I sogni di Mevlidò di Antoine Volodine

Sulla città, le nuvole si erano fatte di bitume, con vampate elettriche e lampi deliranti che non riuscivano a produrre altro che un accenno di tuono

Continua la pubblicazione da parte della casa editrice 66thand2nd dell’opera di uno dei più grandi e misteriosi romanzieri contemporanei: Antoine Volodine. Dopo Terminus Radioso (pubblicato in Italia nel 2016), Il post-esotismo in dieci lezioni, lezione undicesima e Gli animali che amiamo, è il turno de I sogni di Mevlidò con un volume – va subito detto – che è splendidamente curato. Pregevole nella carta, come nella grafica, fino all’uso di un inchiostro di un azzurro carico che ne fanno un oggetto di splendida fattura.

Ho scoperto Volodine grazie a Luciano Funetta. La bellezza scintillante che si nascondeva dietro il cupore del suo Dalle Rovine mi aveva condotto tra le pagine online di TerraNullius: “L’uomo aveva il potere di scatenare un viaggio – scriveva Funetta – numerosi viaggi, viaggi come tempeste e come canti”.

Francese di origini russe – influsso fortemente presente – Volodine è solo l’eteronimo più popolare di un autore che dopo gli esordi nella fantascienza ha dato vita alla corrente letteraria del post-esotismo: una sintesi personalissima di realismo magico ed evocazione trasfigurata della storia del Novecento, di impegno di fortissima matrice politica e l’incanto della dimensione onirica. Un mondo fatto di rimandi e di specchi nel quale gli altri suoi eteronimi – Manuela Draeger, Lutz Bassman, Elli Kronauer – nascondono sia le firme dietro le prime opere, che i personaggi dei suoi stessi romanzi in un labirinto nel quale è impossibile non percepire l’ombra di modelli altissimi quali Borges, Pessoa, Cortázar come anche di autori a lui maggiormente contemporanei come Roberto Bolaño. Ma se tutti i nomi citati – pur nella loro diversità – possono essere in qualche modo uniti da un filtro dominato dalla matrice latina, la letteratura di Volodine si inscrive certamente dentro a un immaginario che guarda con maggiore attenzione al mondo orientale e alla letteratura russa.

Il Mevlidò del titolo è un poliziotto allo sbando in un mondo lontanissimo nel tempo e nello spazio imprecisato. Siamo “alla fine della Storia, per non dire della fine di ogni cosa” dopo che “le guerre contro i ricchi erano tutte state perse”. Ha quasi cinquant’anni – qualcosa per cui “l’orrore lo invadeva, mentre il nulla si avvicinava a grandi passi”. È incaricato dagli Organi, le supreme Autorità, di infiltrarsi tra gli abitanti di Pollaio Quattro “un immenso ghetto, ingestibile, un mondo parallelo senza fede né legge, rifugio di sub-umani e folli”, a Factory Street dove vive con la sua compagna Maleeya Bayarlag “ingoiata dalla pazzia” che “non esprimeva altro che angoscia e smarrimento”. Pollaio Quattro è uno scenario che Volodine descrive con sorprendente fascino e altrettanta maestria: ci sono uccelli mutanti che parlano e si comportano come esseri umani – Gorgha “corvo femmina di rara bellezza” e l’avvoltoio Alban Glück, Sonia Wolguelane “figura importante della nostra notte […] la pelle ricoperta di una sottilissima peluria, uno sguardo conturbante” di professione: assassina politica. Ci sono vecchie bolsceviche “regredite allo stato selvatico, folli” che gridano slogan tutta la notte, c’è soprattutto la luna:

Una luna gigantesca. Occupava metà del cielo, azzerando tutte le stelle e trasformando in sagome sghembe tetti e cime degli alberi, visto che adesso c’erano anche gli alberi […] Imputridiva i sogni di noi folli e se ne fregava.

Fin dalle primissime pagine colpisce l’efficacia della scrittura, a un tempo ricercata e chiarissima. Ogni frase è attraversata come da una tensione e da una malinconia che appaiono palpabili. È difficile non restare coinvolti da una scrittura che costruisce intorno a noi la stessa atmosfera nella quale si muovono i personaggi. Ogni cosa sembra possedere un’anima in Volodine: persone, animali, cose – “L’ascensore si ricordò all’ultimo secondo che non c’era alcun piano seminterrato e si bloccò in tutta fretta con un grido”.

