Il ritorno di Sofia Coppola: Bling Ring

 

Un film di Sofia Coppola. Con Emma Watson, Israel Broussard, Katie Chang, Taissa Farmiga, Claire Alys Julien, Georgia Rock. Drammatico, durata 90 min. – USA, Gran Bretagna, Francia, Germania, Giappone 2013, Lucky Red.

 

 

Tre anni fa Sofia Coppola ci aveva lasciati così: Stephen Dorff ed Elle Fanning che danzano sott’acqua, accompagnati da Julian Casablancas sulle note d’organetto di I’ll try everything once, a lanciarsi sorrisi e sguardi che preannunciavano il loro rapporto padre figlia teneramente ricucito nel finale di Somewhere.

Ora il ritorno con Bling Ring, nelle sale da giovedì 26 Settembre, per raccontare un modo di giovani tanto lucidi quanto colpevoli, ossessionati dal culto delle celebrità e disposti a tutto per eguagliare i proprio idoli, offrendoci un film senza pietà per nessuno. E senza entusiasmare.

 

Per chi non fosse stato dotato di occhi o orecchie negli ultimi tre mesi, il film prende le mosse da un grottesco fatto di cronaca riportato da Vanity Fair con tanto di interviste ai diretti interessati: cinque adolescenti californiani, Nicki (Emma Watson), Sam (Taissa Farmiga), Chloe (Claire Alys Julien), Rebecca (Katie Chang), e Mark (Israel Broussard), il novellino della scuola, sono tutti studenti di un liceo di Los Angeles per ragazzi turbolenti che trascorrono le loro giornate tra festini con droghe hard-core (roba che Arcore ciao), lunghe discussioni su Paris Hilton e qualche furtarello a Porche e Ferrari lasciate furbescamente aperte e incustodite. Un dì, il colpo di genio: su Internet c’è scritto che Paris Hilton è fuori città per una festa, perché non andare a casa sua e portare via tutto quello che ci piace? Come ibridazioni tra Vincenzo Miccio e Lupin, i cinque iniziano così una carriera predonesca & festaiola che li porterà a svaligiare le case delle celebrità più trash del paese, in un’orgia di Gucci, Prada, Rolex e Maserati. Per essere come le star, nessun modo migliore che svuotargli il guardaroba.

 

 

L’obiettivo dell’ex-enfant prodige di Hollywood racconta ancora ed impietosamente il suo stesso vivaio culturale, modificando però la prospettiva di Lost in Translation e Somewhere: per raccontare un’America che produce idoli in quantità e con tecniche industriali, questa volta la Coppola prende in prestito lo sguardo di adolescenti di Los Angeles ossessionati dalla celebrità, dal marchio, dall’immagine, che prendo Ritalin a colazione e che praticano esercizi spirituali discutendo di quanto Angelina Jolie possa essere d’ispirazione per tutti; una jeunesse dorée disposta a qualsiasi cosa pur di ricalcare lo stile di vita dei suoi modelli di riferimento – Lindsay Lohan, Megan Fox, Audrina Vattelappesca di The Hills – e farlo sapere a tutti postando come se non ci fosse un domani foto in compagnia di bottiglie di Grey Goose formato famiglia russa e occhiali Alexander McQueen. Sofia Coppola dipinge così un mondo che – sotto un’anima sottile come la crosta della crème brûlée – nasconde il vuoto amorale, la leggerezza più incosciente, la gratuità di ogni gesto, regalandoci un viaggio allucinante in una cultura dove il prodotto materiale è ambiguo: sia oggetto di culto di una civiltà cannibale, sia trascurato, dimenticato con negligenza nel pieno rispetto della cultura dell’usa-e-getta, con la differenza che non stiamo parlando di fazzoletti o lattine, ma di ville ed automobili di lusso abbandonate agli Alì Babà di questo millennio da chi, dopo aver consumato, può permettersi di ricomprare.

 

Scordatevi il predicozzo alla Galimberti, però. Se film come Spring Breakers sono riusciti a creare complicità tra i personaggi e lo spettatore, giocando sul rapporto perverso che si instaura tra i due per condurre alla riflessione, la Coppola meno ingegnosamente preferisce abbandonarsi alla cronaca, senza dare al grande pubblico (che idealmente condivide il sistema di non-valori dei protagonisti e a cui il film dovrebbe rivolgersi) gli strumenti necessari per una visione proficua: Bling ring non parla alla cultura di massa a cui vorrebbe rivolgere il fendente, mentre riscalda un triste quadro dei soliti stereotipi sociali a chi non ha più bisogno di sentirseli ripetere. Scelta dei temi e dei mezzi comunicativi a parte, vi saranno poi sufficienti una ventina di minuti per rendervi conto della fiacchezza narrativa del film: nonostante l’ottimo montaggio, che riuscirà a tenervi vigili per tutti i novanta minuti, la pellicola procede per blocchi che vengono accuratamente giustapposti con mostruosa regolarità: l’ex-studentessa modello di Hogwarts e i suoi amici vanno ad una festa, fumano crack o quant’altro (bisogna ammettere che le sostanze stupefacenti variano e abbondano) e svaligiano una casa poi via, altro giro altro regalo, fino ad una conclusione sbrigativa e un po’ caotica, senza climax e senza fantasia. Riscrivere un fatto di cronaca non esclude la possibilità di raccontarlo in maniera vivace. Sofia non brilla neppure per la ricchezza delle inquadrature: si dà un taglio al taglio neo-realista di Somewhere (e già preannunciato dagli altri film), senza offrire nulla di interessante in cambio.

 

Convincente l’interpretazione di Emma Watson, che una piccola perla recitativa sul finale, così come il resto del cast, un po’ anonimo forse, ma proprio come un po’ anonimi dovrebbero essere i giovani dipinti dal film.

 

A luci accese, ci si alza dalla poltrona con l’impressione generale di un film debole, incapace di essere incisivo, senza mordente. Una pellicola che nonostante avesse tutti assi – almeno sulla carta, e non mi scuso per il gioco di parole – è riuscito lo stesso, incredibilmente, a perdere questa mano. Una sola cosa è certa: io non ruberò mai in casa di Jerry Calà.

 

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