Il grido degli ultimi nell’orto incantato di Funetta

Pubblicato il 5 aprile scorso per l’editore Chiarelettere, Il grido è il secondo attesissimo romanzo di Luciano Funetta, scrittore poco più che trentenne, nato a Gioia del Colle ma da tempo residente a Roma, che nel 2016 era entrato nella dozzina finale del Premio Strega con il suo esordio, Dalle rovine, pubblicato da Tunué (nella sezione curata da Vanni Santoni). Dalle rovine era stato il caso editoriale del 2016 grazie a una storia oscura e angosciante ambientata in un futuro prossimo tra la città immaginaria di Fortezza e la Barcellona del Festival de Cine Erótico. A muoversi in un’atmosfera sospesa, satura di angosciose premonizioni, Rivera con i suoi serpenti e una serie di personaggi tanto tenebrosi quanto indimenticabili: Birmania, Tapia, Traum, Maribel, Laudata.

Con queste premesse Il Grido non era atteso come un semplice libro ma quasi come un’opera per iniziati di una società segreta pronta a lasciarsi illuminare dalla fantasia letteraria del giovane Funetta.

Il Grido è la storia di una ragazza di trentacinque anni, Lena Morse “nata di notte, nel mezzo di una caccia selvaggia. O almeno così le aveva detto un’indovina al luna park, una maga nera”. La incontriamo la prima volta al Kraken, pub di una fredda e isolata periferia dentro a un indefinito e claustrofobico tempo futuro. È proprio il Kraken – che sembra essere uscito da Satantango di Krasznahorkai – ad accogliere il lettore con la sua atmosfera vagamente ostile, coi suoi avventori gretti e meschini, un poliziotto, una barista – ex prostituta vietnamita – che si chiama Love Love e un mondo quasi interamente maschile su cui domina la figura di Stepan “che avrebbe saputo arrampicarsi sugli alberi ma che si trovava costretto a raschiare il selciato, a muoversi con gli altri, a essere quello che era”.

Lena vive in una città notturna, oscura, spoglia e disperata dove “i morti stavano vincendo e i vivi stavano morendo” – una città senza nome dove tutti si spostano a piedi – “da quando era stato proclamato lo sciopero perenne, i mezzi di trasporto pubblico erano spariti. Gli autobus e i tram languivano nei depositi e i taxi come quello erano rimasti gli unici mezzi a percorrere la città, insieme a qualche bicicletta e alle macchine di lusso che spuntavano fuori dai garage come carri funebri. Taxi dagli abitacoli vuoti, taxi che sfrecciavano senza fermarsi mai, senza mai caricare nessuno, taxi ebbri e in preda al delirio”.

Quella in cui si muovono i personaggi è una città spettrale proprio perché, prima ancora che tante altre cose, Il grido, come Dalle rovine, è una storia di fantasmi, reali come anche simboli di tutte le paure e delle solitudini che ci attraversano.

Con l’abilità che è ormai impossibile non riconoscergli, Funetta fa scivolare il lettore lentamente e inesorabilmente nelle spire della sua fantasia dentro mondi tanto impossibili da accettare quanto improvvisamente credibili, grazie a un atto totale di fiducia – quasi di fede – che s’instaura tra il lettore e lo scrittore. Funetta è, infatti, bravissimo a incantare il lettore pagina dopo pagina lasciando cadere, come fossimo dentro a una fiaba, piccoli indizi come molliche di pane, dettagli minuti che costringono il lettore a immaginare i luoghi nei quali si muovono i suoi personaggi fino a sentirli reali, fin quasi ad abitarli. Se Fortezza era un luogo inaccessibile – persino alla nostra stessa immaginazione – dominata com’era da presenze onniscienti che tutto vedevano e tutto raccontavano, ne Il grido il lettore cade preda di un paesaggio che appare come la disperata resistenza urbana di una città che è stata fiorente su cui però è calata la disgregazione del tempo e di una qualche terribile catastrofe. Un universo distopico dove lo svago è affidato ai computer, al Portale Municipale, e dove le sepolture dei morti avvengono solo attraverso uno schermo.

