Tre domande a Carmelo Vetrano

Se non si è pensato di lasciare la propria terra d’origine almeno una volta, anche solo in un breve scatto d’ira, non si può dire di essere meridionali. Non si tratta di essere persone ingrate, piuttosto sarebbe più corretto definirli “pensieri di sopravvivenza”, perché c’è sempre qualcosa di questo Sud che tenta di soffocarti e in qualche modo bisogna pur resistere; ma chissà chi ha più coraggio, se chi resta o chi parte. Non ne sono mai venuta a capo.

Carmelo Vetrano, al suo esordio nel romanzo con “Il censimento dei lampioni” per Laurana Editore, sceglie come protagonista Sebastiano, un pugliese che ritorna nella sua terra dopo un breve esilio autoimposto a Berlino. Torna per definire gli ultimi dettagli della separazione da Magda, l’ex moglie, e riallacciare un rapporto, seppur esile, con la propria famiglia, una sorella e i genitori separati da anni. Bruno, il padre, è scomparso per un lungo periodo dalla vita di Sebastiano, e il destino baro riserva loro un affiancamento forzato durante il censimento dei lampioni. Padre e figlio girano un Salento silenzioso e notturno ad analizzare le condizioni di ogni singolo lampione sul loro percorso; per ciascuno compilano una scheda che, man mano che il romanzo prende forma, assume sempre più una connotazione letteraria e autobiografica per Sebastiano, una sorta di testamento in fieri di un uomo che deve fare i conti con più rapporti logori contemporaneamente: quello col padre, quello con la terra lasciata anni prima e, infine, il rapporto con sé stesso.

Vetrano ha una cura nella scrittura che riscalda il cuore: si vede che sa ponderare e scegliere le parole con cura, descrivere azioni apparentemente superflue, ma in cui c’è l’umanità intera, inventare metafore sincere e rimbalzare il lettore tra i ricordi e il presente narrativo senza che ci si faccia confondere dalle emozioni. “Il censimento dei lampioni” è un romanzo malinconico e l’unico conforto presente è l’incedere inesorabile del tempo e quell’idea, che custodiamo gelosamente anche senza crederci fino in fondo, che in qualche modo proprio il passare del tempo guarirà ogni cosa al posto nostro, ma chissà cosa ne pensano Sebastiano e i lampioni silenziosi che lo accompagnano.


Sebastiano, il tuo protagonista, ha pochi riferimenti nella vita e, azzardo, la presenza più confortante pare essere proprio quella dei lampioni. Bruno, del resto, è un padre problematico che lo costringe a vivere in un eterno tentativo di “farsene una ragione”, ma quasi ogni interazione tra i due si risolve in un battibecco. Sono dialoghi frequenti e fulminei, eppure dentro ci sono tutte le crepe del loro rapporto. Qual è stata l’idea iniziale del romanzo? Sapevi che sarebbe stato un’esplorazione anche del rapporto padre figlio o in qualche modo quei battibecchi sono nati durante la scrittura?

Ancora prima di sapere che sarebbe nato questo romanzo avevo scritto una scena in cui comparivano per la prima volta Sebastiano e Bruno, e litigavano. Erano personaggi con vite che mi interessava esplorare, e nel loro litigio c’era il potenziale per una storia che riconoscevo emotivamente e che volevo raccontare. Intravedevo già alcuni elementi che mi attraevano moltissimo, un padre assente e inconcluso, un figlio che ha le stesse caratteristiche ma ancora non lo sa, anzi è convinto di essere molto diverso da suo padre e spera di allontanarsene il più possibile. Devo aggiungere che nella scena in questione Sebastiano e Bruno parlano proprio di Magda, che è la protagonista femminile del romanzo, non l’unica, ma di sicuro la figura femminile più importante per Sebastiano. Lui e il padre litigano proprio a causa sua, e questa è la miccia che fa partire il racconto. Quindi in quella scena c’era davvero in miniatura gran parte della storia. Io chiaramente non sapevo ancora cosa sarebbe successo, sapevo soltanto che volevo mettere in relazione personaggi e lampioni, e l’unico modo che avevo a disposizione per farlo era quello di mettere in scena le vite dei personaggi, i loro rapporti, spingerli uno contro l’altro, a volte con delicatezza, a volte con più violenza per costringerli a esporsi e far esplodere il potenziale che avevo intravisto.

