La migliore superband italiana dal vivo | I Hate My Village al Circolo della Musica

Con la settimana lavorativa agli sgoccioli e le giornate che lentamente si allungano, il pensiero di trascorrere una serata in compagnia di una nuova superband italiana si affaccia nell’anticamera della mente ogni volta che lo sguardo si posa sull’orologio. Il conto alla rovescia è scandito dal passaggio inesorabile dei compiti che la routine della propria occupazione determina, senza slanci emotivi né tristezza, fino a quando la penna cade sulla scrivania e la mano si stacca definitivamente dal mouse.  L’auto corre lungo corso Francia, l’interminabile rettilineo cadenzato da una striscia continua di semafori rossi, che collega Torino a Rivoli, dove l’ex Maison Musique ha riaperto i battenti, trasformandosi in Circolo della musica, un nuovo spazio dedicato all’aggregazione e alla cultura musicale.

L’aria frizzantina, neanche fossimo arrivati in una località di montagna, ci accompagna fin dentro al locale e per qualche ora la città rimane fuori da quelle porte. I protagonisti della serata sono gli I Hate My Village, i primi a inaugurare la rassegna Non abbiamo bisogno di parole. Dopo di loro, per altre tre date sarà la volta di Laraaji con Tomat/Petrella, Colin Stetson e Paolo Spaccamonti (in anteprima per Jazz is Dead 2019) e The Master Musicians of Jajouka led by Bachir Attar.

Un giovedì sera soldout in attesa di quattro dei musicisti più talentuosi del panorama italiano contemporaneo: Adriano Viterbini dei Bud Spencer Blues Explosion, Fabio Rondanini, batterista negli Afterhours e nei Calibro 35, Marco Fasolo dei Jennifer Gentle e Alberto Ferrari dei Verdena che porta con sé chitarra e voce. Li vediamo salire sul palco uno dopo l’altro, come pedine ubbidienti mosse da fili invisibili. In un primo momento viene da chiedersi cosa ci facciano insieme sul palco, poi iniziano a suonare e capiamo. Così diversi, ma mossi dalla stessa passione, quella per la musica africana e non solo. È proprio la voglia di mettersi in gioco a unirli, come se prima di diventare gli I Hate My Village avessero deciso di accettare la sfida per cui ognuno si sarebbe impegnato a fare sempre di meglio e a farlo insieme, mescolando suoni, esperienze, anni di concerti su palchi piccoli e grandi di festival e locali italiani, ma anche varcando i confini nazionali, alla ricerca di quello che ancora c’è da imparare e da mettere in pratica.

Per un’ora e un quarto quattro universi paralleli si avvicinano, anche se non arrivano mai a toccarsi. Fa un certo effetto vedere in mezzo alla scena Adriano Viterbini, così fisico e pieno di energie, fasciato in luminosi jeans chiari accanto ad Alberto Ferrari, che sembra, invece, far di tutto per allontanarsi dai riflettori, nascosto nella penombra di una nicchia all’estremità del palco. Due musicisti agli antipodi che si guardano attraverso, quasi specchiandosi. Lo show inizia roboante con lo starnazzare di galline in lontananza: non siamo in un pollaio, ma nella dimensione sonora dei Verdena. Dai suoni sincopati di Presentiment, incalzanti e vibranti per scaldare l’atmosfera in sala, passiamo per la tribale Acquaragia e attraverso i suoni psichedelici di Fare un fuoco (ed è un attimo trovarsi in un video degli Stone Roses) fino alla potente e orecchiabile Tony Hawk of Ghana, in cui da una parte vediamo Rondanini scatenarsi, immerso in un lago di sudore, e dall’altra notiamo con piacere che anche quel baronetto di Fasolo è in grado di scomporsi.

Il concerto si conclude con una cover di Don’t Stop ‘Til You Get Enough di Michael Jackson, al centro della quale emerge il falsetto di Alberto Ferrari che ci lascia senza parole (non quanto i suoi grazie mille alla fine di un paio di canzoni, ma quasi) e Tubi Innocenti di Adriano Viterbini che il pubblico attento riconosce al primo accordo. Un’ora intensa di show è volata, lasciando sulla bocca dei presenti in sala un coro di “Ah.”, come se le parole fossero superflue a dare un giudizio nei confronti di quella che già sulla carta era una superband italiana, ma che nella realtà dei palchi diventa una conferma tangibile o meglio udibile. Un’esperienza sonora di questo tipo è quello che mancava in Italia e, ora che esiste, non avete più scuse per non andare a sentirli.


In attesa del prossimo live, li potete ascoltare qui:

 

Exit mobile version