Una giungla di suoni ad un passo dalla città | Apolide 2016

Qualche settimana fa vi abbiamo presentato Apolide Festival attraverso le parole di Salvatore Perri, uno dei direttori artistici, e vi abbiamo regalato due abbonamenti per partecipare al festival. Ma abbiamo fatto di più. Qualche mese fa mi sono “arruolata” come volontaria per seguire e partecipare attivamente al festival, e dare una mano a questa bella reatà in costante crescita. Mi sono unita al social team, una squadra ben affiatata di sei elementi con cui ho contribuito alla creazione dei contenuti usciti su Facebook, Instagram e Twitter.

LO STAFF

Innanzitutto bisogna precisare che lo staff di ARFF è composto interamente da volontari. Edizione dopo edizione, il numero ormai supera i 200. Come prima volta da insider, ho potuto constatare come la macchina funzioni alla perfezione grazie all’impegno e alla dedizione di tutte queste persone, e come ARFF in fondo sia una grande famiglia che si è allargata via via in queste 13 edizioni. Turni estenuanti, pulizie sotto il sole cocente o a notte fonda, richieste insolite sempre esaudite (un membro della mia squadra è riuscito a consultare un agronomo per poter garantire l’accesso ad una ragazza allergica a certi tipi di graminacee) e per finire, nottate in tenda: tutto affrontato sempre con pazienza, sorriso ed un’energia pazzesca. Chapeau!

Foto di Gabriele Ferrari

L’AREA NATURALISTICA E LE ZONE CAMPING

Dopo essere nato nel comune di Alpette (inizialmente l’acronimo ARFF significava Alpette Rock Free Festival), nel 2014 il festival si trova ad affrontare un repentino cambio di location. Si trasforma in Apolide, letteralmente “senza luogo”, e si trasferisce nell’area naturalistica di Vialfrè, un piccolo comune tra Torino ed Ivrea. Come in un luogo incantato a pochi metri dalla civiltà, nell’area Pianezze sembra di essere scaraventati in mezzo alla giungla, e tra pioppi, castagni ed acacie si trovano le aree campeggio, una più lontana e al riparo da rumori, chiamata “Quiet Camp” e una più scatenata e festaiola, ad un passo dall’entrata del festival, il “Joongla Camp”, dove sono stati avvistati un divano, un calcio balilla e una piscina. 10 + per l’impegno, campeggiatori!

LA SPORT ARENA, LA RELAX ZONE E LA FOOD AREA

Apolide è musica, ma è anche tante altre cose. Innanzitutto è un festival sempre più family friendly, con svariate proposte ludiche e letture per bambini, nonché la possibilità di affittare o acquistare cuffie per proteggere le loro orecchie sensibili. Durante tutta la durata del festival, è possibile dedicarsi a diverse attività in due aree: dai massaggi shiatsu, allo yoga mattutino, alle lezioni di aikido nella zona relax, fino ad arrivare alla grande sport arena, che ospita una scuola di circo itinerante (dove ci si può cimentare con cerchi sospesi, tessuti e slackline), campi di pallavolo e una struttura per parkour. Persino mangiare e bere è una vera e propria esperienza (ci credete che al mattino si sentiva da lontano il profumo delle brioches appena sfornate?), e per allargare ulteriormente l’offerta, tra gli stand si potevano trovare un barber shop old style con tanto di insegna e una coppia di giovani hipster tatuati che vendeva sex toys.

IL SOUNDWOOD E LE RADIO

Anche la fazione elettronica è ben rappresentata ad Apolide. Sul Soundwood stage, una piccola casetta bianca che sovrasta la sport arena, si alternano per tutto il giorno dj della scena clubbing italica. Vorrei raccontarvi del groove, dei suoni che si sono alternati da mezzogiorno fino al tramonto, mentre il pubblico si scatenava in danze. La verità è che la cassa dritta proprio non fa per me, e il Soundwood non è il palco dove ho speso la maggior parte del mio tempo. Però sì, la gente che ballava era presente, a qualsiasi ora. A pensare all’intrattenimento nei momenti morti dei due palchi più grandi (souncheck, cambi palco, …) due diverse radio torinesi che trasmettevano in diretta dal festival, Radio Banda Larga e la divertentissima Radio One Lab, capace di lanciarsi in deliranti siparietti comici con i dj travestiti da suore e unicorni.

