I racconti bui

Stage of mind - Jee Young Lee (All Rights Reserved)

Erano racconti bui quelli che avremmo fatto ai nostri figli. Che senza madre non ci nasci e senza maestri vale poco la pena di farlo. Tremanti ragazzini sbattuti nel mezzo del transito, l’immagine del self-made man di tutti, di cui non sapevi chi fosse il burattinaio, di chi il merito perché tutto quello che c’era dietro non veniva mai a galla. E, allora, non conoscendone la natura, quella che umana è di replicazione, ci siamo creduti davvero figli di nessuno e, tanto meno, fratelli. Ma forse era la tattica dei promotori di incubi, vederci l’uno contro l’altro a contenderci gli ultimi pezzi a galla della nave che affonda, dimenticandoci di chi ci aveva insegnato a nuotare. Siamo le cattive notizie del giornale del pomeriggio, fra la pausa pranzo e le fotocopie, salvati da uno spazio pubblicitario per carine casalinghe in crisi di peso.

Addormentarci in più letti ci avrebbe reso le cose più colorate ma i cuscini più solitari al ritorno, ritrovandoci di nuovo nella solita casa. Dalle istantanee per coprire il tempo e dai rullini bruciati per lo stesso tramonto sulla palazzina fuori città, di noi tutti artisticamente annoiati, nella vetrina di un facebook qualunque, come premio della polizza del fallimento statale e delle personalità che stavano sempre dietro le quinte a dirci quando applaudire al nuovo capo di governo, alla sua caduta e risurrezione. Sul fatto che gettare le cartacce nei cestini sia più importante che lanciare pietre oltre il nostro mare, per gli errori da cui nessuno aveva ancora imparato. Per una fondata ipotesi sul ricambio generazionale potremmo essere la prima umanità che conosce tutto ma non sa più cosa dirsi perché un poco fantasioso giornalista ci già listato i motivi per cui dovremmo essere felici o come scopare senza sporcarsi. Questi guru del good living senza pensieri, del momento di relax, capaci di scoprire il club del 27 solo quando se ne sono già andati tutti. Forse è che in vita non ci pensi, che poi la gente se ne va, finché non tocca a te su una macchina storta di ritorno dal paradiso, o soltanto perché la ruota gira male e quello che succede sempre agli altri è toccato alla fine solo a te. Ma erano i mali minori, quelli superficiali, che erano destinati ad affondarci. Quelli che uccidono silenziosamente dentro più che fuori, mentre sei impegnato a recitare la parte del supereroe alternativo che la novità non ti appartiene, che lentamente crescono con l’età e non sono solo i mal di schiena o quell’hangover che sembra non passare più.

Non ci avevano preso per le scintigrafie di campione perché sapevano che non avrebbero trovato quello che cercavano, e lasciarci senza risposte era più di un cancro. Sui radar impazziti, tra gli aerei che si scontravano, c’eravamo noi a raccogliere le macerie della catastrofe della provincia che i nostri nonni si ostinavano, sangue e ossa, a voler chiamare nazione sopra le montagne. Ma ai loro eredi poco sarebbe rimasto. Le questioni del testamento, diventate puramente economiche, nell’assurda realtà di non aver nulla da lasciarci alle spalle se non case di cartone e serate senza filtro per pochi eletti.

Erano le piccole cose, noi impegnati in grandi progetti embrionali, a sfuggirci più del treno delle quattro verso il mare. Ed eravamo noi i capostazione della nostra eterea Roma nord. Puntini impazziti su statistiche poco gaussianamente obiettive, in cui soltanto perché ce ne si andava si era più aperti, o più tristi o soltanto più deboli. Ditelo a Tito Livio, che l’impero non è caduto per i suoi vizi ma soltanto quando ha iniziato a guardarsi dentro e nessuno ha più voluto cadere della dannazione senza prendere parte a quel banchetto. E che non è vero che le nostre aspettative faranno la stessa fine dell’albero che cade nella valle, perché noi dentro alla foresta abbiamo fatto rumore, più che germogliando crollando, ma nessuno si è fermato a credere che potessimo averlo causato noi.

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