Intervista a Ciro Battiloro, il fotografo napoletano dietro Sanità

Sono le cinque di pomeriggio, è già scuro perché è pieno inverno, attraverso le strade strette del rione Sanità a Napoli rese ancora più strette dai motorini, dai paletti, dalle mamme che spingono i loro passeggini. Napoli è davvero enorme ma sa essere anche incredibilmente piccola, come un sistema circolatorio con le sue arterie e i suoi capillari. Anche altre città sono così ma a Napoli, come per altre cose, i vicoli stretti non sono un problema, anzi.

Abituato ormai alle strade di Torino e soprattutto alla sua densità di popolazione decisamente più bassa rispetto a quella di Napoli, mi colpisce il modo in cui questa città ti avvicina fisicamente agli altri. Da fotografo riesco solo a pensare che mi servirebbe un grandangolo bello largo.

Il tempo di pensare a queste cose leggere finisce quasi subito, perché mi ritrovo d’improvviso di fronte al Nuovo Teatro Sanità. Le gambe mi si fermano da sole, come se l’avessero riconosciuto loro il posto e non gli occhi. Chiedo e ottengo conferma ad un signore che si trova a passare di lì e che sembra mio zio.

Mi faccio strada all’interno e riconosco subito l’aria di un luogo conquistato dal popolo, un tempio di cultura e di sapienza, un posto dell’anima. Ho appuntamento con Ciro proprio qui. Da qualche tempo parliamo via Facebook ma lui è uno di quelli con cui è molto meglio parlare dal vivo anche perché i social li usa davvero poco e niente.

Mi ritrovo in forte anticipo da solo con le fotografie esposte in maniera incredibilmente semplice ed efficace. Il fotografo dietro Sanità, è Ciro Battiloro, lo stesso con il quale devo incontrarmi. Le luci a spot del teatro illuminano in maniera diretta e potente le fotografie montate in modo simmetrico e speculare; uno schema che trova il suo compimento al centro, con un leggio sul quale è poggiato un album di quelli usati per raccogliere le fotografie dei matrimoni.

Quando apro la prima pagina non trovo imbarazzanti fotografie da un matrimonio con invitati dai capelli cotonati con le giacche dalle spalline anni ottanta e colori poco probabili ma le bellissime fotografie che danno vita al progetto.

Oggi, a mesi di distanza da quel nostro primo incontro, gli chiedo se gli va che lo intervisti e con la spontanea bontà che lo contraddistingue non ha esitato ad invitarmi a pranzo da lui, a Torre del Greco.

Ciro Battiloro fuori la sua abitazione a Torre del Greco, NA | © Mario Cipriano

Mario: Ciao Ciro, prima di tutto vorrei presentarti ai nostri lettori nella maniera più adeguata: come posso definirti? Sei un fotografo, un artista o un fotoreporter?

Ciro: Eh, non è semplice. Sicuramente se me lo chiedi così a bruciapelo ti rispondo che mi sento un fotografo. Non mi sento un fotoreporter perché il lavoro del fotoreporter è collegato ad eventi specifici, che siano avvenimenti di cronaca o storie che durano anni. Io invece molto spesso vado a fotografare lì dove non accade nulla, non c’è l’evento. Ciò non toglie però che in tutto ciò ci possa essere qualcosa di artistico, perché nel momento stesso in cui scelgo un taglio, una composizione vado a creare qualcosa, un linguaggio. Comunque credo che tra le tre definizioni quella che meglio mi descrive sia proprio quella del fotografo.


M: Questa intervista sarà preceduta da una piccola introduzione, nella quale però non vorrei parlare a fondo di Sanità, perché preferisco che sia tu a farlo. Di cosa si tratta?

