I film del decennio | L’Indiependente

Con il 2019 si chiude un decennio che ha visto stravolgere il senso stesso della parola “cinema”. Fino a pochi anni fa era ancora una parola in grado di evocare tanto un’arte quanto il luogo – per molti aspetti magico – dove godere di quell’arte; oggi invece il cinema, inteso come film, vede sempre più ampliare  – o ridurre, dipende dai punti di vista – le sue possibilità di fruizione. L’avvento e quindi la crescita di piattaforme digitali, in primis Netflix, per la visione in alta qualità homevideo e il loro ruolo nella produzione degli stessi film potrebbe – come già sta avvenendo – mutare per sempre il rapporto tra pubblico e opera filmica con esiti che appaiono ad oggi imprevedibili. Ecco allora, per voi, una selezione – non una classifica – di quei film che secondo i nostri redattori e per ragioni quanto mai variegate e differenti hanno segnato quella che potrebbe passare alla storia come l’ultima decade in cui il cinema è rimasto in fondo non lontano dallo spirito e della fruizione dell’intero novecento.

Mommy, Xavier Dolan, 2014

Se dovessi portare con me un regista e uno soltanto di questo decennio sarebbe senza ombra di dubbio Xavier Dolan. Non solo perché è uno di quelli che ti fa chiedere cosa stai facendo nella vita tu, che all’alba dei trent’anni sei a fare l’aperitivo dal mercoledì sera mentre lui è già all’ottavo film (uno più incredibile dell’altro), ma perché ha trovato il modo di tradurre un’intera generazione. Una forse meno problematica di quella che traspone sullo schermo, e che non sempre riesce a relazionarsi al 100% con suoi drammi famigliari (soprattutto nel caso di Mommy), ma che, grazie a un background condiviso, ne riesce a cogliere a pieno il disagio e il contesto socioculturale. Cresciuto come molti di noi negli anni ’90 con il pop, le serie TV, gli arredamenti improbabili e una tecnologia ancora allo stato embrionale, Dolan interpreta e dirige personaggi che ci sembra di conoscere, con i quali dall’inizio condividiamo pensieri e preoccupazioni. Attraverso una minuziosa indagine psicologica ed espedienti geniali come la ratio 1:1 di Mommy, che forzando si allarga e libera il protagonista, il regista canadese sembra aver trovato la chiave per trasformare storie di una maturità sorprendente in opere memorabili. Veronica Ganassi

Shame, Steve McQueen, 2010

Il secondo lungometraggio di Steve McQueen venne presentato in concorso al Festival di Venezia, dove Michael Fassbender conquistò la Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile. Shame è un film sulla dipendenza, sulla difficoltà di stabilire rapporti e di comunicare con chi ci circonda. Brandon è incapace di relazionarsi con la sorella Sissy (Carey Mulligan) e ricorre al sesso per sfuggire al dolore. Al passato del personaggio, McQueen non fa mai allusione; l’unico indizio sui due protagonisti è fornito da Sissy quando esclama “we’re not bad people, we just come from a bad place”. La pellicola è caratterizzata da sequenze memorabili, su tutte quella in cui Carey Mulligan interpreta New York, New York in un club di Manhattan. La macchina da presa si concentra su un intenso primo piano dell’attrice, alternandolo all’inquadratura di Brandon; nell’ascoltare il brano, l’uomo è gradualmente portato alla commozione. È la scena più esplicativa del film, in cui i due personaggi, incapaci di comunicare attraverso le parole, sembrano giungere ad una sorta di intesa attraverso la canzone. La comprensione tra Brandon e Sissy dura però soltanto per quel breve momento. Shame è un film dominato dalla pulsione, dal desiderio di raggiungere qualcosa che neanche i personaggi sanno riconoscere. I due vivono in un underworld dal quale non riescono a sfuggire, fatto di umiliazione e vergogna. Dopo il devastante Hunger, Steve McQueen realizza un’altra pellicola in cui mette a fuoco le debolezze umane. Shame è sicuramente uno dei film più ipnotici e affascinanti visti in questa decade. Viola Pellegrini

Moonrise Kingdom, Wes Anderson, 2012

Lo stile di Wes Anderson ha ormai un’originalità drammaticamente familiare. Ha reso delicata la simmetria e quotidiano il senso del grottesco. Ha sdoganato la vergogna riguardo all’assurdità delle nostre esistenze prima che iniziassimo a provarne imbarazzo e le tute dell’Adidas quando i Korn ancora stavano alla cassa di Foot Locker. Poco più di un manierista elegante che ti spinge alle soglie del rigetto estetico o un genio e un innovatore assoluto dalla sensibilità unica? Ognuno ha la sua teoria al riguardo e ha già scelto da che parte stare. Moonrise Kingdom riassume la questione in una storia classicamente andersoniana: un amore imberbe dentro un’America ancora innocente e avventurosa entro certi limiti (ma mai oltre la soglia del boy-scout), sommessamente disfunzionale nel suo linguaggio tanto impacciato quanto privato e nel suo universo distinto e perfettamente autosufficiente, dove a vincere davvero è la commedia gentile più che l’eleganza formale. Un film prezioso che ci racconta senza drammi una verità ancora troppo poco popolare: ovvero che scappare, a volte, è davvero il primo passo per affrontare le proprie responsabilità. Simone Fiorucci

