Impressionismo redazionale sul concerto dei Radiohead

ILARIA DEL BOCA

Il nuovo calendario aggiornato del tour dei Radiohead in Italia ha sicuramente favorito la terza tappa bolognese, a discapito della nube fantozziana che sembrava investirla e che avrebbe dovuto avere luogo in Piazza Maggiore il 3 luglio scorso. Trasferendo il concerto all’Arena Parco Nord il 25 settembre – nonostante gli inconvenienti che molti fans hanno sfidato – è stata data la possibilità a chi non era riuscito a procacciarsi i preziosi biglietti e di godersi uno spettacolo unico nel suo genere. Uno spazio immenso pronto ad accogliere le 22.000 persone attese ( ma c’è anche chi fa una stima di 30.000 spettatori ) e un palco che solo a vederlo toglie il respiro, tra luci stroboscopiche e pannelli in movimento. Non si fanno attendere i Radiohead, danno il cambio al gruppo spalla, i Caribou, alle 21 e 40 e cominciano il loro show impeccabile, che mancava i nostri i confini dall’ormai lontano giugno del 2008.

La prima delle ventiquattro canzoni è Lotus Flower, in cui Thom Yorke ci dà l’ennesima prova di essere un ballerino scordinatissimo, ma non per questo meno eccezionale. A seguire si alternano pezzi non troppo inflazionati, molti di The King of Limbs, altri di un repertorio più vecchio, passando per delle coinvolgenti 15 step e There There fino ad arrivare a zittire completamente la platea con canzoni del calibro di Lucky e Pyramid Song. Thom, Jonny, Colin, Ed, Phil e Clive hanno una forza che va oltre quella di vendere tanti biglietti: hanno la capacità di incantare e avvicinare le persone. Vicino a me c’erano anziani come bambini, coppie, ragazzi e ragazze di ogni età, alcuni commossi, altri intenti a cantare a squarciagola Paranoid Android sempiterna, altri ancora con gli occhi chiusi rapiti da quei suoni atemporali. In Idioteque condensano tutta la loro energia elettronica, ma non vengono risparmiate sonate al piano con Exit music che diventa teatro di contestazione goliardica tra Thom che rimprovera Jonny dicendogli: “Hey, Jonny, turn the fucking mic off”. Due ore e un quarto diventano troppo poche, lo spettacolo è incredibilmente ipnotico, e i Radiohead non fanno pause, sono instancabili, e non sbagliano una nota ( a parte le incomprensioni all’interno degli elementi della band ). Semplicemente perfetti. I soliti polemici avranno sicuramente da ridire anche sulla scelta di questa scaletta bolognese, così come è stato fatto per Roma e Firenze e probabilmente sarà fatto anche per Codroipo, ma credo sia inutile contestare le scelte di show come questi, che vogliono essere un unicum. Non si può contestare un finale da favola che lascia con il fiato sospeso tutto l’uditorio, incredibile da descrivere: True love waits diventa l’intro di Everything in its right place. La melodia si scioglie in una combinazione di synth rauchi e in echi vocali e con un “arrivederci” alla Stanlio ed Ollio, Thom e soci si congedano senza farsi pregare in ulteriori bis. Bologna non avrebbe potuto chiedere di meglio, chi ha macinato chilometri non è stato deluso e chi come me da novembre non aspettava il momento di farsi staccare il biglietto all’entrata del concerto, avrà il ricordo di uno dei più emozionanti e suggestivi esibizioni di sempre. IMMENSI.

 

GIACOMO CORTESE

Ecco, ora dovrei scrivere qualcosa su ieri sera. Potrei soffermarmi sulla scaletta, diversa ad ogni serata (ed io, fortunato spettatore bolognese, mi vanto con chiunque dei brani che mi son toccati in sorte); oppure potrei parlare della padronanza di palco di Yorke, il folletto danzante. O ancora potrei raccontare della loro bravura tecnica, dell’aria che si respirava in mezzo ad un pubblico di decine di migliaia di persone (in verità abbastanza insana), del palco spettacolare, di schermi al plasma fluttuanti che avrebbero suscitato l’invidia di Wayne Coyne e di altri schermi meno lusinghieri, appartenenti agli smartphone di chi mi stava davanti. Accennerei a Lucky, che è stato il mio personale momento d’estasi nella serata. Ma per quanto io scriva nessuno potrà rivivere il concerto attraverso le mie parole. Posso solo dire che i Radiohead hanno spaccato e che, se potessi, stasera nonostante la pioggia andrei a bissare a Codroipo, in barba a tutti gli haters del mondo.

