Il paese che ci vuole, intervista a Dimartino

Foto: Alessia Naccarato

Un paese ci vuole è il terzo album dei Dimartino, uscito il 21 aprile per Picicca/Sony Music e prima dell’inizio del tour abbiamo raggiunto Antonio Di Martino e Angelo Trabace in occasione della presentazione dell’album alla Feltrinelli di Torino, per parlare del nuovo album e di tutto quello che c’è intorno.

Un paese ci vuole prima di uscire nei negozi di dischi è arrivato in anteprima streaming in trecento paesini sparsi per l’Italia, un modo nuovo e originale per lanciare un disco, ma come vi è venuta questa idea?

Lo streaming geografico è venuto dopo, in realtà. Per il lancio del disco mi era venuta questa idea di fare una specie di caccia al tesoro nei paesini, nascondendolo in posti strani come, ad esempio, sotto una panchina di un parco, nel terzo banco di una chiesetta, sotto la macchina del sindaco. Poi l’ho proposto al mio manager che guardandomi storto mi ha detto: “Antonio questa cosa non si può fare”. Il giorno dopo, però, mi ha dato quest’idea di rendere la caccia al tesoro più tecnologica, usando questo sito di streaming. Mi è piaciuta soprattutto perché non snaturava l’idea iniziale e non diventa una cosa fredda. Mi piaceva anche l’idea di rendere questo social network in un certo modo più etico, provando a utilizzarlo in un modo diverso dal solito.

È facile pensare che il paese di cui parli venga assimilato al concetto di nazione e, soprattutto lo streaming, come pretesto per muoversi a scoprire nuovi paesaggi, come del resto anche noi abbiamo fatto.

Sì, è vero. Ci siamo fatti la stessa domanda quando c’è venuto in mente di intitolarlo Un paese ci vuole. Non volevo che la gente pensasse, solo ed esclusivamente, al paese Italia. L’Italia, poi, è fatta di tutti questi piccoli paesini che stanno scomparendo. La migrazione dalla campagna alle città che è avvenuta alla fine degli anni ’40 e nel dopoguerra ha portato alla morte di una serie di piccole realtà. Se ci pensi, però, se svuoti l’Italia dei suoi paesi rischia di non rimanerci niente. Non abbiamo città davvero grandi come la Germania. Siamo una nazione fatta di paesi, per antonomasia e per topografia, ed è una presenza da cui non possiamo prescindere ma che, anzi, bisogna salvaguardare.

Ne La vita nuova, il terzo brano del disco, viene raccontata la storia di Vincenzo che, dopo la maturità, lascia il suo paesino per cercare fortuna all’estero. Al ritorno per le vacanze però non parte più. In un certo senso il concetto di raccontare il paese implica quella necessità di riscoprire le proprie radici?

In un certo senso è così, non voglio dare soluzioni, non mi sento in grado di farlo. Voglio solo suggerire delle immagini e raccontare le cose che vivo. La vita nuova, ad esempio, parla di quello che succede la mattina di Pasqua nel mio paese. Ci sono queste due statue, quella di Gesù e quella della Madonna, che vengono portate dalle congregazioni e quando si incontrano vengono fatti piovere petali sulla piazza. Per questa occasione chi non esce mai o, magari, vive in Germania torna in paese. Mi è capitato, così, di incontrare molti miei coetanei che sono emigrati non appena avevano finito il liceo, a volte neanche la scuola media, che mi parlano di fuori come si fa sempre quando ritorni. Dici che fuori è più bello, che non è come qua, che in nord Europa è tutto migliore, che le strade sono pulite e poi sentono la nostalgia quando devono ripartire, come tutti. Da lì sono partito, da incontri con persone reali.

In tutto questo è un obiettivo raggiunto, per quello che questo disco si propone di raccontare, essere stati invitati da Franco Arminio, scrittore e paesologo, al festival di paesologia La Luna e i Calanchi di Aliano (MT)?

In realtà era una cosa che desideravamo tantissimo. Angelo mi aveva parlato di questo festival già qualche anno fa poi, quando abbiamo scritto questo disco, ci siamo guardati e ci siamo detti che dovevamo riuscire ad andarci a suonare in qualche modo. Non gli avevo mai scritto prima, anche se ero affascinato da quest’idea. Con questo disco si è presentata l’occasione giusta e quando abbiamo deciso di provare a contattarlo ci ha direttamente telefonato lui.

Angelo: Quando è successo stavamo pure leggendo il suo libro Geografia commossa dell’Italia interna ( Edito da Mondadori, NdR), ed è stata una bella coincidenza.