Nel romanzo c’è stato un grande lavoro di costruzione delle frasi: ognuna di esse è importante, si ha l’impressione che niente sia casuale o affrettato. La cura è nelle descrizioni, nell’accostamento delle parole, nelle metafore e nel tentativo, sempre efficace, di dettagliare le emozioni. Come si è sviluppato il processo di scrittura per il romanzo? Quanto c’è di istintivo, quanto di meditato nella sua stesura e quanto, invece, hai riscritto per arrivare a ciò che avevi in mente?

Di istintivo c’era la voglia di entrare in questa storia e raccontarla. Un istinto che si è conservato a lungo perché l’idea è nata anni fa ed è rimasta intatta fino a quando non ho deciso di metterci le mani. Tutto quello che viene dopo è un lavoro fatto di pre-costruzione, costruzione vera e propria e cura dei dettagli. Avevo già in mente di dare ampio spazio ai lampioni e, prima ancora di cominciare a scrivere, mi sono documentato. All’inizio ho fatto una specie di reportage fotografico per prendere confidenza con questi oggetti, ho letto cose che non hanno a che fare con la narrativa, come per esempio relazioni tecniche e cataloghi, perché avevo bisogno io stesso di conoscere i lampioni, distinguerli, esplorarli, per poi trasferire questa conoscenza ai personaggi. Avevo già come obiettivo di scrivere un romanzo in cui comparissero anche elementi diversi dalla scrittura in senso stretto, come mappe, disegni e schede tecniche, ma volevo che tutti questi elementi si amalgamassero nel miglior modo possibile ed entrassero all’interno di una forma comunque narrativa e romanzesca, anche se atipica. Quando ho cominciato a scrivere ho lavorato molto sulla struttura, che ha un andamento sinusoidale, il passato e il presente si intersecano senza mai sovrapporsi o creare salti bruschi, mentre la vicenda principale mantiene una sua linearità; ma tutto questo ha a che fare con il contenitore, perché le scene, dialoghi, ancora prima di sapere a come sarebbero stati incasellati all’interno del romanzo, hanno avuto come guida l’emotività dei personaggi. Alcune scene sono state scritte velocemente, altre meno. Un certo stile e una certa attenzione ai dettagli venivano di conseguenza perché la precisione è un modo di rispettare la propria immaginazione e di amare quello che si sta raccontando. Le riscritture sono state tante e sono servite soprattutto ad alleggerire qualche capitolo e alcune frasi, togliere avverbi inutili e sostituire qualche parola. Solo una delle riscritture ha modificato nella sostanza il romanzo, che era stato scritto inizialmente in terza persona e poi è stato riscritto in prima.

La presenza della Puglia nel romanzo è discreta, ma da pugliese riconosco panorami familiari nei paesaggi, nelle facciate delle case, nei lampioni, ovviamente, ma anche nei rapporti tra i personaggi e in ciò che non si dicono. Ho sempre pensato che per autrici e autori meridionali scrivere della propria terra sia una tappa obbligatoria, per scendere a patti con un rapporto non sempre lineare. È stato così anche per te o ti sei ritrovato con Sebastiano nel Salento per caso?

No, non è un caso. Quando li ho immaginati nella prima scena di cui ho parlato, i personaggi si trovavano in una tipica casa salentina, con un ingresso lastricato che viene usato anche come garage (per le macchine o per i mezzi di lavoro, come ad esempio trattori e moto Ape), e che negli anni si era impregnato di un forte odore di vino e di olio. I miei personaggi stavano lì, ma non avevano più niente a che fare con la storia che quella casa rappresentava (per esempio la campagna), sono esseri che non hanno più basi esistenziali su cui poggiare i piedi, non sanno come costruirsene altre e stanno cercando di non farsi portare via dal vento. Tutto questo caratterizza non solo le loro vite ma il romanzo stesso, per cui il rapporto dei personaggi con il paesaggio è un’altra delle relazioni che li riguarda. Come dicevi tu credo che, da meridionali, scrivere del posto in cui si è cresciuti sia una tappa da fare, forse unica, forse no, ma spesso inevitabile. È un modo anche per fare i conti con una realtà piena di contraddizioni. Io per esempio sono cresciuto in un periodo in cui lo stesso Salento è cresciuto moltissimo, nel bene o nel male, ed è diventato agli occhi degli altri una cosa molto diversa da quella che io conoscevo; c’era un contrasto fortissimo tra le foto con il mare e le facce ridanciane, e i miei ricordi, che invece avevano a che fare con partite di calcio sull’asfalto rovinato, paesini anonimi e spesso bruttini, rapporti familiari imperfetti a dispetto dell’idea che nel Salento si dovesse invece essere sempre felici e vivere di bagni al mare e pizzica. Era fondamentale per me raccontare l’autenticità del paesaggio e delle relazioni che mi portavo dentro.

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