Spring Breakers, Harmony Korine, 2012

Fa un certo effetto vedere ex stelle di Disney Channel come Vanessa Hudgens o Selena Gomez tra le protagoniste di Spring Breakers, visione coraggiosa e psichedelica sulla degradata vacuità della generazione X, diretta da Harmony Korine con uno stile molto vicino a quello del videoclip, eccessivo nello sfoggio di colori pop accesi, droga, promiscuità e musica che parte dalla dubstep di Skrillex per arrivare a Britney Spears (quest’ultima al centro della sequenza più memorabile del film). Spring Breakers segue le vicende di un gruppo di ragazze “acqua e sapone” ma sessualmente disinibite che, per finanziarsi la loro “vacanza da sballo” allo Spring Break, festa primaverile dove la gioventù americana si abbandona a qualsiasi tipo di eccesso, arriveranno addirittura a rapinare un negozio e a mettersi in combutta con un criminale (James Franco). È un film fastidioso, citazionista (il finale ricorda molto Scarface di Brian De Palma), difficile da guardare e da accettare, dotato di un messaggio affilato come un coltello che la superficie patinata non fa che rendere ancora più forte. Forse non è esagerato considerarlo il Gioventù bruciata dei nostri giorni. Riccardo Antoniazzi

The Tree of Life, Terrence Malick, 2011

Il capolavoro definitivo di uno dei registi più misteriosi di Hollywood. Tre ore e otto minuti che racchiudono una visione del mondo come la cosmogonia che in essa è contenuta. Tree of Life è la storia di una famiglia, di un lutto e di una crescita. Un bambino – interpretato nelle poche scene da adulto da Sean Penn – scisso tra le due possibili vie alla vita: quella della Natura, riassunte nelle idee e nel rapporto con il padre (un eccellente Brad Pitt) e quello della Grazia, incarnata dall’accogliente madre Jessica Chastain. C’è dentro tutto il Malick-pensiero, l’ossessione per il male, per l’armonia e la sua distruzione, pagine di Heidegger e sinfonie di Mahler, dinosauri e immagini di un Dio dormiente sotto gli abissi degli oceani. È un testamento, è un punto di arrivo formalmente a un tempo perfetto ed esuberante di idee, di inquadrature, di movimenti di camera che creano vertigini agli occhi e al cuore. Film definitivo, culmine di una carriera cui è rimasta, dopo questo film, l’eleganza formale e il brivido sempre più raro di un’idea che possa ancora aggiungere qualcosa. Fabio Mastroserio

The Social Network, David Fincher, 2010

David Fincher sa come cinematografare una storia, e nel corso dell’ultimo decennio ha tirato fuori almeno un paio di film importanti come The Social Network e Gone Girl. Le sue pennellate scure danno un tocco di classe stilistico alle pellicole, ci piace perché sa come mostrarci i nostri orrori privati con un realismo che si contorce in modo viscerale. The Social Network racconta la nascita dell’impero di Mark Zuckerberg, da dove viene quella scintillante parte di Silicon Valley che domina le nostre giornate, e per quali casi e incastri il mondo dei social sia riuscito a insinuarsi nelle nostre vite. Con una colonna sonora dell’inquietudine, opera di Trent Reznor e Atticus Ross, The Social Network è un film da vedere, e che in parte ci attrezza anche a quello che sta per arrivare nel prossimo decennio. Giovanna Taverni

 

Birdman, Alejandro González Iñárritu, 2014

Non è certo una novità il fatto che il successo di un film spesso dipenda dalla scelta dell’attore protagonista. Soprattutto se il film stesso è essenzialmente sull’attore protagonista. Dopotutto, hanno inventato il concetto di casting apposta. Eccoci quindi già al dunque: una tragicommedia da backstage su una ex stella di Hollywood, un tempo nota per la sua interpretazione di un supereroe e ora tristemente decaduta. Alzi la mano chi ha pensato a Michael Keaton e a Batman Returns. Birdman — essenzialmente girato dentro, fuori e attorno al St James Theatre di NYC — se la gioca da subito con sofisticata arroganza, provando a risolvere il tutto in un (più o meno) unico piano sequenza, a tratti così riuscito da risultare quasi un difetto. Nel senso che la perfezione della coreografia della camera — in prima battuta, nel suo circo mozzafiato — quasi distrae dal resto. Il resto va sotto le voci di sceneggiatura e performance. Entrambi su livelli che ormai ci eravamo dimenticati dai tempi di Essere John Malkovich. E anche lì — giusto per chiudere il cerchio — non era un caso che l’interprete principale fosse… John Malkovich. Simone Fiorucci

