il mondo capace di cercare il nocciolo duro e vero delle cose, sempre logorato dai dubbi ma da questi non abbattuto né svilito.

Una scena del film/documentario Fedele alla Linea di Germano Maccioni

Dieci anni fa usciva Reduce, racconto e insieme memoria, poesia, appunto di viaggio, riflessione su se stesso e sul mondo, sul ritorno a casa, sui passi che conducono tremuli nell’antro familiare, Giovanni Lindo raccontava tra quelle pagine del primo ricordo che lo lega alla scoperta del mondo: la richiesta della nonna, di salire le scale che portano al primo piano per prenderle due mele, in una notte di primo inverno con fuori il finimondo da tormenta.

Di là dalla porta della cucina c’è il buio, gli spifferi gelidi, i rumori, le scale che dal fondo non si vede in cima. La paura. […] La voce combatte la paura. Mi alzo in piedi e attaccato al corrimano salgo […]Solo la voce mi può aiutare.

Nel primo ricordo è racchiuso il destino di un ragazzino che passerà gli anni dell’infanzia, senza giocare ma solo a studiare per una promessa fatta ancora alla nonna, in un collegio dove mal che vada ne faranno un cantante. E in quel primo ricordo c’è già l’essenziale, la casa, la crescita, il rapporto con il mistero e la paura e la voce, quella della nonna a dargli conforto, quella del bambino a darsi coraggio. Ferretti sa di non dover aggiungere troppe parole a quelle delle canzoni, conosce il dono della sua voce, ne sa il potere, la fascinazione che è capace di creare, sa che ha conquistato nel tempo l’autorità di chi ha il coraggio delle proprie posizioni e non ha paura di esprimerle. C’è qualcosa dell’anacoreta, del folle in cristo, del santo e del peccatore in questo sessantenne che ha scelto di vivere sui monti, staccandosi dalla contemporaneità, dal rumore, dal chiasso della folla ma in cui è presente fortissimo e tangibile l’attaccamento alla vita, alla terra, alla pelle dei suoi cavalli, al calore di una comunità piccola. Ferretti guarda al cielo ma con i piedi ben piantati a terra, sa perché conosce, perché ha sentito.

Come si fa a non sentire un brivido lungo la schiena quando Radio Kabul si trasforma in Radio Mosul? Dall’Afghanistan all’Iraq o a quel che ne resta, da un Medio Oriente che oggi ci sembra estraneo e invece non è così lontano dalle nostre case, dalla nostra storia, dalle nostre radici.

Le mani in tasca, gli occhi chiusi, come un tramite tra passato e presente, tra il testo e la sua esecuzione, il microfono leggermente più alto di quanto sarebbe necessario così da dover far leva sui piedi come a mantenere una tensione verso l’alto, verso la voce che esce per diffondersi fino ai punti più lontani mentre Bonicelli e Rossi costruiscono ora arpeggi blues ora, invece, sinuose architetture mediorientali che sanno di mondi lontani, di un’idea distante che non si rifiuta, ma verso la quale si va incontro.

Tradimento e fedeltà, i due estremi di un pensiero, di un approccio alla vita, giudici implacabili di pensieri, opinioni, azioni e in mezzo, invece, l’emergere del proprio percorso, della propria indipendenza, di un rapporto esclusivo con la vita, la terra, il cielo, gli amici, i cavalli, dentro la Storia finalmente, il bisogno non più rinviabile di una questione privata, di un bisogno del cuore, dell’anima.

Senza parole, con fugaci contatti col pubblico, una stretta di mano, un sorriso, un incrocio di sguardi, Giovanni Lindo Ferretti è capace di entrare in contatto, di gettare ponti, di andare incontro ed è troppo comodo se non disonesto gridare allo scandalo, stracciarsi le vesti, se l’altra sponda non è quella che molti si sarebbero aspettati. Non è adesione spesso, non è sostegno ma è curiosità, è ancora viaggio, occhi nuovi, cuor contento di vedere, conoscere capire le ragioni dell’altro.

Se la linea non c’è, non c’è una parte qui e di là l’altra, e in tempi come questi l’ecumenismo di Ferretti assume il valore inestimabile di una profonda ricchezza.

(Foto di copertina di Marcello D’Andrea)
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