C: Sanità è un progetto a lungo termine che ho realizzato in questo quartiere di Napoli che è, appunto, il Rione Sanità in cui ci sono grosse problematiche sociali con grandi carenze civili come scuole, lavoro e tutto ciò favorisce chiaramente anche il proliferare di attività illecite. Questo è il quadro generale del quartiere che è diventato uno dei più poveri di Napoli in seguito alla costruzione del Ponte della Sanità (Ponte Maddalena Cerasuolo). Prima di questo evento il quartiere era abitato da famiglie nobili (questo spiega anche la presenza di palazzi nobiliari). Questo ponte è risultato come un vero e proprio danno per il quartiere, dato che lo tagliava fuori dalla vita economica e sociale della città. Questo è il tipico esempio in cui il cemento invece di permettere lo sviluppo di un territorio, lo penalizza.

© Ciro Battiloro 

M: Quindi è questo fenomeno che ha catturato la tua attenzione su questo quartiere in particolare?

C: Diciamo che la cosa interessante è che il risultato di questo processo urbano ha creato una realtà tipica delle periferie delle città italiane ma nel pieno centro storico della città. Quindi sicuramente questo è stato il punto di partenza poi però mi sono reso conto da subito che oltre il discorso sociale c’è una componente umana incredibile in questo quartiere. L’umanità che si ritrova in queste strade è primordiale e autentica. Essendo una vita che si svolge in spazi angusti, sia dal punto di vista fisico che da quello culturale, questa sembra mostrarsi nella sua forma più essenziale, mettendo in mostra prima di tutto le relazioni umane. In queste dinamiche e in questi vicoli, l’amore riesce nel miracolo di trasformare la disperazione in delicatezza e dolcezza e in molte delle mie immagini voglio descrivere proprio questo aspetto del quartiere, magari non molto noto alle cronache.

M: Sembra quasi che il rione si trasformi in un pretesto per parlare dell’umanità in generale, mi sbaglio?

C: Esatto, alla fine diventa quasi un lavoro che è avulso dal contesto. Il contesto c’è, ma Sanità lo vedo più come un lavoro sull’amore, sulla solitudine, sulla condizione umana. Il contesto è importante, perché questo è un luogo in cui gli estremi dell’umanità riescono a convivere.

© Ciro Battiloro

M: Un’umanità appunto fatta di volti, che sono elementi che colpiscono molto nelle tue fotografie, chi sono i tuoi soggetti?

C: Parliamo innanzitutto di un’umanità dimenticata. Una parola che mi viene in mente pensando a queste persone è sottoproletariato, anche se è un termine che per diverse ragioni difficilmente sembra adattarsi a questo contesto storico. Nonostante sia un’umanità dimenticata, racchiude un’enorme ricchezza che è la forza e la semplicità dell’essere umano. Le storie dietro queste persone sono silenziose, personalmente non ricerco storie che vogliano scioccare ma persone semplicissime la cui preoccupazione principale è la mera sopravvivenza.

M: Sento che nel tuo progetto è molto vivo il concetto di morte. Che tipo di rapporto esiste tra il rione e il concetto di  morte e quanto questo è presente nelle tue fotografie?

C: Questo rapporto è fortissimo in questo luogo, ma è un rapporto che va al di là di un discorso religioso o di credenze popolari. Piuttosto è qualcosa quasi di inconscio e si ripercuote nella storia di questi soggetti, dato che la maggior parte dei soggetti con i quali mi sono relazionato hanno subito gravi lutti. Da un punto di vista quotidiano, la morte vuol dire assenza di qualcosa e credo che nelle mie immagini questo concetto sia presente a volte e altre volte sia presente per contrasto, grazie al sentimento che ti porta a voler riempire quell’assenza.

© Ciro Battiloro

M: Tornando su argomenti più leggeri, quanto tempo hai lavorato sul progetto Sanità? Lo consideri ancora aperto?

C: Sono quasi tre anni ormai che ci lavoro. Io ritengo che fondamentalmente ogni progetto fotografico sia sempre aperto, perché c’è sempre la possibilità di aggiungere qualcosa. In Sanità questo è ancora più forte dato che è un lavoro realizzato a stretto contatto con le vite delle persone. Credo che si possa continuare all’infinito! La chiusura di questo progetto potrebbe coincidere con l’edizione di un libro, che sarebbe anche un modo per fermarmi perché effettivamente sono tre anni che ci lavoro in maniera perenne

M: Ah, cioè con che frequenza?