Drive, Nicolas Winding Refn, 2011

Drive conquista lo spettatore fin dalla sua sequenza di apertura: nella notte losangelina, due ladri fuggono dalla scena di una rapina grazie ad un driver che riesce ad eludere la polizia. È una scena adrenalinica anticipatrice di quanto seguirà. Diretto da Nicolas Winding Refn, Drive segna la consacrazione di Ryan Gosling che qui dà volto al protagonista. Il suo personaggio non ha nome e nei credits della pellicola è semplicemente chiamato driver. La sua è un’esistenza relegata all’underbelly di Los Angeles; fa lo stuntman, ripara auto e guida per chiunque lo paghi. L’incontro con Irene (Carey Mulligan) segnerà però un cambiamento; il silenzioso driver inizierà a provare delle emozioni. Quando si ritroverà coinvolto in un complotto ai danni del marito di Irene (Oscar Isaac), driver darà inizio ad una spietata vendetta. Winding Refn continua la sua esplorazione di figure borderline attraverso una regia sofisticata che trova la sua massima espressione nelle sequenze notturne della seconda parte del film. Il fascino di Drive sta nel suo sapore retrò ottenuto anche grazie all’uso della musica elettronica di Kavinsky e dei College, ingredienti essenziali per l’atmosfera della pellicola. Viola Pellegrini

Chiamami col tuo nome, Luca Guadagnino, 2017

L’incontro con un giovane e affascinante ricercatore universitario nell’estate che cambierà la vita al diciassettenne Elio, in vacanze con la colta famiglia in provincia di Crema. Ma Chiamami col tuo nome – quinto film del regista palermitano – non è, va da sé, solo la storia di un incontro, è molto più che questo: è un sogno vitale e malinconico a un tempo capace di annebbiare tutti i sensi. È un film voluttuoso, che ti avvolge in maniera sensuale dalla prima all’ultima inquadratura, che racconta come in pochi hanno saputo fare, i turbamenti dell’adolescenza, la scoperta del sesso, della vita e di se stessi. È un’ode al desiderio, alla freschezza di un’età che oggi troppo spesso si vuole fugace per lasciare spazio a una più efficiente maturità, e che qui è dipinta con tutta la forza che invece le appartiene, quella dell’assoluto, dell’iperbole, del parossismo delle emozioni, del travolgimento dei sensi e della ragione, del desiderio che batte nella testa e la sconvolge, che la apre alla vita e si fa scrigno di ciò che si è realmente. Fabio Mastroserio

Maps to the Stars, David Cronenberg, 2014

Film che si colloca coerentemente lungo il percorso tracciato da David Cronenberg a partire da A History of Violence per una progressiva e visionaria decostruzione cinematografica del sogno americano, Maps To The Stars è un sequel spirituale del precedente film del regista, Cosmopolis. Se in quel caso a venir attaccata era la vacuità celata dietro il mondo del capitalismo finanziario, in Maps To The Stars si va a fondo del marciume nascosto tra le pieghe glamour di Hollywood. Lo star-system di Cronenberg è un nido dove vengono covati individualismi, arrivismi egoisti, psicologie deviate e negazione del sentimento. La fatica iniziale che si prova di fronte al ritmo lento della prima parte è il giusto tributo da pagare per godersi appieno un attacco terroristico filmico alle ipocrisie e alle convenzioni, pieno zeppo di personaggi scomodi e folli con cui può risultare respingente entrare in sintonia. Il tutto magnificamente orchestrato da una regia stilisticamente glaciale e perfetta, in grado di colpire con scene di immensa carica visiva e provocatoria. Riccardo Antoniazzi

Love, Gaspar Noè, 2015

Quinto lungometraggio dell’irriverente e provocatorio regista franco argentino, Love ne è forse ad oggi la sua massima espressione compiuta. Tentativo – riuscitissimo, va da sé – di film erotico che vuole sconvolgere il pubblico generalista con sesso reale, non simulato, tra eiaculazioni in primo piano (e in 3D per chi scegliesse l’altra possibile fruizione visiva) e menage a trois di indicibile bellezza estetica e di straordinario stordimento emotivo (sulle note di Maggot  Brain dei Funkadelic), Love – con un trio di esordienti non professionisti che si fatica a dimenticare: Aomi Muyock, Karl Glusman e Klara Kristin – ripercorre ancora una volta à rebours le ossessioni sul rapporto col tempo di Noè. Ma dietro l’erotismo esibito, il montaggio esasperato, le ellissi cronologiche Noè nasconde come per ogni Eros lo specchio del sua Thanatos fra malinconie dichiarate e non dette, struggimenti sentimentali, terrificanti cadute nel vortice del vuoto e del desiderio. Fabio Mastroserio

