Intervista a Porcelain Raft: lezioni americane

Abbiamo intervistato per voi Porcelain Raft che, in seguito all’uscita del secondo album Permanent signal, sta attraversando in una lunga tournée tutti gli Stati Uniti, da Brooklyn dove abita fino all’altra costa, quella con i surfisti biondi con furgone wolkswagen e labrador al seguito, tanto per intenderci. Ma se il suo giustificato successo è tutto – o quasi – d’oltreoceano, non lo sono di certo le sue origini: dietro al musicista etereo e sfuggente si cela in realtà Mauro Remiddi, uno de’ noantri , mangiaspaghetti proveniente dal paese a forma di calzatura più noto al mondo. Dall’ambiente musicale italiano, che fatica a riconoscere i propri talenti ma soprattutto ad esportarli all’estero, parliamo con qualcuno che ha deciso di auto-esportarsi, prima a Londra e poi negli States, trovando finalmente il giusto vivaio per la propria musica e venendo a contatto con vari artisti internazionali, musicisti e non solo.

In attesa del suo arrivo (o ritorno, per i nostalgici) in Italia da straniero tra stranieri, speriamo che questa volta, con tutta la patina da stranger che al pubblico nostrano ce piace assai, riesca ad ottenere applausi anche da mani sporche d’amatriciana.

Incominciamo dalla cosa più importante, la musica: Permanent signal (uscito a Febbraio per Secretly Canadian,ndr) in realtà ci ha dato due segnali. Per prima cosa, ci ha insegnato che sei un artista estremamente produttivo: due album in due anni, senza considerare il corollario di Ep. Com’è nata la necessità di questo disco, uscito così rapidamente dopo “Strange Weekend”?

Per la prima volta mi sono trovato nella posizione di fare un tour lungo quasi un anno e non poter registrare. Il mio approccio è sempre quello di registrate, anche solo idee, come creare un proprio vocabolario di suoni, un archivio. Quindi una volta finito il tour per Strange Weekend ho sentito l’urgenza di comporre e registrare. Ero in un mood disconnesso, tra l’esperienza surreale del tour e l’inizio di una vita quotidiana normale a NY. Mi sono reso conto che avevo un sacco di cose nella testa, come lettere scritte ma non spedite. Permanent Signal è il mio gesto di, finalmente, spedire quelle lettere.

Il secondo segnale di Permanent Signal è che il tuo sound sta evolvendo verso punte più oniriche, emotive, “umane”. Come vedi il tuo percorso artistico per il futuro?

Sai io la vedo come un’avventura, più pianifichi e meno ti diverti. Alla fine tutto quello che faccio è intrattenere me stesso e scattare fotogrammi di nuove esperienze.  Immagina 5 minuti proiettato nel futuro. Non è presente né un futuro diverso da quello che già conosci; ecco è lì che la mia musica prende forma.

La serie di date che ti attende negli Stati Uniti quest’autunno è impressionante, poi un tour attraverso tutta Europa. In coda soltanto tre date nel nostro paese – Ravenna, Roma e Padova– a Novembre: che cosa manca in Italia? Il pubblico, i locali o entrambi?

Non lo so cosa manca in Italia, sono andato via 15 anni fa, ho perso il filo. Forse manca la memoria. Di sicuro per esperienza c’è molta gente che davvero è appassionata di musica.

Sulla tua pagina Facebook è stato caricato un video che hai realizzato per Rebirth degli Yuck, e spulciando la tua biografia si scopre che hai collaborato per anni con artisti come Ra di Martino nel campo dell’arte visuale. Come vivi questa dualità artistica?

Credo che bisogni sempre fare quello che ci è più congeniale. La dualità è naturale, la specializzazione non lo è. Già da piccoli e al liceo ci insegnano come è importante specializzarsi, il lavoro specializzato, il matematico, il regista, lo scrittore e così via. Io non sono d’accordo.

Ogni talento che abbiamo può essere applicato in qualsiasi campo, la perfetta dualità? Passione e ossessione.

Tu componi anche colonne sonore per film – per citare la più recente, quella di “Sank”, uno dei film sulla danza diretti da Derrick Belcham. Come cambia il tuo approccio alla musica tra la composizione di un album e la scrittura per il video?

Nel video si è liberi di creare vuoti e lunghi respiri o creare strutture che hanno senso solo se accompagnate dall’immagine stessa. In un album ho il bisogno di un tipo di struttura che non ha bisogno di essere sostenuta da qualcosa di esterno.

Tra gli artisti del nostro paese tu sei l’emblema del musicista talentuoso che – con una lunga carriera all’estero – è finalmente riuscito a sbocciare: prima a Londra con i SunnyDay Sets Fire poi negli Stati Uniti con il tuo progetto solista. Ma non tutti sanno che il nostro paese ti aveva già premiato: nel 97 hai vinto un David di Donatello per quella del corto “La Matta dei Fiori”.  Perché lasciare il paese? Pensi che non avresti avuto comunque i riconoscimenti che hai raggiunto all’estero? E cosa diresti ad un giovane artista italiano che sogna di vivere della sua passione?

Dopo quel premio il regista mi volle per il suo primo lungometraggio, la sua casa di produzione gli disse di no, perché avevano bisogno di un nome noto per musica. Quindi mi sono detto “vuoi lottare per il resto della tua vita in Italia per affermarti, navigando contro una mentalità che non ti appartiene o vuoi creare musica dove il tuo talento può crescere?”. Un anno dopo mi sono trasferito a Londra.

Per quanto riguarda il consiglio, personalmente non distinguerei musicista italiano o non. Creare questa sorta di muro, noi e gli altri, non aiuta, non è una competizione, siamo tutti qui per creare una scintilla, serve una passione che va oltre le abitudini e un ossessione per quello che si fa.

Se ti guardano e ti dicono “non funzionerà mai” stai sicuro che sei sulla buona strada.

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