Il vecchio e la cultura.

C’è un piccolo comune in Abruzzo, con meno di duecento abitanti, in cui, stando alle statistiche, l’età media è di 64,4 anni. Un paese di nonni senza nipoti che, poi, è la metafora giusta per descrivere l’Italia. Non è una novità, viviamo in un paese in cui il numero delle morti presto supererà quello delle nascite, in cui la classe politica ha l’età media più alta d’Europa e che, probabilmente, andrà in pensione prima di essere uscita dalla crisi. Non è un paese per giovani il nostro, volendo parafrasare, per l’ennesima volta, il titolo di McCarthy. Perché le nostre forze se ne vanno all’estero o sono intrappolate nel precariato, perché non si fanno più figli e ci si sposa ancora meno, questo è il progresso, ed è sotto gli occhi di tutti, ed è già stato abbastanza analizzato.

 Non ci troviamo soltanto in un paese in cui è difficile essere giovani ma in un continente in cui si celebra il non esserlo. In cui la cultura, se la si considera come ciò che riunisce le differenti tendenze di un’epoca, elogia il vecchio, non soltanto il passato. Non c’è voce per i giovani, che stentano ad emergere o a farlo troppo precocemente perdendo poi il ruolo di rappresentanti che si cerca di dargli, non c’è un movimento, culturale o politico, capace di riunire le tendenze. Ci sono i vestiti, gli atteggiamenti e gli stereotipi, ma quello è un altro discorso. Ciò che oggi si celebra, a differenza del passato, è l’essere vecchio. La riscoperta del vintage, in qualche modo, ne è un sintomo. A Cannes vince Amour di Haneke e Dustin Hoffman fa il suo esordio da regista raccontando una storia di una casa di riposo. Questa è la realtà di un mondo in cui essere giovani è sostanzialmente fuori moda, meglio ritardare la vecchiaia o totemizzarla per nasconderne l’esistenza, cercando di non farla arrivare mai. E, non potendo combattere contro il passare del tempo, ci si illude che la giovinezza non esista o, meglio, non passi mai, facendola nascondere pure a se stessa. Sintomo di sessantottini disillusi e ansiosi.

 La cultura contemporanea è vecchia, come sono vecchi quelli che oggi ne sono considerati promotori e fautori, perché il nostro mondo è vecchio, sovraccarico di valori e di personalità ingombranti. Nel secondo dopoguerra si parlava di gioventù perché tutto era da ricorstruire e soltanto i giovani potevano farlo, negli anni settanta se ne parlava perché quello che era stato costruito non bastava più. Oggi, in quelli che sono considerati gli anni zero, diventare vecchi è l’unica novità che possediamo, perché avere una famiglia è un sogno, perché il tempo serve a far carriera, ed essere invecchiati è essere riusciti. Non c’è più il senso avventuroso del futuro perché si ha paura di quello che non si sa e l’attenzione al presente è diversificata in strati d’attenzione selettiva, in cui il giovane guarda al giovane, il vecchio al vecchio. Ciò che prima segnava una rottura tra padre e figlio ora è il legame che li unisce strettamente, perché entrambi non sanno più se avranno la pensione o meno, tra chi ha lavorato cinquant’anni e chi ancora deve cominciare. La crisi economica è una scusa per bloccare i processi di rigenerazione culturale e l’elogio della vecchiaia è il Goebbels più efficace. La storia ci insegna che il progresso nasce dai contrasti, non nella stasi. Il livello di disoccupazione e di precarietà giovanile a cui siamo arrivati, oltre a preoccuparci, deve farci riflettere su ciò che è stata la nostra società fino ad oggi, nei suoi modelli. Il gusto per il passato è un’arma a doppio taglio nella ferita dell’estraneità, di chi vede un esempio di vita felice e vuole ricalcarne le gesta, di chi, non sapendo chi è, non saprà mai cosa sarà.

 Qualcuno mi ha detto che la cultura è lo specchio dei cambiamenti e delle innovazioni di una società e che l’arte esprime il disagio, le paure e le peculiarità delle generazioni. Mi sono sempre accorto di come le persone si affidino alle parole degli altri per comprendere se stessi o per sentirsi parte di qualcosa, credendo che qualcun altro possa descrivere meglio ciò che sentono. Ma anche Kerouac è morto e, come lui, tutti gli artisti che hanno cercato di dare voce alle proprie epoche, prima che arrivasse l’ombra del vecchio, che tutto copre con una maschera di solitudine. E finché non ci saranno nuovi James Dean e nuovi “Belli e Dannati”, quella polvere continuerà a intrappolarci nel presente, perché i veri insegnanti sono quelli che si fanno tradire.

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