Paterson, Jim Jarmusch, 2016

Jim Jarmusch, come pochi grandi artisti, ha il dono di riuscire a comunicare in modo incantevole attraverso molteplici mezzi: compone, suona, dirige, scrive e ognuna di queste cose gli riesce brillantemente come se nella sua testa tutte le porte fossero spalancate e tutti i suoi istinti collaborassero a un unico, perfetto risultato finale. Nell’ultimo decennio la summa di queste sue abilità è stata sicuramente Paterson, un piccolo gioiello che in un intreccio, tutto sommato semplice, racchiude la poesia di un’esistenza. Uscito nel 2016 e candidato a diversi premi (tra cui la Palma d’oro), Paterson è uno dei film che meglio descrivono la condizione di tranquillità e tensione, serenità e dubbio a cui spesso ci sentiamo ancorati; una risposta all’istinto che nei secoli ci ha portati a creare e a cercarci (e riconoscerci) nelle opere stesse. Una storia commovente e delicata che trova in Adam Driver (altro motivo per ringraziare questo decennio) un interprete intenso e impeccabile a cui il ruolo sembra cucito addosso.  Veronica Ganassi

Her, Spike Jonze, 2013

A rivederlo oggi, Her di Spike Jonze, la suggestione distopica sembra farsi ancora più realistica di quando è uscito nel 2013. Anche se il futuro raccontato da Jonze è a tratti claustrofobico ed esasperato, l’immaginario di una finzione romantica ammalata dal contatto tra uomo e intelligenza artificiale sembra avvicinarsi sempre più al destino dell’umanità del futuro. Con un Joaquin Phoenix che si dimostra uno degli attori più versatili dell’intero decennio, e la seduzione di Scarlett Johansson – che ci affascina anche solo con la voce – Her riesce a piazzarsi come uno di quei ricordi cinematografici che, mentre proviamo a rimuovere, risale a galla con i suoi colori e il suo mondo futuribile e retrò, il suo eccesso di romanticismo senza scampo, e quella dose di disumana dolcezza dentro cui un giorno potremmo spietatamente sprofondare. Giovanna Taverni

Inception, Christopher Nolan, 2010

Matrix applicato a un James Bond a caso? Memento aggiornato ai tempi di Blade Runner? Il Cavaliere Oscuro che cade nella tana del Bianconiglio mentre Alice atterra a Gotham City? Sticazzi. Nell’era del cinema da centro commerciale, Christopher Nolan insiste a voler costruire cattedrali e grattacieli. Solo per questo andrebbe ringraziato. Che poi lo faccia con l’unico scopo di farli collassare su loro stessi e magicamente ricostruire gli uni nelle altre è soltanto l’ennesimo punto a suo favore. Il fatto è che siamo così abituati a sentirci trattare da idioti che ogni accenno di cerebralità spinta ci sembra una sega mentale. Qualcuno che, mentre si masturba il cervello, ci masturba il cervello. E che mentre lo fa si attiene scrupolosamente alle sue regole sulla masturbazione. Cosa si dovrebbe chiedere di più al grande schermo di questi tempi? Il pregio più grosso di Inception è tutto meno che scontato: come si richiede ai migliori atti di autoerotismo, premia l’attenzione che pretende. Dove sta il suo trucco? Facile (si fa per dire): prima di essere un film sui sogni è un film che sogna. In grande. Simone Fiorucci

The Hateful Eight, Quentin Tarantino, 2015

Nel suo nono film, Quentin Tarantino dirige un western atipico con la stessa struttura (dalla decisa impronta teatrale) de Le Iene. The Hateful Eight è infatti una sorta di chamber piece, ambientato quasi interamente in un’unica location. Il regista ritrova i suoi attori di fiducia, Samuel L. Jackson, Tim Roth, Michael Madsen e Kurt Russell (protagonista di Death Proof) a cui si aggiungono Bruce Dern, Jennifer Jason Leigh e Tatum Channing. Gli otto del titolo, colti da una tempesta di neve, sono costretti a cercare rifugio nell’emporio di Minnie. Qui trovano però qualcosa di inusuale; della padrona, che non è solita abbandonare la locanda, non c’è nessuna traccia e chi si trova nell’emporio sembra nascondere la sua vera identità. Sarà il personaggio di Samuel L. Jackson a far luce sulla verità. In The Hateful Eight, come in ogni pellicola di Tarantino, è la narrazione ad essere il punto di forza. La sceneggiatura, scritta dallo stesso regista, possiede un ritmo incalzante, scandito da inaspettati colpi di scena che culmina nella sequenza finale, in un’esplosione di violenza splatter, a cui il cinema dell’autore ci ha ormai abituati. Girato in 70 mm, il film vanta anche una splendida colonna sonora scritta da Ennio Morricone, per cui il compositore vinse il premio Oscar. Uno dei migliori film di Quentin Tarantino. Viola Pellegrini

