I bei tempi di quando c’erano i Weezer

È una drammatica sensazione quella di parlare di fine anni novanta, nonostante i nostri fossero gli anni zero, anni di dispersione e dall’odore di bruciato che, se siamo diventati così, è anche per colpa loro. Eravamo sotto cappelli di tela da pescatori maremmani, portavamo magliette che solo a ricordarli ci vengono i brividi. Pochi cd masterizzati che a malapena reggevano il repeat di quei lettori ingombranti. I tempi delle registrazioni delle cassette via radio erano già finiti e il costo delle pile alcaline ti costringeva spesso a farti prendere degli ep da tre tracce piuttosto che un disco intero. Non erano tempi diversi, quelli eravamo noi, la difficoltà a scoprire cose nuove, prima che internet arrivasse e cambiasse tutto. Da un certo punto di vista, seppur più maturi, in pochi anni il nostro background culturale è stato raggiunto in fretta dalle altre generazioni, sistemandoci in una situazione meno complessa di quanto possa apparire. Quando c’erano i Weezer, che scoprivi per caso in un film di seconda categoria, fermandoti ogni volta ai credits a fine film per appuntartelo, stavamo meglio o forse è solo nostalgia. Non si tratta di fare confronti con quelli che ci sono adesso, possiamo disprezzarli ma la verità è che non possiamo capirli, e a salvarci dai talent e i loro prodotti è solo una questione di età.

 

Sono idee che non ci hanno mai davvero abbandonato. Rivers Cuomo a Beverly Hills con Hugh Hefner, una mandria di nerd finiti poi al Lucca Comics, da quando anche l’indie si è sdoganato. Succedeva che a un semi sconosciuto Spike Jonze, prima di John Malkovich e di Her, venisse l’idea di mettere quattro giovani musicisti che cantavano Buddy Holly dentro alle scene di Happy Days, due tempi diversi uno dentro l’altro. Anche lì, però, ci siamo arrivati dopo. Per quello, quando erano già qualcuno, ci si sono attaccati addosso ancora prima di capire quanto quella spensieratezza potesse raccontare delle nostre adolescenze a distanza di anni. Alla fine è una questione di trovarsi in mezzo a tutto, fra l’effettiva esplosione dei dischi e non la sua decadenza, o a internet e al suo miracolo culturale che, probabilmente, non si è nemmeno ancora esaurito (per fortuna). Il rumore di Pork & Beans dentro una prima playlist fra i Nirvana e i Motley Crue, o quello di Say It Ain’t So appena fuori città.

 

Non c’erano comunque solo i Weezer nelle compilation rubate alle riviste che a malapena vincevano lo spazio nei confronti di Cioè nell’edicola sotto casa, ma di tutti gli altri se ne sono perse più o meno le tracce e solo le playlist consigliate di YouTube te li riportano alla mente. Forse è stato solo un affare affettivo, senza il bisogno di reunion, perché non ne abbiamo ancora l’età, anche se tutti hanno già superato i quarantacinque e questo si sente anche nelle derive di Everything Will Be Alright in the End il loro ultimo album che, probabilmente, non abbiamo nemmeno ascoltato.

Non era una rivoluzione la loro, e di roba innovativa ne abbiamo sentita tanta, e molto altro ci è passato dentro. Il loro ruolo è stato un altro, probabilmente, e quando ti torna in mente dimostra quell’equazione in cui ognuno può inserire la propria x per scegliere come raccontare i propri ricordi. Quanto erano diversi quei tempi insieme ai Weezer, o forse eravamo solo noi a piacerci di più, Buddy Holly in volo prima di cadere.

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