L’elettronica umana: intervista a Godblesscomputers

La musica di Lorenzo Nada, in arte Godblesscomputers, è fra le più interessanti all’interno del contesto italiano, l’abbiamo raggiunto al termine del suo live set al primo meeting di Eleva Festival a Reggio Emilia, per capire cosa si muove dietro ai suoi beat e alle atmosfere del suo primo album Veleno, di cui puoi leggere la recensione sulle nostre pagine. L’intervista a Godblesscomputers serve un po’ a tutti per comprendere meglio cosa si muove nel panorama elettronico italiano e non.

Veleno è uscito questo aprile, imponendosi prepotentemente nella scena nazionale per i suoi beat ricercati e particolari, com’è stato ritrovarsi da un momento all’altro catapultato sui palchi di tutta Italia, apprezzato dagli addetti ai lavori e sommerso di critiche positive? Te lo saresti aspettato?

È stato bello e allo stesso momento sorprendente. Non mi aspettavo di avere un feedback di questo genere, soprattutto da parte di chi non segue, nello specifico, la scena elettronica a cui mi sento di appartenere, anche se la mia musica è un puzzle fatto di piccoli pezzi e tante piccole esperienze personali. Molte persone mi hanno scritto, o sono venute ai concerti senza conoscermi e ne sono rimasti soddisfatti, qualcuno si è sentito catapultato in un viaggio, ed è bello, perché è quello che cerco io per primo quando compongo i pezzi. Sono cresciuto con l’hip hop che però, col tempo, è stato contaminato da tante cose che mi hanno segnato, sia dal punto musicale che dalle esperienze che ho fatto. Cerco di mettere nella musica i momenti della mia vita e le varie sensazioni che ho provato, quindi se le persone riescono ad entrare in questa atmosfera, beh, ne sono felice.

Veleno, però, è la parte finale di un complicato processo artistico di creazione. Nella tua musica ci sono diversi livelli, primo fra tutti il lavoro sui campionamenti e la parte ritmica.

Sì, esatto, per campionamenti io intendo la registrazione dei suoni organici, come mi piace chiamarli, perché principalmente li ricavo dall’ascolto della natura, il rumore dei passi delle scarpe sui sassi piuttosto che, magari, quello del legno e di altri oggetti, che poi tratto come dei piccoli campioni utili a stratificare la parte ritmica. La parte armonica e melodica è principalmente suonata con sintetizzatori ma, allo stesso tempo, da altri campioni che successivamente modifico col synth e la tastiera. Curo molto l’aspetto melodico e armonico nei miei brani, per questo non credo che la musica venga sbilanciata troppo sul groove che, ovviamente, c’è.

Il tuo background, come detto, proviene dall’hip hop, che influenza e caratterizza la parte vocale piuttosto che, come ci saremmo aspettati, quella del groove. A cosa si deve questa scelta?

È nato tutto un po’ per caso qualche anno fa, ero stato invitato a Cesena per l’Across the movies, una rassegna di cinema e musica, dove ogni proiezione è legata a una retrospettiva su una band o un artista musicale. Quell’anno c’erano i Beastie Boys e per ogni evento che facevano chiedevano a un musicista contemporaneo italiano di intervenire. Così quando mi sono messo a provare in studio per il live, mi sono divertito ad appiccicare inizialmente le acappelle su dei beat miei che avevo già fatto e non erano mai usciti. Ho visto che funzionavano e mi sono detto perché non strutturarla per bene, arrangiandola e mixandola in un certo modo e quello che prima doveva essere soltanto un live ha iniziato a diventare uno strumento che continuo a usare. Stasera, ad esempio, c’era We’ve got the dei Beastie Boys che fa parte di questo piccolo ep di sette tracce scaricabile gratuitamente (qui), per l’etichetta Fresh YO! Label di Firenze che ha collaborato anche a Veleno, in cui mi sono divertito a fare dei rework dei Beastie Boys con i quali sono cresciuto.

Dai campionamenti della natura all’hip hop, dall’ambiente italiano in cui sei nato a quello berlinese dove ti sei trasferito, come ti ha influenzato quella che è considerata da sempre la capitale europea della musica elettronica?

A Berlino ho vissuto un paio di anni, ma più che la musica che ho ascoltato là, che sicuramente mi ha influenzato, anche se è tutto più sbilanciato sulla musica techno che mi piace ma in cui non mi sento di rientrare, quello che mi ha ispirato di più è stato il mood generale della città e la sua apertura mentale, il fatto che alcuni elementi sia musicali che artistici si mescola con la città e le persone che la vivono. È stata un’esperienza utile, soprattutto dal punto di vista umano, e sono queste le atmosfere che cerco di mettere dentro la mia musica. Il tentativo è, in qualche modo, di inserire quell’aspetto più urbano che mi ha colpito della città. Mi piace mischiare queste due cose, natura ed etnicità, suoni organici e rumori più urban in una specie di collage, cercando di trovare un equilibrio in tutte queste componenti. È difficile, in generale, descrivere questo tipo di musica a un altro, perché non è musica parlata che racconta una storia attraverso un testo, è musica di suggestioni e di impatti, di bassi, di groove e di momenti. Ognuno ci sente e ci vede qualcosa di suo, e mi piace anche questo aspetto, perché se sono io a parlarne, che so quali sono i processi creativi e le suggestioni che stanno alla base della creazione, ho una visione diversa rispetto a quella di chi la ascolta e ci trova un suo significato a cui, magari, io non ero mai arrivato.

La tua musica è un melting pot di esperienze e influenze diverse, l’hai definita, al di là degli stili, come elettronica umana.