Nebraska, Alexander Payne, 2014

Nebraska non ha bisogno di troppe presentazioni: candidato a numerosissimi premi tra cui Oscar, BAFTA e Golden Globes, ha avuto come unica sfortuna quella di uscire in un anno, il 2014, ricchissimo di lungometraggi notevoli. Questa sfortunata coincidenza ha fatto sì che un film di una potenza rara risultasse quell’anno quasi normale, rimanendo nelle sale molto meno del dovuto e subendo l’eclissi di alcune interpretazioni magistrali che, seppur indubbiamente meritevoli, a distanza di cinque anni mi sono rimaste molto meno di questo meraviglioso lavoro di Alexander Payne. Le tematiche trattate, la scelta del bianco e nero e lo sguardo ironico e amaro sulla provincia americana e sulla vecchiaia, sfociano in un connubio perfetto di malinconia e tenerezza che fa venire voglia di mettere in pausa le nostre faccende e telefonare a casa. Veronica Ganassi

 

Holy Motors, Leo Carax, 2012

Dopo i successi di critica di piccoli capolavori come Mauvais Sang e Les amants du Pont-Neuf il regista francese porta sugli schermi un film libero e indipendente in cui le costrizioni economiche – che lo spingeranno a girare con Red Epic digitali – esaltano per contrasto tutta la forza di un’immaginazione senza limiti. Holy Motors, ad oggi il suo ultimo film, racconta ventiquattrore nella vita di un uomo che cambia costantemente personaggio e identità – il suo attore feticcio Denis Levant – in una Parigi che, come le storie che la abitano, cambia di continuo atmosfera e paesaggio. Ma è sopra ogni cosa un atto d’amore sconfinato verso il cinema e, insieme,  un lungo – ora esplosivo, ora contemporaneo, ora passatista, ora malinconico – incredibile addio alla stessa visione dell’arte e della finzione cinematografica. È un requiem del cinema e sul cinema, sul potere della recitazione, della narrazione di storie e di tutta la poesia che si crea in una sala buia con un telo bianco illuminata dalla luce. Fabio Mastroserio

Gainsbourg (vie héroïque), Joann Sfar, 2010

È sempre complesso realizzare un biopic, soprattutto se stai provando a raccontare una vita disordinata come quella di Serge Gainsbourg. E invece il regista e illustratore Joann Sfar ci mette quel tocco di magia capace di rendere Gainsbourg (vie héroïque) un piccolo cult, e non solo per appassionati di musica e parole del grande chansonnier francese. Così Serge ne esce fuori come personaggio stilizzato dall’animo fumettistico, con quei tratti unici che riescono a distinguerlo in un panorama di facce e canzoni ordinarie. Il film scorre piacevolmente trascinandoci in una storia di dannazioni e piccoli drammi creativi, mentre affondiamo nel dolore insieme a Serge per la breve apparizione con fuga di Brigitte Bardot, e riemergiamo innamorati quando ad apparire è invece Jane Birkin, interpretata da una Lucy Gordon che ci dirà addio troppo presto – come se per osmosi si agitasse una maledizione pure su questo progetto di film sul grande maledetto. Gainsbourg (vie héroïque) non nasconde, non risparmia, e non condanna: uno splendido ritratto di un artista ai tempi dell’arte libera. Giovanna Taverni

Mad Max: Fury Road, George Miller, 2015

A trent’anni dall’ultimo capitolo di una trilogia di successo con protagonista Mel Gibson, il regista George Miller riprende il disturbante futuro post-atomico pseudomedievale che gli ha dato fama e fortuna, impartendo a più di settant’anni una sonora lezione di regia a chiunque voglia confrontarsi con un cinema action più fisico e analogico che non trascura comunque un forte sottotesto sociale e politico. Con una trama giocata ben spesso sui non detti e apparentemente assente, ma scandita e sviluppata dalle azioni dei suoi memorabili personaggi, Miller guida per mano lo spettatore in una parabola di redenzione e morte che non concede tregua nelle sue continue iniezioni di adrenalina. E sebbene a farla da padrona sia il campionario di scene d’azione brutali e dal ritmo serrato (ma sempre chiarissime nella grammatica della regia e del montaggio), l’intimismo e la poesia di alcune sequenze emerge in momenti impensati che insaporiscono lo spessore di un gioiello di genere che non lascia mai spazio agli stereotipi. Riccardo Antoniazzi

