Grazia Cherchi, intellettuale del Novecento

[…] all’indomani della morte di Grazia Cherchi sentii che il miglior modo in cui i suoi amici potessero onorarla sarebbe stato il comportarsi come se Lei ci fosse ancora: con i suoi incitamenti, con i suoi netti giudizi, col conforto e la rassicurazione che ci venivano spesso dallo scoprirci d’accordo con Lei. Era una perdita che ci feriva e continua a ferirci: tanto nel cuore quanto con l’intelletto, nel privato e nel pubblico, nell’immediato pratico e nell’ideale.

Così il poeta Giovanni Giudici ricorda Grazia Cherchi nella prefazione di “Scompartimento per lettori e taciturni” (minimum fax, 2017), la raccolta di articoli della scrittrice, critica, giornalista, curatrice editoriale ed editor piacentina. All’epoca del ricordo di Giudici, Cherchi era scomparsa da due anni lasciando un vuoto incolmabile nel mondo editoriale e culturale italiano. É stata una pensatrice libera, controcorrente, diretta sin dagli esordi nei Quaderni Piacentini, rivista politica e culturale fondata con Piergiorgio Bellocchio e portata avanti con cura impeccabile per vent’anni. Tante le personalità intervenute nei Quaderni, da Franco Fortini a Gad Lerner, mentre Cherchi oltre a scrivere e a curare la direzione editoriale del progetto, diventava lettrice esterna per Mondadori e Garzanti e ampliava il suo orizzonte di critica e giornalista arrivando a collaborare, tra le tante testate, con Panorama (che lascerà dopo l’acquisizione del gruppo Fininvest), L’Unità e L’Indice.

L’opera di Grazia Cherchi torna in libreria con una nuova edizione del suo primo e unico romanzo, “Fatiche d’amore perdute”, minimum fax, occasione imperdibile per ritornare a parlare della suo ruolo chiave nella narrativa moderna italiana. A lei, infatti, il merito di aver portato al successo e, soprattutto, editato, gli esordi di Alessandro Baricco, Stefano Benni, Massimo Carlotto, Gianni Riotta e tanti altri esponenti della narrativa italiana negli anni ottanta e novanta. Con “Fatiche d’amore perdute” Cherchi accantonava il suo ruolo principale, lei che è stata la prima editor professionista in Italia, vera e propria pioniera del mestiere, per un romanzo di conversazioni, genere da lei molto amato.

Foto di Alessia Ragno

Una grande casa nella campagna piacentina avuta in prestito è il luogo d’incontro di Grazia con altri dieci fra amiche e amici. Sono passati vent’anni dagli ultimi contatti, nel frattempo la vita è andata avanti e Grazia, protagonista e alter ego dell’autrice, propone loro un weekend insieme per raccontarsi, colmare gli anni passati e scrivere un libro sull’incontro. Il risultato è un romanzo essenziale con protagonisti invecchiati dal passato complicato e dai ricordi struggenti, resi nichilisti dal corso della vita, ma ancora capaci di celebrare lo stare insieme e generare nuove idee. Non c’è una conclusione vera e propria, il dubbio è che la disillusione vinca su tutto, anche sul blando snobismo da élite culturale, ma le intenzioni del personaggio Grazia sono sincere e calorose e scaldano i pensieri delle persone presenti. Qua e là Cherchi scrittrice inserisce riflessioni alte sul mondo culturale a lei contemporaneo (il romanzo è del 1993), sulle dinamiche donne-uomini, quest’ultimi definiti «fragili e patetici» in un paio di occasioni, perché fragile è il loro ego, soprattutto nella mezza età. Incombe un senso di fallimento latente, mai conclamato o devastante, è come se Grazia e i suoi ospiti siano consapevoli di ciò che è stato, delle lotte politiche e culturali abbandonate sul campo perché la missione aveva perso forza, delle relazioni sbagliate che tolgono vitalità agli anni migliori; ma nonostante questo c’è ancora spazio per progettare, anche se privi della forza della gioventù. Anzi, il dubbio è che di fatto inseguano sogni consapevoli che tali rimarranno.

La cura e la competenza leggendarie della figura professionale di Cherchi emergono anche in questo romanzo, in cui ciascuno degli ospiti ha un capitolo dedicato e una storia da raccontare riportata come in una narrazione orale di tempi antichi. Di fatto i tempi sono davvero antichi, siamo negli anni novanta, quel sistema sociale, politico e culturale non esiste più; di lui rimangono soltanto i danni irreversibili che ha causato. A fine lettura sembra di aver spiato dalla finestra piccoli e grandi fallimenti di un’élite che ci ha provato, ma non è riuscita a cambiare le cose.

