Il Signor Diavolo, l’horror surreale di Pupi Avati

a cura di Giulia Mirimich

Un racconto a metà strada tra il surreale e la favola popolare: è Il Signor Diavolo di Pupi Avati, l’horror arrivato nelle sale il 22 agosto, quasi in contemporanea all’uscita dell’omonimo romanzo del regista bolognese. Il ritorno al grande schermo di Avati è stato piuttosto discusso, da una parte per l’estro poliedrico del regista, dall’altra per la naturale curiosità che una figura legata a una stagione cinematografica ormai passata suscita. C’è infatti chi ha visto nel Signor Diavolo un film lontano – troppo – dalla contemporaneità, un film in netto ritardo. In realtà andando ad analizzare, tra le tante tematiche, la capacità della religione di insinuarsi nella capacità di giudizio della società, Pupi Avati dà vita ad un film senza tempo, in grado di conformarsi al contemporaneo e confrontarsi con esso.

Nell’Italia del 1952, direttamente dal Ministero di Grazia e Giustizia di Roma, viene inviato in un piccolo borgo della campagna veneta il giovane Furio Momenté (Gabriel Lo Giudice), protagonista dall’aria ingenua che ricorda non poco lo Stefano (interpretato da Lino Capolicchio) de La casa dalle finestre che ridono. La causa è un impensabile omicidio: un bambino, Carlo, sconvolto dalla morte del suo unico amico, ha ucciso un suo coetaneo credendolo il diavolo, probabilmente a causa del suo aspetto mostruoso e deforme. La vittima, Emilio, era però il figlio di un’importante sostenitrice politica della DC, pronta a scatenare un terremoto politico in Veneto. Momenté dunque deve mettere a tacere ogni dubbio e placare le dicerie secondo le quali il giovane Carlo avrebbe agito plagiato dalla comunità religiosa. Questa infatti, secondo la madre della vittima, avrebbe inculcato nel ragazzino la convinzione dell’esistenza del diavolo, anzi del Signor Diavolo “perché alle persone cattive bisogna portare il dovuto rispetto”.

 

Il film è nettamente diviso in due parti narrative. La prima è occupata dal racconto di Carlo durante l’interrogatorio e l’atmosfera si carica di quel surrealismo caro al regista, recidendo ogni possibile contatto con il raziocinio e la logica. Nella seconda parte invece l’attenzione si focalizza su Momenté e il suo tentativo piuttosto goffo di indagini. Anche lui, come lo spettatore, è completamente plagiato dalla versione del piccolo Carlo, confermata poi dalle personalità più autorevoli dell’ambiente clericale. Nemmeno l’incontro con la madre della vittima, interpretata da una notevole Chiara Caselli, sembra farlo vacillare. Eppure basta la manciata di minuti dell’angosciante finale per scuoterlo e gettargli in faccia l’agghiacciante verità, ovvero che il male assoluto si annidava proprio in coloro che sostenevano di volerlo estirpare dalla comunità.

Non è un caso se vengono scelti gli anni Cinquanta come ambientazione: sono gli anni in cui la religione, con tutto il suo apparato ideologico, affonda le radici nella politica italiana e si prepara a dominare incontrastata. Attraverso una storia che sembra volerci far sorridere delle superstizioni popolari di un tempo, dettate soprattutto da credenze cattoliche e germogliate grazie al sempre fertile terreno dell’ignoranza, Pupi Avati in realtà fa sperimentare direttamente allo spettatore il modus operandi dei grandi poteri: offuscando la lucidità e la capacità di giudizio del singolo. Solo così è possibile manipolare le masse, spingendole a credere che il male si celi in tutto ciò che è diverso, ai margini della società.

Indagando ed esplorando il confine tra ciò che è e ciò che sembra, Avati mette a segno un horror che scruta gli aspetti più oscuri della psiche umana e che contiene tutti i leitmotiv del suo cinema, dall’anti eroe patetico all’ambientazione campestre, dal surrealismo irrazionale all’essenza squisitamente terrena dei suoi personaggi.


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