Interstellar, Christopher Nolan, 2014

Tutti sappiamo che esperienza straniante sia farsi un viaggio nella mente di Nolan. Prima di Interstellar non avevamo però idea di cosa comportasse sbirciare dentro al suo cuore. La sorpresa non sta tanto in un ribaltamento di prospettiva (la maestosa analisi interiore di Inception sparata nello spazio-tempo infinito), quanto piuttosto in uno di aspettative. Se il primo poneva domande ma veniva a patti con l’assenza di chiare risposte, Interstellar fornisce tutte le risposte eppure non evita di risparmiarti la sensazione che sia tu stesso a non aver pienamente afferrato la domanda. Chi siamo? Da dove veniamo? Dove stiamo andando? Ci arriveremo? Quanto amore sprecato ci costerà il viaggio? Quanto ne riavremo indietro alla fine? A dispetto dei nazi della meccanica quantistica e della teoria della relatività ristretta — che da subito hanno spulciato il film fino alla dissezione atomica, alla ricerca di incongruenze tecnico-filosofiche — Interstellar altro non è che la perfetta manifestazione di quello che si era proposto di essere, ovvero una splendida “2014: Odissea nello Spazio” che accarezza — non senza dolore, ma sicuramente senza soluzione di continuità — l’inesplorata intimità cosmica dell’essere umano. Simone Fiorucci

El Club, Pablo Larrain, 2015

È il capolavoro etico ed estetico di uno dei più grandi registi della sua generazione. Opera immaginifica, disturbante, totalizzante che si fa riflessione tra le più profonde sul peccato, sulla punizione, sulla responsabilità, sull’espiazione e sull’assoluzione. El Club racconta la storia di quattro preti che sono stati destinati a scontare in qualche modo le loro colpe – gioco d’azzardo, connivenza col regime di Pinochet, abusi, traffici di bambini poveri –  in una casa sul mare. Girato sulla costa cilena, a La Boca, con una fotografia straordinaria e mozzafiato, virata sulle tonalità plumbee dell’azzurro e del blu, con l’uso di grandangoli deformanti, El Club è un’esperienza visiva indimenticabile. Un’opera coerente, dura, granitica che nulla concede al piacere dello spettatore, alle sue attese, alle sue aspettative: estetiche, etiche e morali. L’opera di un regista indipendente che ha per solo padrone il suo solo talento e la sua sola visione. Fabio Mastroserio

The VVitch, Robert Eggers, 2015

Dal 2015, anno della sua uscita, The VVitch, è diventato rapidamente un piccolo caso mediatico. Per rendersene conto è sufficiente fare una ricerca su internet: pagine e pagine di recensioni, teorie, video esplicativi, forum creati ad hoc e altro, tutto a dimostrazione del fatto che Robert Eggers, che piaccia o no, ha colpito nel segno. E che sia perché il genere horror necessitasse di una nuova spinta (trovata oltre che in Eggers nel collega Ari Aster, regista di Hereditary e Midsommar) o per il reale interesse per le tematiche e il modo in cui sono affrontate, poco importa; il film è un insieme perfetto di attenzione stilistica e ricerca filologica che abbandona finalmente il retaggio dei vari jumpscare e scene esplicitamente splatter per addentrarsi nelle profondità psicologiche dello spettatore, incapace di credere ai suoi occhi. Tra costumi e lingua d’epoca, un cast d’eccezione (Anya Taylor-Joy, Ralph Ineson) e una fotografia desaturata inquietantissima, The VVitch ci insegna anche una lezione imprescindibile: fidarsi ciecamente di tutti i film distribuiti dalla A24. Veronica Ganassi

Lady Bird, Greta Gerwig, 2017

Greta Gerwig aveva già dimostrato di essere un’ottima scrittrice con le sceneggiature di Frances Ha e Mistress America (realizzate assieme a Noah Baumbach). Il suo debutto dietro la macchina da presa ha però stupito tutti. Lady Bird è un racconto in parte autobiografico, in cui la Gerwig ritrae le difficoltà che si incontrano nel diventare adulti. Christine “Lady Bird” McPherson (Saorsie Ronan) frequenta l’ultimo anno del liceo e non ha un buon rapporto con la madre. Vive a Sacramento, ma detesta la piattezza culturale della città e vuole lasciarla per frequentare l’Università a New York. Il tema del coming of age è uno dei più affrontati al cinema; la Gerwig non cade però in prevedibili cliché avvicinandosi alla brillantezza del racconto di American Graffiti perché, oltre ad essere un film sulla crescita, Lady Bird, come il film di Lucas, è un affresco sulla realtà provinciale americana. Il cinema insegna che l’ultimo anno di liceo è un momento decisivo nella vita dei giovani americani. Anche in Lady Bird la protagonista vive delle esperienze fondamentali, che la porteranno a scoprire qualcosa in più su se stessa e a dimostrare il proprio affetto (in maniera quasi diretta) nei confronti della madre. Con Lady Bird, Greta Gerwig si è confermata una delle giovani voci più interessanti nel panorama cinematografico.  Viola Pellegrini

