Il Capitale Umano: come Paolo Virzì ha conquistato l’Italia

Per addentrarci nel nuovo film di Paolo Virzì, Il Capitale Umano, commedia/thriller/dramma ambientato nell’hinterland milanese, non si può non iniziare dall’imponente onda mediatica che ne ha anticipato l’uscita nelle sale. Un’onda che ha iniziato il suo inesorabile cammino molto prima della mediaticissima indignazione dei sindaci brianzoli (da rileggere, per chi se li fosse persi, i tragicomici articoli di Belpietro su Libero e De Gregorio su Repubblica), ma che, almeno geograficamente, trova la sua origine non lontano dal set lombardo del film: a Torino, per la precisione.

Gli apprezzamenti dei critici, il classico caso mediatico “destinato a fare clamore” (vedi sopra), persino l’ambitissimo endorsement del clan di FazioFabio sono infatti noccioline di fronte alla spaventosa copertura riservata al Torino Film Festival che Virzì ha diretto quest’anno.Successo straordinario di critica e pubblico”, hanno ripetuto ogni giorno, per settimane, come un mantra, tutte le principali testate nazionali, con una partecipazione ostentata, fortemente emotiva, di quelle che il giornalismo nostrano solitamente riserva a tre categorie di notizie: i “drammi nazionali”, i “successi che rendono orgoglioso il Paese”, i “casi umani”, nel senso più Fantozziano del termine.

La rassegna di Virzì, fatta di titoli più popolari ed accessibili, soprattutto rispetto alla turbolenta edizione curata da Nanni Moretti, ha assunto un valore simbolico già prima di diventare un (annunciato) successo. Ammaliata dal suo approccio “Pop” (Pif ha vinto il premio del pubblico) e low-cost (nessuna star di prim’ordine, con l’eccezione di Scarlett Johansson), la stampa ha eletto il TFF a contraltare dei due più grandi festival cinematografici italiani: quello romano, politicizzato e incentrato sul red carpet, e quello, ingessato e elitario, di Venezia. Tralasciando le ragioni politiche di tale battaglia,  è interessante come Virzì sia riuscito a fornire sia ai jihadisti stile-“Cahiers du Cinema” che agli Stracultisti più incalliti una bandiera sotto la quale marciare uniti contro i rispettivi nemici, l’eccesso di glamour da un lato, quello di serietà dall’altro. Questo mix di risentimento politico e di guerra civile tra cinefili, uniti alla polemica con Ken Loach e alle dichiarazioni anti-Grilline di Virzì, non hanno fatto altro che amplificare l’eco del festival , ma soprattutto, del suo ideologo-curatore, fornendo un efficace quanto discreto trampolino all’uscita del film.

Certo, ridurre ad una banale eco mediatica quest’insolita attenzione che la stampa nostrana dedica ad un regista schierato, polemico e politicizzato come Virzì sarebbe una semplificazione banale e ingiusta, soprattutto considerando la qualità dei suoi film. La spiegazione più scontata, ma anche quella che deve essere necessariamente vera, è che tale interesse sia in primis dovuto al forte ascendente sul pubblico del regista toscano. Un seguito costruito tramite le mille repliche di Caterina va in città su Rai Movie, tramite la riabilitazione pre-Sorrentiniana, memore dell’esperienza di Pupi Avati, di Sabrina Ferilli in Tutta la vita davanti, il road movie italoamericano di My name is Tanino e l’epica familiare de La prima cosa bella. Il motivo del successo di Virzì, e della sua forte empatia con il pubblico, è la sua capacità di mescolare i generi tra loro, di strutturare il contesto del film in modo tale da far convivere la retorica del lieto fine con la spietata analisi della società che ci circonda. È proprio per questo che perfino il più cinico e inflessibile dei critici non può non aver amato un suo film: anche se si troverà a detestare l’ingenuità toscana e il candore della protagonista de La prima cosa bella, non riuscirà a non apprezzare il vivido cinismo della società che la circonda. Il capitale umano non fa eccezione, e rappresenta forse il miglior esempio del meccanismo perfetto trovato da Virzì, il quale, con un senso della misura straordinario, riesce ad arrestare la deriva macchiettistica data dal personaggio sopra le righe di Fabrizio Bentivoglio alla prima parte, in favore di un secondo tempo misurato e drammatico (ma non troppo, of course).