 

EUGENIO MADDALENA

Vorrei spendere due parole su quello che è lo snobbismo intellettualoide che sembra caratterizzare la mia generazione. Se i Radiohead negli anni zero erano una realtà affermata, coloro che ad ogni nuovo album sembrava dovessero dettare nuove regole per le case discografiche che a loro volta dovevano inseguire quelle sonorità, quel modo di concepire la composizione e tutte le caratteristiche che li hanno contraddistinti, oggi, negli anni dieci, ci troviamo di fronte a chi sostiene che siano diventati un fenomeno troppo di massa. In pratica, nel momento in cui hanno coinvolto venticinquemila persone, il loro nome finisce su tutti i giornali (persino su Repubblica che di solito pubblica solo gli U2 e Madonna) e il nuovo album (nonostante sia stato definito “granitico”, introspettivo, duro, di difficile ascolto) vende milioni di copie i Radiohead sono diventati dei venduti. Così si spiega il fenomeno delle tante rinunce ai biglietti, al fatto che alla fine molti sono rimasti invenduti e al fatto che, oggi, se ascolti i Radiohead sei uguale agli altri venticinquemila, quindi non sei speciale.

La verità è che siamo dei “modaioli”. Pensiamo che la cultura possa risiedere  non dove è presente la qualità, ma dove essa è presumibilmente nascosta, celata agli occhi delle masse, che la conosciamo “solo noi” e solo noi ne siamo i detentori. Tutto questo è ovviamente insensato ma funziona. Seguendo questa logica David Bowie, il re del marketing ai suoi tempi, l’alieno, l’asessuato, dovrebbe essere un truffatore, un ciarlatano, un uomo che vende fumo. E invece no, Bowie è Bowie, i Pink Floyd sono i Pink Floyd, i Van der Graaf Generator sono i Van der Graaf Generator, i Radiohead sono i Radiohead. Sono tutti ricchi e hanno tutti venduto milioni di dischi e riempito stadi in tutto il mondo. Io credo che questi novelli snob, questi fautori della élite culturale, questi giovani Pico della Mirandola ci andrebbero ad un concerto dei Pink Floyd. E sapete… credo che nell’oscurità, senza dirlo a nessuno, ascoltino ancora Creep.

MARIO ESPOSITO

Qualcuno dice che pare abbiamo visto la Madonna. I video del concerto dei Radiohead, le foto del concerto dei Radiohead, le impressioni seguite al concerto dei Radiohead, le citazioni dei Radiohead: il fatto è che la Madonna non avrebbe la voce di Thom Yorke, né un Jonny Greenwood a fianco capace di farti venire i brividi anche suonando il citofono. Aggiungici poi un biglietto che, tra vicissitudini varie, stava per festeggiare il compleanno, che piaccia o no, si tratta di una manifestazione di soddisfazione post-eiaculatoria più che legittima.
Esagerato? Che si provi, allora, ad uscire senza contraccolpi positivi dall’impatto live con le convulsioni degli album più recenti, dall’esecuzione magistrale di brani devastanti come Exit Music, Nude o Pyramid Song, o ancora da una Paranoid Android ai limiti dell’umano. Giusto per dirne qualcuna.
Poi beh, se vi sembra ancora poco, chiudete un occhio e lasciateci in fase di adorazione almeno per qualche altro giorno: non tenteremo di convertire nessuno e saremo meno molesti dei pellegrini in viaggio verso Lourdes. Amen.

GIOVANNA TAVERNI

Ci sono un paio di atteggiamenti possibili quando tutto va una chiavica: uno è ascoltare qualcosa tipo i Rolling Stones e incazzarsi, l’altro è mettere un disco dei Radiohead e godere la propria depressione. E’ già tantissimo quindi, anche per quelli a cui non piace la goduria del dolore, che un gruppo sappia esprimere un’emozione (son cose che restano nella storia). La cosa divertente è che però il pubblico questa volta ha ballato pure. E addirittura Thom Yorke è parso sprizzare energia rock, non ai livelli di Mick Jagger, ma è successo. (Ps. Qualcuno parli di Caribou, quando ha tempo)

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