Scopriremo di essere a circa un centinaio di anni dal presente (si fa riferimento al greco Iannis Xenakis – un compositore con un occhio solo che era morto da almeno un secolo) in una zona dove non c’è più alcun segno della natura – “la città si risvegliava come ogni mattina, ricoperta di larve bianche e di falene spaventate a morte dal giorno. Nessuna parlò fino a che non si separarono. C’era profumo di polline nell’aria. Ovviamente era impossibile” – che è ancora Europa, forse Italia – “Mio paese non esiste più – disse Stepan […] Aveva, se così si può dire, vagabondato per le città di quella che alcuni ancora chiamavano Europa, come aveva potuto ne aveva imparato le lingue. Ce n’erano tanti come lui, milioni lo avevano preceduto, e altrettanti, ancora ignari, erano attesi dal suo stesso destino”.

Lena non ha mai conosciuto i suoi genitori ed è cresciuta in un orfanotrofio gestito dalle Dame, figure inquietanti che cantano invece di parlare e che si muovono in maniera misteriosa nella casa dove Lena passa tutta la sua infanzia. Da adolescente diventerà preda di Lugo, un imprenditore delle pulizie ignobile e spietato che di notte manda l’esercito delle sue donne a pulire i grandi palazzi degli uffici della città.

Ma non c’è soltanto questo: se nel presente la città assomiglia a una metropoli abbandonata e devastata, attraversata di notte da stuoli di impiegati che si muovono nel buio e dai Dormienti – “li vedevi da lontano, i fuochi; all’inizio erano puntini vacillanti. Quando ti avvicinavi distinguevi soltanto i corpi gli uni sugli altri, bruni e rannicchiati. Ogni volta che Lena passava accanto a uno degli accampamenti aveva l’impressione di sentire una canzone suonata da vecchi giradischi dentro centinaia di casse toraciche. In realtà si muovevano con discrezione, arrivavano e se ne andavano, e tutto questo senza degnare nessuno di una parola o di uno sguardo. Non avevano un ruolo, non avevano un’identità, non erano un’invasione né una minaccia, erano una musica o qualcosa di simile” – è nel passato che la storia racconta altro, non solo dell’orfanotrofio ma soprattutto di un luogo incantato – l’Orto Botanico – scoperto quasi per caso, dove un gruppo di personaggi – diversi e speculari agli avventori del Kraken – cercano ogni sera l’oblio lasciandosi cullare dalle droghe e dalla musica che proviene dagli altoparlanti nascosti tra i rami (Xenakis ancora ma anche i Kindertotenlieder di Mahler) – “Il profumo dell’Orto Botanico di sera. Il profumo dell’Orto Botanico nel cuore della notte e poco prima dell’alba, nell’ora in cui l’oblio si esauriva. Quel profumo riusciva a farsi strada anche nei recessi più estremi delle visioni oppiacee e di quelle chimiche”.

A differenza del romanzo d’esordio, dominato da una struttura quasi classica che demandava l’inquietudine alla scrittura e alla storia che intrecciava serpenti, porno d’autore, morte, snuff movies e le inquietanti presenze che parlavano al plurale, ne il Grido Funetta si spinge ancora più in là nella forma alternando diversi piani temporali attraverso – Un montaggio che per una parte del romanzo resta abbastanza ferreo e che poi si distrugge nel senso che il passato e il presente iniziano a compenetrarsi a contagiarsi e a infestarsi a vicenda – per usare le parole stesse dell’autore.

Contagiarsi, infestarsi: Funetta continua a percorrere la strada di una letteratura altra rispetto a molta della produzione italiana degli ultimi anni. E non caso Chiarelettere ha scelto il suo romanzo per inaugurare la nuova collana chiamata Altrove e curata da Michele Vaccari. Più volte descritto come autore in piena corrente weirdness, Funetta lega la sua scrittura e la sua poetica a un universo di esclusi, di personaggi anomali, di freaks (non a caso proprio Freaks – il film del 1932 di Tod Browning – è uno tra quelli della cineteca di Jack Birmania); un’umanità del futuro regredita in qualche modo a una dimensione che la vede perennemente in pericolo ma proprio per questo più attenta, più vigile, più ricettiva, più sensibile verso tutto ciò che la circonda.

