GLI SDRAIATI, AUTORITRATTO DI UNA GENERAZIONE FALLITA (E CONSERVATRICE)

Da circa un mese coltivo segretamente un’unica speranza per il futuro dell’Italia: che un misterioso virus colpisca i figli delle decine di migliaia di over-50 che hanno acquistato Gli Sdraiati di Michele Serra e li spinga a leggere in massa il libro. Non perché contenga un qualche potere messianico o redentore né sia un capolavoro, ma perché lo possano utilizzare come metaforico oggetto contundente nei confronti dei loro genitori e della generazione di cui sono incolpevoli(?) rappresentanti. Qualcuno deve pur averlo fatto, dato che pochi giorni fa è comparso su Twitter il profilo fake “figliodimicheleserra”, in cui il protagonista del libro si vendica con il padre per l’imbarazzo causatogli dalle sue rivelazioni, rispedendo al mittente le accuse di scarsa propensione alla vita in comune (“Sto scrivendo un libro, la storia di un padre che lascia l’asse del water alzata e poi quando sua moglie s’incazza lui dà la colpa al figlio”) e deridendone i pregiudizi generazionali (“Per rassicurare il genitore ho dovuto nascondere altri wurstel crudi nelle fodere del divano. Ora leggo Proust in bagno (e non tiro l’acqua)”).

Se Gli Sdraiati ha avuto successo è perché ha riempito un inspiegabile vuoto nel mercato editoriale italiano: è infatti dai tempi di Maria Montessori che si attendeva un vero manuale “di sinistra” su come rapportarsi ai propri figli da persone “di sinistra”. Il grande lascito di Serra ai “relativisti etici suoi coetanei (“che, a parte una ridottissima serie di precetti senza tempo, non riescono a trovare indiscutibile alcun assetto etico, specie nella vita privata”) è quello di risparmiargli una volta per tutte quel senso di vergogna misto a trasgressione che accompagna l’acquisto dei libri di Tata Lucia in Autogrill, nascosti tra i romanzi di Camilleri, come una volta accadeva con Playboy.

È lo stesso autore a descriverci il dilemma interiore che, a suo dire, lo accomuna ai suoi simili, dato che il protagonista del libro, più che una figura autobiografica, vuole rappresentare un’ideale summa del cinquantenne borghese in piena crisi d’identità:

 “Nella furibonda disputa – l’ennesima – del mio parlamento interiore, dai banchi della destra si levano accuse cocenti contro l’imbelle rinuncia della sinistra a esercitare l’autorità. Ma anche quando sospetto che la destra abbia ragione, me ne rimango ostinatamente sui banchi della sinistra. E lo sai perché? Perché non posso fare altro. Se non esercito il potere non è solamente per pigrizia (…). È soprattutto perché al potere, così come si è strutturato prima di te e di me, io non riesco più a credere.”

È o no questo il lamento di un confuso elettore di sinistra di mezza età, di quelli che ci aspetteremmo da un Nanni Moretti sotto effetto di sedativi (e in piena crisi di ispirazione: il “parlamento interiore”? Oddio.)? Deluso dal mondo e, in particolare, dalla politica, in cui pure tanto aveva investito ai tempi dell’università, alla continua ricerca di certezze e soprattutto di un equilibrio tra coerenza valoriale e accettabilità sociale. Questo costante senso di disagio, di arretratezza e straniamento che pervade il libro non può che venire amplificato dalla presenza-assenza di un ragazzo in casa, che diventerà l’involontario capro espiatorio dell’insofferenza paterna verso il mondo. Dalla necessità dell’igiene alla passione per le escursioni domenicali, dal gusto nel vestire fino alle scelte sentimentali, l’alter-ego di Michele Serra non riesce a capacitarsi di come suo figlio, i suoi compagni di scuola, e con loro la società tutta possano essere così diversi da lui e, in particolar modo, dalla sua versione giovanile. Tutti i maldestri tentativi di avvicinamento alla realtà che il protagonista compie (la visita alla catena di abbigliamento Polan&Dompy, i colloqui a scuola, la semplice osservazione dei comportamenti del ragazzo) non sembrano far altro che convincerlo di quella “decadenza dei costumi” che i giornalisti più retrogradi annunciavano quando l’autore stesso era adolescente, all’inizio degli anni ’70.

Per questo ed altri motivi, Gli Sdraiati non può che essere definito un libro conservatore, se non proprio “di destra”, nel modo in cui l’autore si rapporta alle proprie scelte, alla società contemporanea e alle generazioni future.

Partendo dal primo punto, il peso del passato, vorrei ritornare all’estratto citato sopra, quello sull’educazione dei figli, che riassume alla perfezione l’enorme alibi che Serra e i suoi coetanei  si sono forniti per giustificare il loro difficile rapporto con la triade famiglia-società-politica. Bisogna, a mio parere, distinguere tra il concetto in sé del rapporto genitore-figlio, e le modalità con cui quest’attività viene svolta. Ovvero, sebbene esistano scelte “di sinistra” e “di destra” nel rapportarsi con i propri rampolli, la scelta di crescere e indirizzare un figlio non dovrebbe trovare schieramento in nessuno dei due fronti, essendo una necessità quasi fisiologica dell’uomo.