Se, però, Grazia personaggio lascia intendere, senza esplicitarlo, un fallimento subdolo, Cherchi scrittrice brilla a imperitura memoria come esempio di intellettuale. Scrittrice per questo romanzo e una raccolta di racconti, “Basta poco per sentirsi soli”, critica e giornalista, a lungo autrice di rubriche dedicate alla narrativa contemporanea, di cui Cherchi era avida lettrice (affermava di leggere almeno 7/8 libri a settimana in un articolo su Panorama del 1986), di interviste e ritratti dei maggiori esponenti della letteratura italiana, ma, soprattutto, editor. Grazia Cherchi è stata la prima editor professionista, dalla sua scrivania son passate le opere prime di Baricco e Benni, si diceva prima; il suo occhio severo ha giudicato esordi di pregio e mai pubblicati, i suoi segni a matita hanno sforbiciato e reso essenziali capitoli interi. Famoso l’episodio narrato da Stefano Benni, che ha lavorato con la guida di Cherchi da “Terra!” a “Elianto”, riportato anche dal profilo bio-bibliografico a cura di Fabio Stassi, contenuto in questa edizione di “Fatiche d’amore perdute”:

«Grazia ha telefonato: / “Finalmente mi hai mandato / un vero romanzo / asciutto e stringato”. / Grazia, da mesi di dirtelo tento, / era la lettera d’accompagnamento»

É Cherchi stessa a citarlo per la prima volta in un suo articolo su Panorama del luglio 1987, scusandosi per la digressione «un po’ narcisistica».

Non ha remore Cherchi, si esprime in totale libertà nelle sue rubriche e affonda la penna nei fenomeni editoriali, nelle cattive abitudini delle case editrici, nelle dinamiche della critica che sono ancora le stesse trent’anni dopo. Di manoscritti ed esordienti diceva, con piglio severo:

Da qualche lustro, e non per hobby, leggo dattiloscritti di narrativa italiana. Dico subito che il mestiere di lettore implica, oltre a una certa propensione al masochismo, anche il carico di una notevole responsabilità morale: forse anche per questo è tra i peggio pagati d’Italia.
Chi manda questi dattiloscritti? Un po’ tutti. Infatti, com’è noto, tutti credono di saper scrivere un romanzo. Carta e penna sono di uso generale e, così si crede, la lingua italiana, il cui vocabolario fra l’altro va sempre più comodamente riducendosi. Quindi il tassista come il cardiologo, il commercialista come il portiere prima o poi un romanzo rischiano di scriverlo.

Della critica individuava tre correnti: l’accademia, da lei definita «noia», la pubblicitaria, «a servizio dell’autore (e dell’editore) e non del lettore», e quella d’autore, cioè «di romanzieri e poeti specialisti in preamboli» in cui «il libro è un pretesto per parlare di sé» Era il gennaio del 1987. Dubitava anche delle stroncature scritte per spettacolo, un «prodotto della fabbrica del divertimento» per generare rumore.

Il tiro al bersaglio sembra divertire, tanto più se, come ho già scritto, praticato con mano pesante. E i libri questa dev’essere stata l’idea di fondo avevano bisogno di essere desacralizzati: forse, presi in giro come tutto, incuteranno meno timore ed entreranno più nell’uso. Si registra così un ritorno al gioco letterario, sia al deplorevole gioco della torre sia a quello di indicare i libri più belli e più brutti dell’anno appena trascorso. E questo – lo ribadisco perché è il punto dolente – «nel contesto di nessun contesto».

Lamentava con schiettezza il poco ricambio del giornalismo culturale in Italia:

Chi è poi a scrivere questi supplementi? Sempre gli stessi personaggi, ossessivamente e pervicacemente; anche questo non dà certo aria alle pagine, dato che si ha pure l’impressione che certe firme, spremute come limoni, consegnino a questi spazi non dico i loro scarti (per carità, è gente che non scarta mai nulla di quanto scrive), ma i loro pezzulli-frammentini in perenne attesa di un’improbabile rielaborazione. Ma non c’è scampo: un po’ questi «soliti noti» sono richiesti, un po’ non vogliono mancare l’occasione di un’ennesima presenza: se non firmano anche lì, perdono un colpo rispetto agli altri.

E per concludere cita, sempre nello stesso articolo del marzo 1989 sull’Unità, «l’impenetrabile muraglia eretta dalla vecchia guardia».

Grazia Cherchi è stata scrittrice, giornalista, critica ed editor brillante, professionista capace di analizzare le dinamiche del lavoro editoriale, da lei tanto amato, con una precisione tale che le sue si sono trasformate in previsioni per il futuro, guida per il presente e monito sul passato. Ma la sua eredità, lo dimostra “Fatiche d’amore perdute”, emerge anche nel lavoro da scrittrice, perché pure se nell’unico romanzo, Cherchi non tralascia di raccontare l’impegno politico di una vita, il valore dato alla militanza, alla figura dell’intellettuale e al lavoro culturale come «progetto collettivo».


Per approfondire

Grazia Cherchi, Scompartimento per lettori e taciturni, minimum fax 2017
Giulia Tettamanti, Tuffarsi nell’altrui personalità. Il lavoro di editor di Grazia Cherchi, Unicopli 2016
Grazia Cherchi, un editor che ha lasciato il segno Oblique
Maria Panetta, L’ingombrante presenza dell’editor. Il dibattito sul ruolo degli editor negli ultimi decenni in Italia 

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