Indians – Somewhere Else

Voto: 8/10

Søren Løkke Juul non viene dal nulla. Comincia la sua carriera musicale come membro dei Let Me Play Your Guitars e con un album omonimo registrato tra Svezia e Danimarca. Un lavoro autoprodotto, perlopiù acustico, che ha come singolo di lancio Wherever You Go, un ottimo brano dalle influenze pop e folk. Le ambizioni di Søren divengono presto più elevate e il danese sigla un contratto con la nota scuderia 4AD (Bon Iver, St.Vincent, Mark Lanegan, solo per citarne alcuni). Questo suo primo lavoro viene presentato a firma di Indians”, dal titolo Somewhere Else, “altrove”, che suggerisce una narrazione basata su suoni trascendenti e dream. Difatti, proprio di questo si tratta.

I pezzi di cui è composto l’album non sono immediatamente fruibili e di certo non sono delle instant classic che rimangono nella mente. Ci troviamo di fronte ad un’opera complessa, che va approfondita anche dal punto di vista metrico. L’intenso singolo acustico Cakelakers, infatti, ha una struttura libera che cerca però sempre assonanze e rimandi, a volte ripetendo anche le stesse parole come in “Keep our love inside / Stay by my side”, oppure con le due chiusure di stanza “It’s you with all / Yes I will”, diverse ma quasi uguali nella pronuncia in cui fa gioco forza anche l’accento danese di Søren.

Il lavoro è costantemente in bilico tra l’elettronica e l’acustica, con una voce sospesa tra corde e tastiere che cerca – ben riuscendo – di porsi con una certa trascendenza sulle note, spesso minimali, in cui nuotano le varie composizioni. L’influenza di Bon Iver è immediatamente percepibile, in particolare in quei lunghi tratti di pause ambient che donano alle liriche un’atmosfera dream, spezzata spesso da un piacevole ingresso di chitarra acustica ben ritmata: è proprio il caso dello stacco tra Bird e I am haunted che come i migliori enjambement ci lascia un attimo spiazzati e ci ridesta l’attenzione riportandoci dalle nuvole alla terra.

In verità nel lavoro di Søren Løkke Juul si intravede anche l’influenza dei Grizzly Bear, in particolare con Melt, tra le più intime dell’album, che ricorda una Sun in Your Eyes meno epica e certamente più confidenziale. Questi accostamenti non sono citazionismi, ma la semplice incidenza di alcuni fattori che si ripercorrono in questi ultimi due-tre anni dove il dream-pop (Beach House, esempio su tutti) si è imposto con una certa violenza persino al super acclamato Vernon nell’ottimo passaggio tra Emma, Forever Ago e il secondo omonimo.

Una nota di attenzione particolare la merita La femme, un pezzo che ha l’abilità di trasformarsi durante la sua andatura, con dei bassi crescenti che esplodono in movimenti tellurici a voler disturbare l’ambigua tranquillità del minimalismo elettronico di cui è composta la parte alta. Anche New merita la sua vetrina, dove è presente una batteria elettrica che avvolge il cantato trasognato di Søren in una cortina metallica dalla quale ci si libera attraverso pulsanti suoni medio-acuti in un crescente climax che sembra dover esplodere, ma che non esplode mai veramente (una Glósóli troncata, per intenderci), per ripiombare infine nella cortina iniziale.

Probabilmente si dirà che Indians è semplicemente il nuovo cantautore sulla falsa riga di Bon Iver, peraltro prodotto dalla stessa casa, ma a chi sosterrà questa tesi io dirò che non ha le orecchie e che il cinismo critico ogni tanto va messo da parte, per poter riconoscere la poesia lì dove è nascosta, tra le necessità di produzione/vendibilità e la sincerità di una composizione che sa di tutto, tranne che di scopiazzatura generica.

Tracklist:

  1. New
  2. Bird
  3. I Am Haunted
  4. Magic Kids
  5. Lips, Lips, Lips
  6. Reality Sublime
  7. Cakelakers
  8. La Femme
  9. Melt
  10. Somewhere Else
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