Handmade Festival, o della meglio gioventù

Hanno i tatuaggi e le camicie larghe, qualcuno dalle occhiaie della tirata notturna precedente sente i brividi, mentre dall’altro lato giocano a palla o ridono soltanto. Si stendono per terra e si portano da casa i lenzuoli per combattere l’erba che punge, si guardano per poco, sudano insieme e nemmeno si conoscono. Non si parlano alla fila per il bar e nemmeno pregano insieme, anche se il rito a cui partecipano è lo stesso. Si raggruppano e si dissolvono, giusto il tempo che il sole si abbassi definitivamente sull’ultimo palco e porti un po’ di pace alla loro pelle arrossata. C’è la musica, e ce n’è tanta, ma il racconto dell’ottava edizione dell‘Handmade Festival di Guastalla è soprattutto fatto delle persone che si sfiorano e si incrociano più volte, rincontrandosi con quelle che rimangono più impresse, come una polaroid che scade una volta finita di svilupparsi e assume il suo valore già passato.

Due ragazzi si arrampicano sul fieno, dalla collinetta si vedono i Pueblo People che si esibiscono e tornano in mezzo al pubblico, con la musica o a concerto finito.Da un altro palco arrivano già dei suoni nuovi e il flusso si sposta. Vedi quello alto che canta le canzoni in prima fila, ti chiedi come possa non spezzarsi muovendosi ossessivamente in tutto quel caldo. Altri insieme a lui, i capelli avanti e indietro, le ginocchia che cercano il loro ritmo. Ti infili, cerchi di arrivare più vicino, non tanto per avere una visuale, solo per prenderti il primo suono che esce. Emigrano da un’ombra all’altra del pomeriggio, arrivano sul palco A gli In Zaire, che ti fermano per un attimo la circolazione sulla pista dove si raggruppano tutti per tanti motivi. Ti sembra di notare qualche capello bianco e un po’ ridi, ma è solo un pensiero passeggero, credere di stare invecchiando. È stato lo psych o solo un movimento sbagliato che ti ha fatto finire contro qualcuno e a sorridergli scusandoti, per poi dimenticartene quando ti è successo di nuovo con qualcun altro o quando è capitato a te, e un po’ di birra ti è caduta sulle scarpe. Anche quando hai bisogno di sederti e di una pausa non ti fermi, vedi gli altri e ti fai forza, girano con il bicchiere di plastica dura attaccato alla cinta quando è vuoto, i capelli hanno i colori degli arcobaleni, guardi alle braccia che hanno storie da raccontare ma che non scoprirai mai. L’inchiostro è solo una traccia, come quella che speri di aver lasciato in chi ti ha fatto incrociare lo sguardo con il suo. Forse è perché ti piace, scovare sempre qualcosa che tutti gli altri giorni è nascosto sotto le camicie o fra qualche libro di testo. Gli In Zaire ti hanno svuotato del senso del tempo, quello che oggi non sembra più seguire una linea retta, mentre lo spettro dei sentimenti ti ricollega alla sua personale rotta poco oggettiva. E forse c’erano prima i WOW, forse erano dopo, sai solo di esserci stato e di esserti fatto immergere in un’altra dimensione, del tutto diversa da quella di prima, seguendo le movenze di un nuovo genere, per poi continuare la tua metamorfosi col gruppo successivo. È salutare, fa meno male delle sigarette che si accendono, il lasciare da parte la professionalità e cercare di immergersi in qualcosa che stanno provando tutti, quella serenità, ognuno a modo suo. I tavoli si riempiono delle cene, ti danno una carta salta fila che poi dirada il traffico dalle casse per dirigerlo a quello delle spine, ma la commessa era così carina che non hai potuto dire di no. Ti giri e in un soffio vedi Colleen Green, verde come il vestitino che indossa, che si esibisce subito dopo i Surf City mentre il sole scende. La segui, e gli altri sembrano seguire te. Ma quel dopocena è arrivato così velocemente che non te ne sei nemmeno accorto. E la buona musica è tra le colpevoli di tutta questa fretta. Qualcuno già saluta, col passeggino e la faccia stanca, domani si lavora, per quelli che possono ancora godere di meno responsabilità sociali si prosegue a un’altra stazione. Ed è il finale dello show quello che aspettano, fra qualcuno già troppo avanti con la mente e il fegato e quelli che sono arrivati da poco. I Jennifer Gentle ci mettono una vita a fare il soundcheck, ma li perdoni appena iniziano a suonare. Finiscono presto, peccato, potevano suonare di più. Tocca ai Warm Soda, dall’altra parte, ma qualcuno non si sposta e altri si aggiungono sulla pista principale. Non ti aspettavi che i Diiv potessero, con i loro cappelli stravaganti, nei loro corpicini, essere in grado di stravolgere tutto quello che avevi appena vissuto. E tra i pezzi di Oshin c’è spazio per il nuovo album che sembra non arrivare mai, e ti rendi conto solo dopo di essere fra i pochi ad averlo ascoltato in anteprima. Le ginocchia e la schiena ti invitano al ritorno, e la ripetizione della loro provenienza newyorchese invece ti fa sentire pronto per ripartire. Ormai nel buio non vedi più nessuno, li senti lì vicino, e tu con loro, pensando che, forse, non c’è davvero modo migliore di questo per comprendere cosa significhi la festa della Repubblica. Perché forse ti senti parte, per uno strano valore, di quella meglio gioventù, e perché non ti possa sentire così tutti i giorni. Che forse si sbagliano a darci tutti per spacciati.


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