Se guardiamo alla storia dei Dimartino, dal più pestato e arrabbiato Cara Maestra del 2010, passando per il più interiore Sarebbe Bello non lasciarsi mai, ma abbandonarsi ogni tanto è utile (2012) fino all’Ep narrativo Non vengo più Mamma (2013), possiamo considerare questo ultimo lavoro come quello di una maturità che prevede un’apertura fondamentale agli altri e a quello che si muove attorno?

In qualche modo è così, in questo disco io ci sono e non ci sono. Nel senso che c’è meno l’idea di parlare soltanto di me e dei miei sentimenti come poteva essere in Sarebbe Bello non lasciarsi mai, ma abbandonarsi ogni tanto è utile, e di raccontare più storie, rendendolo così un disco più corale. Non è un caso che nel live cantiamo molte più strofe insieme io, Angelo e Giusto [il batterista, NdR], proprio per dare un senso di coralità quasi gospel all’interpretazione.

In questo disco si sentono maggiormente le strumentazioni elettroniche rispetto ai precedenti album, che segnano un percorso in continua evoluzione del suono, sulla scia di Non vengo più Mamma e dell’esperienza con gli Omosumo.

Io lo vedo molto come un percorso in divenire. Parlare di elettronica oggi è immergersi in un pentolone gigante. L’elettronica la fanno altri però è vero, rispetto agli altri dischi, vuole essere un modo per rendere più attuale il suono e attualizzarlo a quello che viviamo.

Dimartino

In Non vengo più Mamma l’impostazione narrativa era chiara e molti dei tuoi testi possono essere letti come storie. In un Paese ci vuole si ha un incipit vero e proprio [in A passo d’uomo si ha un racconto del nonno di Di Martino] ed è, fondamentalmente, un disco che oltre a essere ascoltato va anche letto, ma quanto è importante oggi raccontare storie, soprattutto attraverso la musica?

Credo molto nel racconto delle piccole storie, soprattutto di quelle che passano spesso in secondo piano rispetto alle altre. Oggi il racconto è una cosa fondamentale perché, se ci si pensa, le persone che le raccontavano tempo fa stanno velocemente scomparendo. Non abbiamo più quel gusto per la narrazione, ci piacciono di più gli hashatag e le frasi che colpiscono subito. Il racconto è fatto di introduzioni e descrizioni, ha una lentezza che si scontra molto con la contemporaneità. È importante trovare oggi persone che continuino a raccontare ed è una cosa che dobbiamo tenerci stretta per non perderla.

In questo discorso rientra, pienamente, la collaborazione con Francesco Bianconi in Una storia del mare che da sempre ha realizzato una musica molto narrativa con i Baustelle, incentrata spesso sulle realtà minori della provincia.

Assolutamente sì. Mi è venuto naturale, dopo averlo scritto insieme, inserirlo nel disco. Questo perché è davvero un racconto e Francesco ha questa capacità di raccontare delle storie attraverso delle immagini non banali e, in un certo modo, inusuali che rientravano perfettamente nel concetto che volevo dare al disco.

Quando si parla degli artisti siciliani si parla sempre di un attaccamento profondo alla propria isola di provenienza, forse perché unica nel suo genere, per i suoi problemi e le sue bellezze, lontana dalla terra ferma. Da Pirandello a Sciascia, ma anche da Colapesce ai Dimartino, quanto il provenire da una realtà così forte influenza la vostra creazione?

Influenza tantissimo, nel senso che non puoi prescindere dalla terra da cui provieni. Non è una questione solo siciliana, ovviamente, il posto in cui sei nato pesa sempre nel modo in cui ti approcci, tanto il siciliano quanto l’autore emiliano hanno il loro modo personale per raccontare la propria terra. Forse, per il fatto che veniamo da un’isola e da un ambiente circoscritto, noi siciliani  lo sentiamo di più. La Sicilia, poi, ha sempre avuto dominazioni e influenze diverse. Basta pensare al medioevo o al fatto che con Federico II era un po’ il centro del mondo, come New York o le grandi metropoli, per cui ha dentro qualcosa di universale. Un siciliano magari è legato a certe immagini che guardano costantemente a quella universalità, che poi magari ritrovi anche in altre parti del mondo totalmente diverse da lei, che sia il Messico o il Marocco. Io, ad esempio, mi sento molto più legato al modo di intendere la vita dell’Africa piuttosto, che ne so, di quello di Berlino.

 

Le foto sono a cura di Alessia Naccarato

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