Siete voi che non avete capito le grafiche dell’Expo

In Italia siamo tutti espertoni di tutto e il nostro sport nazionalpopolare è criticare sempre e comunque tutto ciò che è nazionalpopolare come Sanremo, La Grande Bellezza e Anna Maria Franzoni.

Nel caso dell’Expo ci siamo accaniti per qualsiasi virgola fuori posto, dai casi di corruzione, al logo demmerda, dalle brutte figure con gli ospiti internazionali ai render fatti dai designer grillini.

Qui il generatore automatico di immagini per Expo 2015.

Ma l’ultimo capitolo del romanzo Expo FAIL denota invece l’ignoranza del volgo che vuole passare per l’espertone di grafica e trend forecasting che non è. Voglio dire, con tutte le fashion blogger e i trend setter che ci sono, davvero non posso credere che la gente non sappia distinguere un fail da un trend hipster del 2009. Ma nessuno c’ha Tumblr?

Tuttavia sono sicuro che almeno qualcuno di voi abbia sentito parlare di New Ugly. Lo so che “il brutto” è un concetto vecchio come il mondo o almeno come Platone/Aristotele, e che non ha senso applicarci un “new” davanti per creare una qualsiasi nuova etichetta del cazzo, ma c’è stata talmente tanta elucubrazione sul tema da aver prodotto anche molte (alcune interessanti) apologie o discettazioni. Ad esempio leggetevi Eco, Rosenkranz o anche la Teoria Estetica di zio Adorno quando parla dell’utilità del brutto. Insomma, un sacco di roba pronta a riconsiderare il perché e il come esistano tante cose che non si possono vedere, da Cavalli alle Crocs.

Ad ogni modo cercherò di dimostrare la buona fede dell’Expo e di risalire alla genealogia e ai precursori del New Ugly, questa sorta di no wave del graphic design. Lo so che è un’idea del cazzo ma qualcuno lo deve pur fare, tipo gli scioperi della fame di Pannella.

Sarebbe inutile e noioso improvvisare una cronistoria del “brutto ma bello/ma utile/ma interessante” senza per forza tirare fuori la banalità del fascino dell’orrido. Però si potrebbe partire da un saggetto del ’93, The Cult of the ugly, di Steven Heller, designer grafomane e tra le tante cose art director del New York Times (lo potete trovare anche online, cioè qui).

Oppure si potrebbe partire dal famoso, e contestatissimo, logo delle Olimpiadi 2012 di Londra, giusto per rimanere in tema fail creativi di super manifestazioni internazionali, o ancora, rimanendo nel Regno Unito, che nel trash ci sguazza come nell’Atlantico (prendi la tabloid culture), dal design di un magazine – credo ad oggi defunto/fallito – come Super Super, famoso, appunto, per il cattivo gusto urlato e disinibito delle sue cover, in barba a qualsiasi diktat fascio-frocio dall’alito vogue.

(qualcuno c’ha fatto pure un documentario che qualcuno ha pubblicato su YouTube)

In via del tutto seminale, all’epoca eravamo di fronte ad una certa irrequietezza pazzerella e, per la prima volta dopo le copertine di Cioè, pronta a trasformarsi in posa. Oggi, così come 4-5 anni fa, il New Ugly è una scelta.

Font demmerda, scortorni alla cazzo di cane, collage che sembrano roba da Power Point e fyer fatti in Word Art. Salta per aria la categoria del brutto come canone di proibizioni. Viene meno la maniera, la passione nel fare le cose giuste in modo bello, cioè appropriato.

In poche parole la questione è opporsi al glamour superpatinato, fighetto e politicamente corretto attraverso un’ignoranza acida e consapevole, fatta di trashate over kitsch, photoshop analfabeta, cazzeggio oltraggioso e disfunzionale, ma senza sfondare nel glitch. Insomma, il lato più troll del graphic design.

Il risultato deve essere a metà tra il ripugnante e il weird cioè quel tanto che basta per eccitare gli hipster che leggono Cronaca Vera e che ci sono rimasti sotto con l’artwork di Floral Shoppe.

È da prima che il 2000 battesse il primo decennio che Tumblr è pieno di malinconia digitale stile vaporwave.

Senza questa merda probabilmente non ci sarebbe stato il seapunk tanto quanto il new ugly. Pare che i principali responsabili di questo squallore un po’ cool siano da ricercare nella noia dei creativi e, come spesso accade, negli anni ’90. Un impulso quasi reazionario quanto, qualche anno fa, la riscoperta di Max Pezzali o di Gigi D’Agostino.

Pure la Gestalten pubblica, nel 2012, Pretty Ugly. Visual Rebellion in Design. Se scorrete le immagini di questo libro vi accorgereste di una certa nuance che flirta con quanto detto fino adesso, anche se in questo caso siamo in un ambito diverso, nobile, parliamo di un ugly ancora pretty. Ad ogni modo il brutto consapevole rimane il nocciolo della questione di un’avanguardia creativa che guarda al futuro (così dicono quelli di Pretty Ugly).

Come scrivono i bravi giornalisti nei post seri: “E in Italia?”.

E in Italia quelli che bazzicano la cattiveria di internet forse si ricordano un post su Avant La Guerre, Memores Domini. Era il 2011 e già si parlava di Expo, come si può notare sopra il cazzo del tizio incollato tra le nuvole e il Duomo.

Ma in realtà nel nostro paese il concetto di new ugly è stato portato alla ribalta dal Deboscio. Ad esempio attraverso la segnalazione di Troppa Moda, o di questo video o ancora dei tweet di Capezzone. Ma soprattutto da un post profetico, chiamato proprio La Grafica del Futuro, a proposito del flyer di Kreayshawn al Plastic.

Profetico fino a un certo punto se si considera il fatto che nel 2012 sto tipo di roba era già egemone nei Tumblr blog delle matricole dello IED sotto MD che poi si sarebbero drogate di Magalli.

Davide Colombo del Deboscio ha poi pubblicato Gianni (18 euri su Visiogeist), 200 pagine dove ammicca verso quel vento lì, chiaramente reinterpretato attraverso una certa critica (?) di costume ma in chiave ironica, proprio perché di questo atteggiamento si nutre la posa new ugly.

Il fatto è che siete stati fregati dall’Expo che chissà per quali vie ha assorbito tale lezione estetica, incasinata e raccogliticcia, dell’imbarazzante e inaccettabile ugly design del nuovo millennio. Un’operazione forse inconsapevole che si nutre degli Indignados di #CoglioneNo che ora fanno i maestrini sui social tanto quanto di tutti i vostri LOL.

Insomma, “Ugly is back”. Il brutto è in mezzo a noi, come trend subculturale, che dopo tutti questi anni di incubazione si sublima attraverso una sfacciata sfanculata in mondovisione.

L’Expo ci irride, assolata sotto i feroci riflettori degli haters (look at all the fucks I give), in modo sottile ma monumentale. Si prende gioco dei codici estetici del nostro tempo proprio come la famosa lettera di orgoglio Comic Sans su McSweeney’s. Esibisce un’arroganza bizzarra e ribelle che affonda nel burro della vostra incredulità. Ecco tutto. Spero che ora vi rendiate conto del granchio che avete preso.

Se credo davvero in tutto ciò che ho detto?
Ma anche no.

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