Mi piace definirla elettronica umana perché quello che cerco io è di distanziarmi il più possibile dal suono delle macchine che, essendo musica elettronica, costituiscono la musica. Non accontentarmi, cioè, del suono di determinati sintetizzatori o, quando non è possibile, prendere questi suoni riconoscibili e codificati e manipolarli, stravolgerli quanto basta perché la mia musica elettronica diventi più uomo e meno macchina. Quindi i suoni della natura, concreti e organici, mischiati con quelli delle macchine che utilizzo.

In un primo momento chiamarti Godblesscomputers ci è parso un controsenso, da un  lato l’elettronica fatta a uomo  dall’altro la benedizione verso le macchine. Riflettendoci un po’, però, sembra una specie di benedizione legata a quella possibilità che possiedono le macchine di recuperare  quei suoni della natura che passano inosservati per restituirli, tramite i campionamenti, a noi. Quindi una benedizione verso quei mezzi che ci permettono di recuperare ciò che rischia di andare perso.

Mi piace il fatto che, come nella mia musica, ognuno possa avere una sua interpretazione. Il mio nome, che si scrive con la S finale, ci tengo a ribadirlo perché ci si sbaglia sempre (ride), risale in qualche modo dalla visione del film π – Il teorema del delirio, che parla del rapporto tra uomo e tecnologia, in cui l’uomo costruisce delle macchine talmente potenti che escono dal suo controllo e governano il mondo. Gli uomini ne sono subordinati perché non riescono a fermare il meccanismo che si è formato tra le macchine che sono più potenti. La sfera del divino, e quindi la spiritualità, quell’esigenza umana di conoscere si sposta sulle macchine, da lì Godblesscomputers. Non è una visione apocalittica, però mi piaceva dargli questo concetto, anche perché spesso quando fai musica come la mia stai in studio fisso su uno schermo del computer. Certo hai le macchine, i campionatori e i vari strumenti, ma talvolta mi sento un po’ alienato e mi sento quasi come se fosse il computer a governare me.

Si parla spesso di un fantomatico ‘movimento elettronico italiano’ quando, in realtà, i diversi artisti che stanno emergendo, (pensiamo ai vari Yakamoto Kotzuga, gli Aucan, Go Dugong e Godblesscomputers stesso), hanno stili e background molto diversi, difficilmente assimilabili a un unico concetto di ‘avanguardia’ con regole e stili determinati.

Credo che un movimento italiano di elettronica esista, dal momento che ci sono molte persone che lo fanno, ma è un discorso che interessa molto di più ai giornalisti che a noi che facciamo musica. Si cerca sempre di legare alcune persone a una sorta di fantomatico movimento artistico. In qualche altra intervista mi hanno chiesto spesso se siamo parte di un unico movimento io, Clap Clap, Go Dugong, Machweo, Yakamoto Kotzuga e altra gente che spacca, anche se proveniamo tutti da background differenti, per stili ed esperienze, e ci ritroviamo assimilati all’interno di una determinata categoria musicale, suoniamo spesso negli stessi posti, ci conosciamo tutti e collaboriamo spesso. Più che un movimento, secondo me, è una grande famiglia. È una cosa nuova, poi ognuno prenderà la sua strada col tempo, mi piace vederla in questo senso piuttosto che nella formazione di un’avanguardia determinata. Quando arriveranno i soldi e qualcuno inizierà a guadagnarci qualcosa diventerà come qualsiasi altra scena musicale, inizieranno a comparire gli hater e le differenziazioni del caso, ma è ancora presto ed è normale venire assimilati in un unico calderone. Siamo ancora basso profilo, ognuno fa le sue robe più o meno grandi, però inizia a smuoversi qualcosa.

In qualche modo la tua presenza nel cast di Eleva Festival, orientato di più verso l’ambiente del clubbing, in parte dimostra questo concetto.

In parte sì. La mia roba può rientrarci più o meno bene. È un’opportunità se c’è gente curiosa, che cerca di capire cosa stai facendo e si interessa poi alla tua musica. Quindi perché no essere assimilati a dj che suonano della techno o dell’house, come con gruppi che fanno rock post rock. Finché c’è qualcuno che ancora si interessa a quello che non conosce è sempre una buona occasione e un buon motivo per partecipare.

In pochissimi anni la musica elettronica, in tutto il mondo, ha iniziato a ricoprire, per interesse e popolarità, quel ruolo di trascinatrice che, fino a qualche anno fa, era appannaggio del rock e del pop. Credi che questa attenzione crescente, il fiorire di festival elettronici a discapito di quelli più ‘canonici’, possa far considerare questo genere di musica in espansione con dei termini più generazionali?

È una domanda scomoda perché non ho una risposta, ancora. Il contesto italiano è un contesto strano, perché storicamente il nostro paese è sempre stato più legato al cantautorato, alle parole, al testo, mentre la musica elettronica non è una cosa ancora totalmente nostra ma, perlopiù, di importazione. Ognuno di noi, poi, prova metterci dentro qualcosa di suo, utilizzando le sue basi e le sue influenze. Io sono partito dall’hip hop e come molti altri ragazzini quando una cosa ti piace, compri i primi vinili e provi a suonarla. Quando inizi a produrre cerchi di mettere nella tua musica comunque le sensazioni e tante esperienze tue e dei posti in cui vivi quindi, nel nostro caso, l’Italia, finché poi qualcuno inizia a rivedersi lì dentro. È un processo che è partito da poco, la gente deve piano piano arrivarci, per definirla generazionale è ancora presto.

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