In parole povere, scegliere di non educare il proprio figlio, abbandonarlo a sé stesso e alle proprie scelte, non è di sinistra: è una non-scelta. Eccola, la giustificazione evergreen dei “non-sdraiati” di fronte a qualsiasi accusa mossa alla loro generazione, i baby-boomers, tanto economicamente benestanti quanto moralmente e colpevolmente sconfitti. Talmente forte è stato il trauma dell’essere cresciuti secondo una formazione “di Destra e di ordine”, sostengono, da spingerli a percorrere la via opposta, quella di rinunciare a qualsiasi pretesa di autorità e imposizione morale: in una parola, l’anarchismo. Il quale, di per sé, potrebbe essere anche una scelta condivisibile, se soltanto non fosse stato regolarmente svuotato dei suoi valori cardine, del fondamentale bilanciarsi tra i rischi e i benefici della libertà assoluta, per servire fini individualistici.

È inutile girarci intorno: a trasformare l’anarchismo e “la sinistra” in generale in una vuota ideologia, sfruttata soltanto per giustificare il proprio egoismo e disinteresse, è stata proprio la generazione di Serra. Non c’è quindi da stupirsi, e lo dico a rischio di suonare banale, dello stato dei cosiddetti progressisti in Italia e di come “gli sdraiati” ne siano completamente disinteressati e, soprattutto, disillusi.

Ora, vista la tragicità della situazione, l’unica via percorribile per ottenere l’autoassoluzione resta, come sempre, la demonizzazione del prossimo, in questo caso inteso in senso temporale anziché geografico: “non possiamo essere noi i responsabili di questo disastro in cui viviamo: dev’essere sicuramente colpa dei nostri vicini di casa, e dei nostri figli, ovviamente!”.

A questo scopo, ecco la scena dei colloqui, in cui, come da copione, i genitori (non Serra, che preferisce, come detto sopra, l’arma dell’indifferenza) sono impegnati a difendere a spada tratta il proprio figlio, persino dai suoi stessi problemi:

“La prof mi guarda e non capisce se sono lì per caso o se ero in coda, (…) mi scuoto, sorrido, mi piacerebbe dire “sono il padre di Giorgio Amendola e sono venuto a dirle che deve bocciarli tutti, (…)”, invece dico “sono il padre di Tizio, buongiorno”, e come tutti, mi imbarco in una vaga chiacchierata a proposito di una persona, mio figlio, che entrambi conosciamo poco e male”.

Un’ammissione di colpevolezza discreta ma sicuramente apprezzabile, non isolata nel libro, ma che non trova però riscontro nei comportamenti del protagonista. Le abitudini del figlio, anch’esso innalzato a rappresentante di un’intera generazione, vengono infatti sviscerate con calcolata precisione da Serra, come fosse l’unica via per espiare un peccato capitale. La colpa del “figliodimicheleserra” e della sua generazione, suggeriscono i sessantenni, è che, anziché stare stare sdraiati di fronte al PC, dovrebbero dedicarsi a scacciare gli anziani da quelle stesse posizioni che loro stessi si ostinano a non voler abbandonare.

Spero che la contraddizione di questo tipo di messaggio appaia chiara a tutti così come lo è per me: se la situazione è veramente questa, chi sono allora i veri sdraiati? I giovani, iperconnessi e irrealizzati, o i loro genitori, che rifiutano con tutte le forze il regolare corso della natura? Lo stesso autore, nella parte finale del libro, si dimostra consapevole di questa scarsa propensione al ricambio, anche se, ancora una volta, sembra farci intendere che, se il “padre” non ha ceduto prima, è soltanto perché il “figlio” non aveva insistito abbastanza, non aveva dimostrato di poterlo sostituire a dovere.

Photo Credit: La7

La mia idea è che Gli Sdraiati sia più un autoritratto di Serra, piuttosto che un affresco dell’adolescenza ai tempi di H&M, e che, preso come tale, riesca piuttosto efficacemente a trasmetterci l’immagine di una generazione, seppur non quella indicata dalla campagna pubblicitaria. Quello che contesto è che a prevalere nel libro, più che l’autocritica, sia la ridicolizzazione del risultato di quel disimpegno nella formazione filiale di cui si è parlato prima. In fin dei conti, chi è il “figliodimicheleserra”, se non appunto il figlio di suo padre?

Nel rapportarsi ai ragazzi, Gli Sdraiati è approssimativo, a tratti offensivo, anche se spesso coglie tratti autentici degli adolescenti di oggi, come accade sempre quando si maneggiano gli stereotipi. Serra non riesce a parlare di una generazione intera, la nostra, tra le più precarie e in movimento degli ultimi 50 anni, ma di una sua ristretta fascia: i figli dei più benestanti. In fondo, chi sta sdraiato, al giorno d’oggi, o si sta crogiolando nel benessere dei propri padri, o lo sta facendo a spese dei propri figli.

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