Il nuovo non avanza di lunedì

Per una volta, non parliamo di Matteo Renzi, di Enrico Letta o di Silvio Berlusconi. Non riferiamoci alle risposte dei mercati dopo l’annuncio di un nuovo governo, che col Nasdq lo spritz non ce lo paghi. Parliamo piuttosto del fatto che a ogni annuncio di una svolta politica ci ritroviamo soltanto più arrabbiati e meno interessati, al fatto che un Renzi che fa fuori Letta ci suscita meno sorpresa della giraffa Marius allo zoo di Copenaghen. Forse perché siamo diventati più cinici e meno creduloni, forse perché Grillo e i suoi seguaci hanno contribuito ad alimentare l’odio, forse perché in Renzi qualcuno ci vedeva una speranza e qualcun altro l’ennesima figurina da attaccare all’album dei bomber di Montecitorio. Il fatto è che è lunedì, e il nuovo non avanza mai a inizio settimana e la scena di Renzi che va da Napolitano, non ha nulla di sconvolgente, come non l’aveva il confronto con Berlusconi. Ma, parlando in questi termini, abbiamo già tradito le premesse da cui volevamo partire.

Non è bello pensare che non sei tu a eleggere un governo ma è quello che succede sempre, il tuo voto serve ad assegnare una poltrona a qualcuno, non a formare un governo. Avrebbero potuto mettere Topolino a capo del governo, per quel che sarebbe cambiato. Non è una repubblica presidenziale e neanche Napolitano l’hai eletto. Un po’ come quando da ragazzini si facevano le squadre al campetto con i due capitani che sceglievano i propri giocatori. Peccato che, da bambini come adesso, siamo sempre stati dei pessimi terzini, finivamo in porta e i gol subiti erano sempre colpa nostra. Che, guardandoci bene, è proprio quello che succede. Il giovane Renzi, invece, mettendosi la maglia da numero 10, si sente i polpacci pronti a fare grandi dribbling e a portare la sua squadra alla vittoria. Non so perché, ma quelli che all’oratorio facevano i fenomeni sono sempre quelli che ho visto finire peggio, ma magari sono io che sono cresciuto nel quartiere sbagliato. E, tutto sommato, è un’altra storia.

Parliamo di John Elkann, piuttosto, e della sua pessima uscita sui giovani di oggi. Eppure l’avevamo già sentita da altre persone. Tutti, in questo paese, si credono migliori di qualcuno, forse perché siamo noi a sentirci peggio degli altri. John Elkann si sente migliore, sentendosi in dovere di fare la morale a chi ha appena tolto altre speranze di lavoro andandosene via con la sua fabbrichetta, probabilmente perché lo stato italiano non è più un affidabile garante di denaro regalato. I grillini si sentono migliori degli altri politici, volendo mostrare come il cittadino governa meglio del politico. Matteo Renzi si sente migliore di Letta, che si sentiva migliore di Bersani, che si sentiva migliore di Berlusconi che si sentiva migliore di Alfano, in una lista che non finisce più e che sembra davvero la fiera dell’est di Branduardi, con tutti i personaggi che si rincorrono e recitano la loro parte. Perché in tutto questo casino, non è che poi ci si capisca qualcosa. Il potere logora chi non ce l’ha, gli avevano fatto dire ad Andreotti, ma poi è vero che logora chi non ne ha ancora abbastanza e ne vuole di più. Assuefatto dall’idea di essere quell’uno che conta e che vale. Però Renzi adesso il potere ce l’ha e tocca a lui, quindi è inutile mostrarsi scandalizzati e vuoti dentro se il suo nuovo alla fine usa le stesse armi del vecchio, spaccando un vaso e scrivendo sui cocci il nome dell’avversario da ostracizzare. Saranno poi le elezioni, se ci andrà qualcuno, a dargli ragione, anche se si è visto che vince sempre il meno peggio, quindi non è che siano indice di un buon lavoro, anche perché a farci i conti l’hanno spuntata la Democrazia Cristiana, poi Craxi e anche Berlusconi. In questi termini, probabilmente, la gara al migliore non la vince più chi si prende più voti, ma chi riesce a non far affondare l’Italia, in una corsa contro la catastrofe. Il vero gattopardo però è Giorgio Napolitano, il grande vecchio, sopravvissuto ai Berlinguer e agli Andreotti, mica male. Capace di affrontare le crisi nel modo migliore, predisponendo tattiche fondamentalmente fallimentari, capaci di resistere sei mesi ma abbastanza perché ogni astro nascente possa decollare e crollare miseramente fra le sue mani. C’è stato Monti, poi Letta e, ora, Renzi. E, tanto di cappello, non c’è bisogno di un impeachement per capirlo.