Ecco, se volessimo evidenziare un secondo motivo alla base dell’attenzione mediatica catalizzata da Virzì, nonché del suo successo al botteghino, dovremmo rivolgerci proprio al ruolo fondamentale dello stereotipo nel suo cinema e alla sua capacità, ancora una volta, di mettere questo aspetto al servizio dell’organicità del film. Da un lato, la generalizzazione permette ai quotidiani di pontificare senza troppa fatica sul messaggio del film, alla perpetua ricerca della polemica, dall’altro, le semplificazioni azzerano la distanza con il pubblico, dato che nulla viene lasciato sottointeso e tutti gli indizi sono messi bene in vista, così che nessuno debba sforzarsi troppo. Nella sua ultima opera, trattandosi di un thriller, questo troppo spiegare, questa volontà quasi missionaria di non lasciare nessuno indietro, non può che portare a inevitabili ripetizioni o a scelte poco realistiche a livello di sceneggiatura (su tutte, la scena in cui Bentivoglio legge la mail della figlia).

 A questo punto, per poter capire meglio questo aspetto dello stile di Virzì, è forse necessario fare un breve riassunto della trama e dei personaggi principali del suo ultimo film, anche se ne potreste trovare di migliori dovunque sul web. Comunque, in breve, approfittando della recensione di Marco Giusti su Dagospia:

 

 

 

Come avrete notato, non occorre essere Updike per riuscire a delineare efficacemente i personaggi con tre, quattro caratteristiche fondamentali, molto vicine a quelle dell’immaginario collettivo. Così, la moglie del magnate è insoddisfatta, apatica, in cerca di riscatto sociale, il professore frustrato, ambizioso, con occhiali hipster e il finanziere “arrivato” non può che essere falso, esigente verso suo figlio, attento alla rispettabilità sociale e così via. Vi assicuro che un lavoro del genere può funzionare con una qualsiasi delle opere di Virzì (basti pensare all’America di My name is Tanino) ma, in particolare, è interessante il paragone con Caterina va in città, l’altro film in cui il regista livornese si approccia con una realtà diversa dalla sua, orgogliosamente popolare. Invece della Brianza degli immobiliaristi e dei finanzieri, al centro delle vicende di “Caterina” c’era Roma, con alcune delle sue caratteristiche-simbolo: la politica e i suoi privilegi, il mondo dello spettacolo e della stampa, autoreferenziale e di sinistra, gli statali con le loro frustrazioni e le case popolari. No, niente Colosseo stavolta. Il rischio è sempre lo stesso, in questi casi: cadere nelle trappole che hanno incontrato Wim Wenders e Paolo Sorrentino, rispettivamente in Paris, Texas e This must be the place (entrambi dei capolavori, senza dubbio), nel loro tentativo di raccontare un mondo, e una terra, a loro sconosciuti. Sono le semplificazioni, l’ambizione di riassumere una cultura in due pagine di lavoro (e due mesi di riprese), o il semplice, infantile desiderio di non vedere deluse le proprie aspettative. Il paradosso è che anche i più piccoli clichè diventano sempre più macroscopici a mano a mano che, restringendo il bersaglio, il pubblico in sala arriva a coincidere con la popolazione ritratta nel film. Chiaramente, un rischio del genere cresce esponenzialmente con un cinema fortemente localistico e di ridotta distribuzione come quello di Virzì.

Se però in Caterina questa cornice di personaggi buoni o cattivi, ma sempre familiari ai nostri occhi, avevano il semplice scopo di farci solidarizzare e identificare con Caterina, l’innocente vittima della società, in questo caso (e su questo occorrerebbe riflettere) non c’è un vero eroe per cui parteggiare, ed è questo vuoto a rendere la stessa struttura narrativa incredibilmente fragile. Serena e Luca, gli unici personaggi totalmente positivi nel film, pur essendo gli unici a riuscire ad emanciparsi, seppur in maniera diametralmente opposta, dall’anonimato che li circonda, patiscono una caratterizzazione piuttosto piatta (Serena) o estremizzata (Luca, con il passato difficile e la camera piena di ritratti e poster di rock band…), che gli impedisce di ergersi ad icona del Bene come accadeva alla travagliata e insicura Caterina.

Al di là di tutto, Il Capitale Umano resta un film ben diretto e sceneggiato, anche se la struttura narrativa a episodi ammicca inutilmente a Crash, Tarantino e persino a Pusher di Winding-Refn. Virzì riesce a risultare cinematograficamente credibile in un genere per lui nuovo, senza però dimenticare gli elementi tipici della sua filmografia: l’alchimia tra tragedia e commedia, la fiducia nel potere della coscienza comune, nella verità in fondo allo stereotipo. Ecco, se c’è qualcosa che impedisce a Il Capitale Umano di essere un grande film, è proprio il suo fermarsi all’apparenza dell’immaginario collettivo italiano, accettandone acriticamente i postulati, senza indagarne gli abissi. In un momento storico come quello che stiamo affrontando, questo non può più bastare: quello che viene chiesto ad una pellicola che vuol’essere nella società è di analizzarne e metterne in dubbio le certezze più radicate, non di utilizzarle come semplice scenografia dietro a una semplice morale.

Cover Credit: Gabriele Farina

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