Insieme a casa, con i Rolling Stones

Il 19 novembre del 1985 il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan incontrò per la prima volta a Ginevra il presidente dell’Unione Sovietica Mikhail Gorbaciov. Le due superpotenze rompevano il ghiaccio, intraprendendo il dialogo sul disarmo che avrebbe portato alla fine della guerra fredda. L’evento venne ripreso dalle televisioni di tutto il mondo e mandato in onda in Italia dalla RAI. Il silenzio stupito ed emozionato dei miei genitori mentre guardavano il telegiornale mi suggeriva che qualcosa di molto grande stava accadendo; nel mio mondo di bambina irrompeva la Storia e con essa l’idea di appartenere a una comunità più grande della famiglia, della scuola, della città e del mio Paese. Seguii più edizioni di tg per tornare a osservare l’immagine della stretta di mano tra i due leader di un’epoca e di un sogno, mi sforzavo leggere l’eccezionalità, partecipare al flusso. Mi trascinai per giorni il segreto rimorso di aver violato un qualche equilibrio mondiale di lealtà e obbedienza per la mia curiosità morbosa. Pace, sicurezza e collaborazione. Questo conteneva quella stretta di mano, i modi tanto cordiali da sembrare impacciati erano la promessa di un mondo migliore, la disattivazione di una minaccia.

Quasi trentacinque anni dopo, il mondo globalizzato e iper-connesso nel quale quotidianamente ci muovevamo liberi ed estesi – europei – al riparo da guerre, viene mandato in tilt da un virus, meno di un essere vivente, meno anche dei missili – ricordiamolo – e tuttavia più potente di medici e infermieri, contagioso e insistente come certe idee pericolose. I virologi lo inseguono, i governatori lo cavalcano, gli artisti ne trasmutano la carica angosciosa. Ma tutti – tutti – restiamo a casa, atomizzati e incerti: stanchi. Mentre questo episodio di Black Mirror si arricchisce di sempre nuovi elementi: tra app di tracciamento e fasi progressive di riconquista delle libertà personali tipo talent show; giurati affacciati alle finestre e qualche agente speciale à la blade runner (ma disorganizzato), socialità e mutuo soccorso passano attraverso la rete. E come surrogati inediti della vita vera possiamo visitare musei, assistere a spettacoli e concerti: tutto restando a casa. Il maledetto Covid-19 ci sta spappolando l’economia, e c’è proprio poco da stare allegri al pensiero. Ma se Confindustria e Governo promuovono la riapertura delle attività produttive, ci sono settori, come quello dell’intrattenimento musicale, per cui non è tuttora possibile prevedere il ritorno alla normalità. Se tutto va bene a un concerto – vero – potremo andarci nel 2021.


Ieri notte è stata la volta di One World – Together at Home, andato in onda live e in streaming su milioni di device e televisioni del mondo. Non una raccolta fondi ma una “lettera d’amore al mondo”. Così Lady Gaga, ideatrice dell’evento, ha definito il concerto streaming cui hanno preso parte tra l’altro Paul McCartney, Elton John, Eddie Vedder, Rolling Stones, Billie Eilish, Stevie Wonder, Taylor Swift, Annie Lennox. Grazie all’evento sono stati raccolti 128 milioni di dollari per l’OMS: la musica spara dritto al cuore di milioni di fans e in mezzo a questo sfacelo, nel surreale più assoluto, è stato dannatamente commovente. Il colpo di grazia per me sono stati i Rolling Stones. You can’t always get what you want, eseguita in videoconferenza, mi ha steso, lo ammetto. Per le tende e la camicia di Mick Jagger, per la sua vitalità imbattibile; per il bicchiere di vino, la candela e la giacca rossa di velluto di Keith Richards; per Ronnie Wood tra una palma e una scimmia con microfono in ceramica; per il maglioncino da vecchio di Charlie Watts, le cuffie verdi e le bacchette nell’aria. Mi sono detta: tutto questo è incredibile ed è bellissimo. E mi sono sentita come quella volta, da bambina, a guardare Stati Uniti e Unione Sovietica muoversi verso un mondo diverso. Un concerto non è la Perestrojka, la pandemia non è una guerra, eppure questo tempo è uno spartiacque totale e assoluto con tutto quello che c’era prima. La Storia per definizione racconta il passato, e quando in tempo reale diciamo di un evento che “sta facendo la storia”, lontani dal sapere quale sarà il futuro che ci aspetta, siamo però certi per qualche ragione di fissarne i contorni, disegnarne i lineamenti. Pescando tra le possibilità l’unica capace di imprimersi come matrice creativa dei fatti che verranno, disponiamo di un’immagine, che se non realizza appieno il domani, se non riesce a fugare i dubbi, ha tuttavia la forza necessaria per chiamare l’avvenire, riconoscerlo e influire sul suo manifestarsi. Ecco, per me tutto questo sono stati i Rolling Stones ieri notte. Non sappiamo se andrà tutto bene: se vogliamo garanzie, per dirla con Clint Eastwood, possiamo comprare un tostapane (online). Ma la musica sembra indicarci un dopo, un domani comunque; ci mostra che non siamo soli. Come dice il filosofo Jagger: non puoi sempre avere quello che vuoi, ma se ci provi puoi ottenere ciò che ti serve.

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