Così l’Orto Botanico è nei ricordi di Lena luogo di contaminazione e di fuga, e fin dai nomi di chi lo abita un posto incantato, un orto dove coltivarsi letteralmente come fa Mendel, creatura in parte umana e in parte vegetale e, con lui, Simone – “bella, vestita di bianco con gli occhi spalancati che sembravano pietre marine” e ancora Mircea, Atomo, Lucillo, Jurij, Fatih in un dedalo evocativo di altre storie, altri libri, altri immaginari.

Al centro di tutto, di due mondi, di due tempi diversi, seguiamo Lena, la ragazza senza passato e senza futuro che sembra abbandonarsi a un destino che la segue da sempre, alle visioni che ha fin da bambina per cui – “le cose appaiono dove non dovrebbero in un posto dove è come essere invisibile, a volte, ma più doloroso. È come non esistere. Ti senti scavare dentro il corpo” – e la sua storia presente e quella del passato con una sensazione da brividi addosso più che di paura, di tristezza, di malinconia, come di ricordi d’infanzia che abbiamo rimosso e che come un incubo tornano su, dai tubi di un lavandino, dai muri degli edifici, lungo i binari della ferrovia. Il destino, ciò che le pare aspettare da sempre “non è una voce – penserà Lena – è qualcosa che si sgretola” proprio come le partiture elettroniche di Xenakis che si disintegrano sotto la forza delle loro progressioni matematiche.

Il Grido, dunque, racconto allucinato, acido, contagioso di emarginati, di ultimi, di reietti, è una storia di solitudine che richiama evidentemente alcuni dei temi cardine di Dalle rovine come quando Rivera diceva che [il film] aveva a che fare con la moltitudine, con la forza spietata della moltitudine e con la segretezza della solitudine, con le allucinazioni e gli incantesimi provocati dalla solitudine.

Con il suo secondo romanzo Funetta riesce così a confermare intatto il suo talento e a far sentire la sua voce di autore così distante da certa letteratura che si ostina a seguire correnti, a legarsi al contingente, a raccontare il presente perdendo completamente di vista la profondità e il senso del fare arte.

Lettore onnivoro, figlio di librai e libraio a sua volta, Funetta ha un pantheon di autori culto che ne hanno acceso la fantasia e la creatività permettendogli di percorrere strade che altri hanno paura di battere. Tra le tante ci sono suggestioni che ci pare di cogliere: il Borges di Finzioni, il Gombrowicz di Cosmo, il Bolaño della Santa Teresa di 2666, l’amato Danilo Kiš de L’enciclopedia dei Morti, lo Sturgeon di Cristalli Sognanti – che lui stesso suggerisce come una sorta di “romanzo progenitore” – ma anche i racconti fantastici di Julio Cortázar. E chissà quanti altri per un “discepolo” di Parise, di Morselli, della Morante come di Volodine, Wilcock e Roberto Arlt. Ma i fantasmi dei grandi autori che gli fanno compagnia durante la scrittura, come gli spettri di Rivera e di Lena, sono solo personaggi che si muovono dietro il sipario letterario e creativo di un ragazzo capace di sapersi esprimere con una sua propria, riconoscibile e originalissima voce.

Ma Il grido come ogni grande racconto fantastico (per usare una sintesi solo in parte veritiera di ciò che esprime) è lo specchio deformato di tutto ciò che anima l’inconscio della realtàRoma mi ha ispirato in qualche modo, non ho voluto raccontare Roma sicuramente, ho voluto raccontare alcuni aspetti di questa città, alcune possibilità, alcune situazioni che naturalmente offre agli occhi di chi la abita. Tutta la storia è ambientata in quartieri periferici molto lontani dal centro, sia da un punto di vista sociale che da un punto di vista proprio spaziale. Io credo che questa sia una direzione che molte delle nostre città stanno prendendo; ovvero si sta assistendo a una fortissima distinzione tra fasce della popolazione che non hanno più accesso a quello che dovrebbe essere il bello delle loro città, a quello che dovrebbe essere la ragione per cui in quelle città si vive – a testimoniare forse che l’umanità disperata de Il grido non è solo un sogno (o un incubo) della sua fantasia ma qualcosa di molto più tragicamente vicino a noi di quanto possiamo (o vogliamo) immaginare.

Le parole di Luciano Funetta sono tratte da un’intervista rilasciata alla Adnkronos
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