Nella corsa al migliore ognuno ha il suo slogan. C’è l’1vale1, c’è il non pagare le tasse, c’è il nuovo che avanza. Abili frasi a cui è impossibile non credere. Perché, fondamentalmente, siamo un popolo di creduloni e pieni di speranze nella politica che infamiamo continuamente, come se la politica fosse la nostra personale sindrome di Stoccolma. Ti rapisce ma poi finisci per amarla. E, a questo giro, ha vinto Renzi e lo guardiamo fare dribbling e tiri che non sappiamo come vadano dalla nostra porta. Ma il nuovo non avanza di lunedì, perché è un giorno sbagliato. Il nuovo non avanza con Renzi, che non è nemmeno poi così giovane, e se farà qualcosa di buono sarà giusto dagliene il merito. Il problema è che, forse, non sapremo come giudicarlo. Quand’è l’ultima volta che un governo, oltre alle tasse, ha dato risposte a un problema che affliggeva la quotidianità dell’Italia, se non dal punto di vista finanziario, che riguarda una piccola èlite di addetti ai lavori? Quand’è che hanno smesso di voler apparire i migliori e, semplicemente, fare il loro dovere? Perché, alla lunga, guardare i migliori stanca e la valutazione su chi fa bene e chi fa male passa in secondo piano. Un po’ come il governo Letta, quello del paradosso, in cui la classe politica non ha vinto ma nemmeno perso e ha deciso di sussistere nella sua fragile composizione, esistendo e basta. A dimostrazione di questo fatto c’è che l’unico motivo per cui era stato appoggiato, la formulazione di una legge elettorale decente, non ha ancora visto la luce. E, in pochi, hanno capito il perché del gesto di Renzi, visto che praticamente Letta si è limitato ad esistere.

Con le critiche gratuite non si va più da nessuna parte, anche il dare la propria opinione è uno sputo in un giorno di pioggia. Dobbiamo lasciare e vedere Renzi cosa fa, anche perché con l’indignazione non è che poi cambi qualcosa, forse. Dovremmo avere un po’ più di autostima e meno rabbia. Che Renzi assomiglia così tanto a quel vicino di casa che afferma sempre di avere il prato più verde del tuo, anche se abiti in un palazzo di venti piani. Magari fino al 2018 ci arriva, e anche bene. Magari no. La domanda che nessuno si fa è, come ci arriveremo noi al 2018? E, in quanti, saranno ancora in grado di contare su di lui, o su tutta la classe politica? Perché quel germe populista è la seconda faccia del pasionario, e, a differenza di un’altra sindrome, quella di Stendhal, l’italiano non ne è immune. Forse perché alla bellezza ci siamo abituati, alla buona politica no.

Bisognerebbe parlare meno di Renzi e di tutti gli altri, c’è chi ci vive benissimo senza farlo. E non si tratta di essere patriottici o veri cittadini, si tratta di una semplice richiesta di rispetto. Che fra vent’anni, quando nessuno sarà più vivo in questo paese, avranno tutto il tempo per governarsi da soli, ma finché ci siamo devono fare i conti con le persone che si trovano davanti e, paradossalmente, noi con loro. Tutti, immaginandosi un futuro catastrofico alla 1984 o alla Matrix, si immaginano di essere dominati da un potere forte, come quello del fascismo, nessuno ha ancora pensato, invece, al dominio del potere debole. Quello che ti lascia apparentemente libero di fare quello che vuoi, che quasi non lo senti, ma poi non hai possibilità per cambiarlo. Un po’ come quello che stiamo vivendo.

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