C: Non dico giornaliera perché non vivo lì, ma settimanale sì dato che almeno due, tre volte a settimana sono lì. Non riesco a definire un lavoro chiuso anche perché si è instaurato un rapporto con i soggetti che va al di là del progetto. Nonostante questo, mi sento di dire che già in questo momento potrebbe essere un lavoro considerato chiuso, anche se sono convinto che ogni progetto possa andare avanti anche all’infinito, sopratutto se li si pensa in un ottica di insieme in cui ogni progetto è solo un capitolo ed è strettamente collegato a quello successivo.

M: Ci sono molti fotografi, soprattutto quelli giovani (non anagraficamente, ma fotograficamente) che vivono un vero e proprio blocco nei confronti dell’interazione col soggetto desiderato. Tu come hai affrontato e affronti questa questione quando lavori?

C: Questa è una sensazione sacrosanta che ogni fotografo ha diritto di avere. Nel momento stesso in cui un soggetto ti mette in crisi è un forte segno che quel soggetto ti interessa. In che modo poi, superare questa crisi, posso rispondere per la mia esperienza personale: io ho sempre superato questo blocco comportandomi in maniera naturale e credo che il segreto affinché una persona si lasci fotografare anche in situazioni intime sia l’essere il più onesto possibile con essa. Nel momento stesso in cui il soggetto percepisce la tua onestà di intenti, tutto sarà molto più facile.

© Ciro Battiloro

M: Ogni grande fotografo ha il suo modo personale per tenersi allenato a guardare, qual è il tuo?

C: Mi piace trarre insegnamenti e lasciarmi guidare da un libro, un film, un viaggio. Credo che la vita stessa quotidiana, anche in degli aspetti superficiali possa insegnarti a guardare in una certa maniera, così come l’educazione che hai ricevuto, le tue esperienze personali, tutto rientra nel tuo allenamento a guardare.

M: Mentre per quanto riguarda dei punti di riferimento nel mondo della fotografia, chi ti senti di considerare come maestro?

C: Mi sento di fare tre nomi tra quelli che mi hanno segnato e condizionato profondamente. Primo tra tutti Biasiucci, mio grande maestro diretto di fotografia e di vita il quale mi ha seguito anche durante la fase di gestazione di Sanità ed è una persona che mi ha aiutato tanto nel guardare in profondità a quello che è il senso della fotografia e al porsi in maniera rispettosa verso il soggetto e la sua dignità, mi ha portato insomma ad una ricerca di autenticità. Gli altri due fotografi ai quali sono molto legato sono Koudelka e Eugene Richards.

© Ciro Battiloro

M: Quando ci siamo incontrati per la prima volta, al Nuovo Teatro Sanità c’era su un leggio un album fotografico di quelli che si usano per raccogliere le fotografie di matrimonio, come mai questa scelta?

C: Quello era un album di famiglia volutamente composto in maniera disordinata e l’idea iniziale era duplice: da un lato era per fare un piccolo dono agli abitanti del quartiere, un modo per dare spazio ai soggetti che non comparivano nelle fotografie esposte sulle pareti. L’altra sua funzione era quella di sottolineare il significato dell’album di famiglia, cioè il preservare i ricordi strettamente intimi. Questo si lega al concetto di famiglia percepito in maniera molto forte dagli abitanti del quartiere, quindi quell’album funge anche da grande album di famiglia del quartiere.

M: Sono io che ci sto vedendo troppo o questa scelta vuole rimandare anche a quei momenti in cui ci si riuniva intorno ad un album o uno scatolone pieno di fotografie di famiglia e le si sfogliava insieme?

C: Sì, in effetti voleva avere questa funzione e magari potrebbe essere proprio il concetto alla base di una soluzione editoriale per un eventuale libro su questo progetto.

© Ciro Battiloro

M: Questo tuo progetto però non è l’unico, ma solo il più recente. Ci parli di Ciro Battiloro oltre Sanità?