Il filo nascosto, Paul Thomas Anderson, 2017

Esercizio di stile d’autore, se ce n’è uno, Il filo nascosto di Paul Thomas Anderson è uno dei più eleganti che si possa ammirare. Saggio sulle fragilità di una mascolinità non in grado di approcciarsi all’universo femminile, sull’isolamento emotivo e su un romanticismo ruvido e perennemente sul filo del rasoio che separa dalla follia, Il filo nascosto si avvale di una magistrale prova d’attore di un sempre gigantesco Daniel Day-Lewis, il meticoloso ma tormentato sarto british Reynolds Woodcock, contorniato da una schiera di comprimari di primissimo livello. Il piglio molto classico di Anderson gioca con il ritmo blando e con i silenzi pregni di significato per raccontare una storia d’amore sia fastidiosa che lirica in un’armonia di costumi, ambienti, colori e luci che affascinano e colpiscono senza mezze misure occhio e mente. Riccardo Antoniazzi

The Lobster, Yorgos Lanthimos, 2015

Distopia turbata e perturbante che racconta di una società dove alle persone single vengono concessi quarantacinque giorni per trovarsi una compagna o un compagno con cui fare coppia prima di essere trasformati nell’animale che loro stessi hanno il compito di scegliersi – da cui l’aragosta del titolo – The Lobster si colloca forse un passo indietro rispetto alla genialità e all’angoscia che permeavano il suo Kynodontas (2009) ma ha avuto certamente il merito – con il suo essere apparentemente meno ostico e grazie a un cast stellare (Colin Firth, Rachel Weisz, Lea Seydoux) – di far conoscere al grande pubblico l’opera del nuovo genio registico del cinema greco, vera e propria testa di ponte di un movimento ellenico del quale è impossibile non nominare almeno Athina Rachel Tsangari (Attenberg) e Alexandros Avranos (Miss Violence). Geniale nel soggetto, affascinante nella sceneggiatura e nell’ambientazione – dall’albergo al bosco dei dissidenti – rigoroso nella sua impostazione che tanto deve al cinema kubrickiano. Fabio Mastroserio

Il cigno nero, Darren Aronofsky, 2010

Ricorda una versione di Scarpette rosse sotto l’effetto di acido” aveva scritto il critico di Indiewire Todd McCarthy su Il cigno nero. Il film di Darren Aronofsky è effettivamente un viaggio allucinato che sembra derivare dalla surreale sequenza di danza della pellicola di Powell & Pressburger. Al centro della storia, la ballerina Nina (Natalie Portman) chiamata ad interpretare il ruolo da protagonista ne Il lago dei cigni. Pur essendo tecnicamente preparata per affrontare il personaggio di Odette, Nina non possiede la sensualità richiesta nell’incarnare il cigno nero, Odile. Questo scatenerà nella donna una sorta di discesa agli inferi, alla ricerca del suo lato oscuro. Aronofsky affronta il tema di una vita votata all’arte, in cui la protagonista arriva a sacrificare tutto, persino se stessa, per raggiungere la perfezione stilistica. È un film che si spinge fuori dagli schemi, toccando toni da horror e rimandando ai thriller psicologici Rosemary’s Baby e Repulsion, entrambi diretti da Roman Polanski. Il cigno nero è anche il trionfo di Natalie Portman, vincitrice dell’Oscar per questo ruolo, mai prima d’ora così convincente. Viola Pellegrini

Blade Runner 2049, Denis Villeneuve, 2017

Stimato dalla critica per i suoi drammi secchi e crudi, attenti alla cronaca come Polytechnique e Sicario, e dopo aver abbracciato per la prima volta la fantascienza d’autore con Arrival, il regista canadese Denis Villeneuve si misura con un progetto tanto ambizioso quanto pericoloso: Blade Runner 2049, sequel diretto del capolavoro di Ridley Scott datato 1982. La pellicola fa proprie l’estetica cyberpunk e la psicologia noir del suo illustre predecessore, accentuandone la cupezza e il nichilismo, ma non si limita esclusivamente a presentarsi al pubblico come una delle esperienze visive più viscerali del decennio (giustamente premiata con un Oscar la fotografia di Roger Deakins), e al contempo funge sia da sintesi definitiva di tutto ciò che la fantascienza moderna ha proposto al cinema negli ultimi decenni che di espansione di tutte le affascinanti digressioni esistenziali del film di Scott (vi è pure un approfondimento in chiave più platonica della questione erotica legata all’intelligenza artificiale vista in Her di Spike Jonze). Pubblicizzato come un action fantascientifico frenetico, Blade Runner 2049 è andato incontro a un clamoroso insuccesso commerciale, indice che probabilmente il pubblico odierno non è più abituato a un certo immaginario futuribile più meditativo e meno “fracassone”. Riccardo Antoniazzi