Il mondo che Volodine costruisce pagina dopo pagina assomiglia a una giostra spettrale capace di confondere ad ogni giro e che è in grado di mescolare i piani temporali con riferimento a un passato inquietante – la fine della Seconda Unione Sovietica, i genocidi perpetrati da baby soldati – “ragazze e ragazzi con rosari di orecchie e scalpi sul petto” – la “scomparsa degli spagnoli” – e un presente/futuro dove ogni cosa è svuotata di senso – “anche i più risoluti tra noi subodoravano ormai in qualsiasi atto la vacuità insita dell’agire”.

Volodine riesce a farci sentire il calore opprimente, lo schifo dei ragni, il terrore nevrotico di una perpetua notte bianca, persino gli odori – quello di “mandorla amara” di Linda Siew che, in un vestito shocking green è protagonista di una memorabile scena corale che cita esplicitamente Il Maestro e Margherita di Bulgakov; quello di Maleeya che “sapeva di buio, di sonno intriso di sudore, di pazzia, di carne priva di speranza” – l’umido della pioggia, la paura dell’oscurità, il sapore acre e ferroso del sangue.

È una scrittura evocativa che richiama a sé, come attraverso un rito sciamanico, scenari di povertà, miseria, desolazione e un futuro indefinito, fondendo in una visione a tratti cinematografica le angosce di Blade Runner col melò di autore alla Wong Kar-wai.

Le immagini di lei preferisco averle in testa, così posso evitare di vederle

Perché i sogni di Mevlidò racconta anche e soprattutto di solitudine, di amore, di donne. Gorgha, Sonia, la psichiatra Maggie Young, Maleeya sono tutte parte di un presente che non riesce a cancellare il passato racchiuso nel ricordo della donna della vita di Mevlidò: Verena Becker. Il vuoto, l’assenza, la mancanza sono il macigno che pesa violentissimo dentro la sua memoria. Se l’impianto è quello di una distopia fantascientifica, il cuore pulsante del libro sta tutto nei contrasti tra Amore e Morte, tra Luce e Ombra, dentro le grandi domande di un’umanità abbandonata da Dio.

Per uno spettatore poco sospettoso, era semplicemente uno dei tanti giovani individui dal sesso intercambiabile, disoccupati o meno, che spuntano fuori da un cantiere o da un ghetto, con in testa un po’ di musica, un po’ di miseria e, in mezzo a un guazzabuglio di idee vaghissime, la richiesta di farla finita il prima possibile con ogni cosa.

Se – come scrive Volodine – “il destino di Mevlidò aveva seguito quello della rivoluzione mondiale, fatto di scelte sbagliate, crimini idioti, distorsioni psicotiche, stagnazioni e abominevoli stravolgimenti” la storia raccontata, il suo percorso, la grana delle emozioni che suscita, si fanno specchio quanto mai spaventoso e agghiacciante di ogni possibile desolazione contemporanea. Soprattutto nella seconda parte, quando – senza nulla anticipare – il libro implode su se stesso, finendo col tracciare un percorso angosciante di senso perduto e di impossibile ricerca che quasi evoca la poetica spettralità delle sequenze cinematografiche del cinema di Andrej Tarkovskij e al contempo si fa riflessione più ampia sul destino umano e su quello più personale della sua stessa letteratura: “l’arte di Mingrelian, che molto deve al post-esotismo, gioca con l’incertezza, il non finito, la confusione dei contrari, il nulla”.

Le comuni egualitariste vengono smantellate o bombordate con l’acido, i fumi velenosi, il napalm.

Ma I sogni di Mevlidò – come se non fosse già tanto – è anche un libro politico che, prefigurando una catastrofe, sembra voler anche ammonire sulle possibili tragedie che ci aspettano, acquattate negli oscuri budelli della Storia in un’eterna lotta tra il potere e i vinti. È, in definitiva, un libro che ricorda a noi lettori, qual è il valore altissimo della letteratura, di un autore misterioso che da anni traccia possibili percorsi alternativi nei meandri di una nuova affascinante e potente narrazione.

Forse ho già vissuto tutto questo, mormorò. O una sua variante. Con il mio nome o con il nome di Mevlidò o di un altro. Oppure accadrà dopo. O mai. O forse resterà lì, in una forma di sogno dimenticata.

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