Immigrato mon amour

Mentre procede inesorabile la deriva al peggio del Paese, nel teatro della crudeltà politica resta ammorbante il clima di rappresaglia e veti incrociati che avvelena il neonato governissimo, guidato da Enrico Letta. In principio fu la minaccia del Pdl di far saltare per aria ogni accordo politico e di non votare la fiducia in caso di mancata abolizione dell’Imu, ora ad agitare gli animi è il ministro dell’Integrazione, Cecile Kyenge. Nel corso del programma In Mezzora di Lucia Annunziata andato in onda domenica su Rai Tre, il medico italo-congolese succeduto ad Andrea Riccardi nel dicastero istituito da Monti ha dichiarato di essere a favore dell’abrogazione del reato di clandestinità ed ha annunciato un ddl sul diritto di cittadinanza.

Un’ulteriore occasione per far ripartire il valzer inane delle polemiche che non riescono ad andare oltre nette contrapposizioni ideologiche e demagogiche. Basti pensare ai reali effetti che negli ultimi anni hanno avuto la legge Bossi-Fini sull’immigrazione (n. 189/2002) e quella del “pacchetto sicurezza” (legge 125/2008). Leggi fortemente sostenute dal centrodestra che avrebbero dovuto limitare il più possibile la permanenza di stranieri sul suolo italiano, favorendo prevalentemente un’immigrazione circolare con l’introduzione dell’obbligo del contratto di soggiorno, il dimezzamento della durata dei permessi e riduzione di permanenza in caso di disoccupazione. I dati invece dicono che dopo 14 anni, con le tre sanatorie e il mantenimento invariato del decreto sul flusso migratorio (la programmazione annuale degli ingressi destinati a lavoro stagionale, autonomo e subordinato) è stato consentito l’ingresso di oltre tre milioni di immigrati, circa 750mila stagionali, 1 milione e 350 mila ingressi per lavoro autonomo e subordinato e 1 milione e 150 mila in seguito alle tre regolarizzazioni. Questo dunque il risultato delle leggi del centrodestra, al netto degli slogan discriminatori e razzisti o di iniziative come quella di prendere le impronte digitali ai bambini rom, piuttosto che la detenzione nei Cie di migranti irregolari in violazione di ogni diritto umano. Costante l’aumento dell’immigrazione negli anni, certo meno qualificata di quella di altri Paesi europei, di contro nulla o poco è stato fatto per serie politiche di integrazione sociale: uno scenario che si è aggravato in seguito all’attuale crisi economica, in mancanza di adeguati strumenti di protezione sociale.

Sempre più italiani vivono in una condizione di disagio ed emarginazione che rende ancor più difficile affrontare e risolvere la giusta e necessaria richiesta di integrazione degli immigrati. Sono certo tempi in cui il multiculturalismo in Europa non gode di ottima salute, sembra essere ormai considerato fallimentare dai principali leader europei. In particolare David Cameron ha parlato di “dottrina del multiculturalismo di Stato” che non ha prodotto altro che autoghettizzazione tra diverse etnie e culture, una disgregazione sociale frutto di una mancata “visione comune della società alla quale sentire di voler appartenere”. Gli stranieri residenti in Italia sono l’8% della popolazione, percentuale che secondo l’Istat tra cinquanta anni raggiungerà il 24%, producono il 12% del Pil, versano 6 miliardi di Irpef e 8 miliardi di euro di contributi previdenziali di cui difficilmente potranno godere, così come le future generazioni di “cittadini” di fatto escluse dal sistema produttivo e dal mondo del lavoro. Il ministro Kyenge riporta al centro della discussione politica la questione dello ius soli: la concessione della cittadinanza a tutti coloro che nascano in Italia, a prescindere da quella dei rispettivi genitori, così come accade negli Stati Uniti e in Canada. In Europa ad eccezione della Francia, con il doppio ius soli, continua a prevalere, invece, lo “ius sanguinis”, l’acquisizione della cittadinanza in conseguenza della nascita da un genitore in possesso della stessa cittadinanza. Ciò che al paragone degli altri Paesi europei risulta più gravoso in Italia dell’iter burocratico sono tempi e misure più rigide (In Italia sono necessari 10 anni, che talvolta finiscono per diventare anche 15-20anni). Cosa voglia pero’ dire oggi essere cittadino italiano non è facile da spiegarsi, come riuscire a realizzare l’integrazione in un Paese disgregato, irriconoscibile, che da 150 anni cerca di “fare gli italiani”, senza riuscirci. Un Paese eternamente diviso, in fazioni, in lobby, in confraternite, in logge, in condomini che conosce tregua solo in occasione della partita della nazionale di calcio.

Flaiano diceva che l’Italia è “il Paese dove sono accampati gli italiani”. Ma davvero vogliono diventare italiani, gli conviene?

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