La sport arena – foto di Gabriele Ferrari

LA BOOBS AREA

E qui si entra nel vivo. Sotto una fantascientifica struttura semicircolare che ricorda il Thunderdrome di Mad Max troviamo uno dei due palchi principali, la Boobs Area, iconicamente dedicata alle tette, ma solo perché originariamente si trovava in un campo da bocce. Qui si alternano live (da segnalare Roncea con le sue ballate acustiche che strizzano l’occhio ai songwriters folk di matrice USA, i suoni sperimentali della chitarra di Paolo Spaccamonti, l’arpa e la meravigliosa voce di Cecilia, il surf garage di John Canoe e Maniaxxx) spettacoli, e incontri con autori, probabilmente la miglior sorpresa del festival. Il venerdì è stato Giuseppe Culicchia, con il suo composto sarcasmo, in un reading tratto dal suo ultimo lavoro “Mi sono perso in un luogo comune” durante il quale lo scrittore torinese, che possiamo tranquillamente definire uno dei più incisivi nella letteratura italiana degli ultimi 20 anni, ha letto alcune voci di questo bizzarro dizionario della banalità umana. Ironico al punto giusto. Domenica è passato a trovarci Giordano Meacci con il suo libro “Il cinghiale che uccise Liberty Valance”: un’intervista informale e intensa che ha ripercorso le tappe del suo lavoro, dalla stesura del romanzo che l’ha portato a sfiorare il premio Strega, alla collaborazione con il compianto Claudio Caligari con cui ha sceneggiato l’ultimo capolavoro “Non essere cattivo”. Il mio personale eroe di questa tre giorni è arrivato sabato, alle 18. Alessandro Baronciani si siede sul palco con una polo a fiori, stropicciandosi nervosamente i capelli e giocando coi lacci delle scarpe: è subito amore. L’illustratore, al fianco di Colapesce nella serie di concerti disegnati che i due hanno portato in giro per tutta l’Italia, inizia con il giornalista di Rockerilla, Paolo Dordi, una chiacchierata a braccio che spazia dall’autoproduzione del suo imminente lavoro “Come svanire completamente”, ai Radiohead, passando per le difficoltà del suo lavoro, la scena hardcore anni 90, per approdare alla discografia dei Pixies. Persino io dalla prima fila sono stata interrogata sull’ultimo loro album, inutile dire che non mi sono mai pentita così tanto di non aver ascoltato un disco.

Alessandro  Baronciani -foto di Gabriele Ferrari

IL MAIN STAGE

Il cuore e i polmoni delle serate ad Apolide. Per un contrattempo ho dovuto saltare la prima giornata. Peccato, niente Calcutta concerto di, ma soprattutto niente Aucan. Venerdì, dopo lo stoner dei Rama, senza infamia e senza lode, sono i torinesi Indianizer a scaldare l’atmosfera con una buona dose di camicie hawaiane e psychotropicalismo. Estivi, ballabili, mai banali, un ascolto che consiglio. Cosmo gioca in casa portando il tour di “L’ultima festa” ad un passo dalla natale Ivrea e sotto il palco scoppia davvero la festa: facile, quando hai dalla tua un album così trascinante. A mezzanotte sale sul palco la vera star del festival, Jain, disco d’oro con il singolo Come e attesissima da tutto il pubblico per la prima data in Italia. Minuta, bellissima, con un casto abito nero col colletto bianco, la cantante francese è un portento: sul palco completamente da sola, si alterna tra voci in loop e chitarre, con un’energia pazzesca capace di trascinare le ormai migliaia di persone accorse. Un performance impeccabile. Il sabato inizia con Kiol, un ragazzotto dal perfetto accento inglese, cresciuto evidentemente a pane e Paolo Nutini. C’è ancora la necessità di costruirsi un’identità, ma le basi le abbiamo. Dopo di lui, la rivelazione: Heymoonshaker. Chiamato in corsa per sostituire gli Is Tropical, il duo britannico crea un connubio tra voce e chitarra dalle influenze blues, ed una cosa tamarra come il beatbox, ed il risultato è semplicemente esplosivo. Trascinanti, carismatici, oltre che di bell’aspetto, gli Heymoonshaker sono qualcosa che non ti aspetti e che ti spiazza, ma alla fine conquista. Dopo di loro Iosonouncane propone un live che finalmente mi convince, peccato il pippone di un quarto d’ora sull’eterna lotta tra bionde e more che alla fine viene vinta dalle rosse (già sentita al Miami) che per quanto mi trovi d’accordo tirando acqua al mio mulino, ha provocato qualche fischio. Il teatro degli orrori sempre in spolvero, con Capovilla che come al solito fuma come una ciminiera e suda nel completo total black. Questo si che è essere rock ‘n roll. Chiude il dj set di Andy Butler degli Hercules & Love Affaire, che non sentirò perchè già in macchina in direzione Torino per riposare in un vero letto. I compagni in tenda hanno beccato la pioggia, si vede che me lo sentivo.

Foto di Gabriele Ferrari

Porto a casa da questa mia terza volta ad Apolide un bagaglio di cultura pazzesco, meravigliata di come un manipolo di ragazzi abbia saputo creare un appuntamento così interessante e non perderne le fila nonostante la crescita esponenziale in questi 13 anni. Questa prima edizione con ingresso a pagamento rappresentava una sfida, inutile dire che è stata vinta a mani basse, dimostrando come il pubblico sia ancora disposto a pagare per un’offerta di qualità.

Apolide è una meravigliosa realtà che va aiutata ed incoraggiata, fortemente voluta e tenuta egregiamente insieme da un gruppo coeso, che mi ha accolta a braccia aperte e che mi ha dato tanto anche a livello umano. Numeri alla mano, anche quest’anno si è riconfermato un appuntamento irrinunciabile. Bravi tutti.

Foto di Vincezo Lerose

La foto in copertina è di Davide D’Ambra

 

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