C: Come progetti più strutturati (su una base di tempo che ci ho dedicato) è il lavoro su due famiglie Rom che vivevano in un campo a 100 metri da casa mia. Mi incuriosiva la presenza di questo micro cosmo nelle mie vicinanze, un mondo del quale percepivo la presenza. Ho iniziato quindi a frequentare il campo e ci ho lavorato per qualche tempo, seguendo le vicende delle persone che appartenevano a questo piccolo mondo. Sono poi partito per la Romania, invertendo i piani e diventando a mia volta ospite nei villaggi di origine di queste persone.

Poi ho qualche lavoro più ridotto come quello sugli Yörük, una tribù di pastori nomadi di origine turca, realizzato tra la Macedonia e la Turchia. Per quanto riguarda altre raccolte, mi sento di definirle più semplicemente reportage di viaggio ma non veri e propri progetti.

M: Cosa vedi nel tuo futuro prossimo e in quello remoto? Stai pensando ad un prossimo progetto fotografico o editoriale?

C: Sicuramente c’è l’idea di provare a realizzare un libro con Sanità. A breve ritornerò nel quartiere di Santa Lucia di Cosenza che vive una situazione molto simile a quello del rione Sanità. Altro punto in comune è l’essere dei luoghi dall’aspetto e dinamiche tipiche degli hinterland, ma effettivamente ubicati nel centro della città. La periferia entra nel centro della città ma ne è anche memoria storica, da un punto di vista soprattutto umano. Mentre la Sanità sta vivendo un momento vivo da un punto di vista sociale, culturale (anche se sono dinamiche lente), il quartiere di Santa Lucia vive nel pieno di un abbandono quasi totale, come se fosse un quartiere fantasma. Le affinità di base mi stanno facendo pensare ultimamente a questi due progetti come primo e secondo capitolo di una trilogia di cui però penso sia prematuro parlare ora.

© Ciro Battiloro

M: Cosa ti ha trasmesso il rione Sanità e cosa pensi possa trasmettere il progetto Sanità?

C: Il rione sicuramente mi ha regalato una serie di rapporti umani che non mi lasciano indifferente e mi ha insegnato a rapportarmi con delle realtà che sono sempre un poco al limite di un baratro. Il vivere con problematiche quotidiane forti ti dona da un lato la forza e la dignità non comune per superarle in una maniera positiva e d’altro lato rischia di spingerti verso delle realtà ai limiti della legalità. Quindi sicuramente mi ha insegnato a vivere nel senso pratico del termine, al relazionarmi in maniera scaltra verso la vita. Mentre per quanto riguarda Sanità spero possa riuscire nel suo intento di raccontare e trasmettere la delicatezza di questi soggetti, il loro aggrapparsi alla dignità di base dell’uomo per mantenere intatta la loro grande umanità. Chiaramente non è una favola quello che avviene in questo luogo ma è proprio questo lato negativo a dare un valore ancora maggiore al lato positivo.

M: Bene Ciro, è arrivato il momento di salutarci, ti ringrazio dell’incontro e della grande disponibilità.

C: Grazie a te, è stato un gran piacere!

Ciro è uno di quei fotografi che ragiona con gli occhi, guarda col cuore e ama con la testa. Le sue fotografie sono delicate e dalla duplice valenza a seconda del punto di vista dal quale le si guarda, foto-giornalistico o artistico. Le immagini che crea Ciro sono racconti di mondi pieni di significati, segni, rimandi, eleganti giochi tecnici ma anche pesanti testimonianze di realtà tutt’altro che leggere. La sua fotografia è fatta delle stesse gocce degli oceani creati dai giganti della storia della fotografia.

Prima di essere un grande fotografo, Ciro è una gran bella persona, un ragazzo estremamente modesto e sincero, con le idee semplici e chiare, di quelli che ti fa davvero piacere poter chiamare amici e gli auguro anche qui di poter trovare sul suo cammino le soddisfazioni che merita, tanta luce e storie incredibili per il suo occhio.

Qui puoi trovare il progetto Sanità  http://www.cirobattiloro.com/Sanita

Qui puoi trovare il profilo di Ciro su Lens Culture https://www.lensculture.com/ciro-battiloro

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