La grande scommessa, Adam McKay, 2015

Una via di mezzo tra The Wolf of Wall Street e Silicon Valley. Con meno champagne ed escort del primo e la nerdaggine di quest’ultima applicata a quella crisi economica che il vostro partito di riferimento (qualunque esso sia) continua a prendere come scusa buona per giustificare la propria inettitudine. Il risultato è una vera e propria crime story che in certi momenti veste — suo malgrado, ma con un certo piacere sadico — i panni della commedia folle, su come prima consentire una rapina premeditata e poi montarci attorno l’opportuna polemica. La Grande Scommessa, in un colpo solo, conferma il nostro comune cinismo disilluso nei confronti dell’alta finanza, ma in compenso riaccende una insperata fiducia nella capacità di Hollywood di saperla raccontare. Nonostante qualche trascurabile raffica di termini strettamente tecnici che ti porta sull’orlo dell’emicrania — accuratamente compensata da un montaggio da Oscar — Adam McKay riesce in un’impresa non da poco: rendere il fantasma della bancarotta globale e le catene dei suoi numeri meno misteriosi, quasi intelligibili e — beata incoscienza — a tratti divertenti. Simone Fiorucci

The Florida Project, Sean Baker, 2017

Che questo film, diretto da Sean Baker e uscito nel 2017, abbia fatto così poco rumore è un mistero difficile da spiegare. Non solo perché ha tra i protagonisti un Willem Defoe al massimo della forma, ma soprattutto perché è semplicemente perfetto sotto ogni punto di vista. È una storia toccante e reale, raccontata con straordinaria leggerezza attraverso gli occhi di Moonee, una bambina di sei anni che fa di un motel nei pressi di Orlando il suo personale parco giochi. Tutto all’interno del film diventa necessario, dai colori pastello, alle inquadrature grandangolari e distorte, fino alla colonna sonora che, inesistente per la quasi totalità del tempo, esplode nell’intenso e velocissimo climax finale che ci colpisce con una violenza inaspettata. Uno scontro tra due mondi, l’infanzia e l’età adulta, che nel corso del film si contaminano e si perdono nei loro stessi confini facendo trionfare un unico, struggente sentimento comune: l’innocenza. Veronica Ganassi

 

Roma, Alfonso Cuarón, 2018 

Alfonso Cuarón torna a casa, nel quartiere di Colonia Roma a Città del Messico per raccontare un intreccio emotivo che si muove su più piani e si condensa in Cleo, una ragazza india impiegata presso una famiglia borghese inaspettatamente in crisi. Tutto convive nelle immagini di Cuarón, emancipazione e sofferenza, distacco e lutto, perfino rivoluzione e repressione. Se ne è parlato così tanto, per quella scelta di non passare per i cinema, poi trasformata in un periodo ristretto di proiezione, che vederlo fallire sarebbe potuto essere quasi un sollievo. Invece Cuarón si avvicina alla perfezione, trasforma il passato affidando al bianco e nero il compito di restituire un’epoca tramontata senza richiami nostalgici, rinnovandolo attraverso il lavoro artigiano di uno scultore che crea nuova vita dalla materia instabile che caratterizza la propria biografia. (Recensione)

 

The Master, Paul Thomas Anderson, 2012

Cinque anni dopo aver firmato il capolavoro There will be blood (Il Petroliere), P.T. Anderson realizza un’altra pietra miliare del cinema tutto del terzo millennio. The Master è solo lontanamente ispirato alle vicende reali del fondatore di Scientology; è, soprattutto, un’opulenta messinscena dal sapore shakespeariano del rapporto complesso mai banale tra maestro e allievo, tra la calma e l’intelligenza di un manipolatore di folle e un rozzo, istintivo – ma infinitamente vitale – reduce della seconda guerra mondiale che porta, come gradi sul petto, tutte le ferite psicologiche dell’orrore bellico. Con una fotografia straordinaria – filmata in pellicola a 70 mm – e la colonna sonora maestosa di Jonny Greenwood è però evidente come l’intero film sia costruito su due prove attoriali indimenticabili affidate al compianto Philip Seymour Hoffman e a uno degli attori più rappresentativi dell’intera decade, Joaquin Phoenix. Fabio Mastroserio

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