Convivere con le fratture | Intervista a Chiara Tagliaferri

Un romanzo potente e spiazzante racconta la vicenda di una ragazza nata e cresciuta a Piacenza, la provincia più dimenticata della Bassa Padana. Sotto la fitta coltre nebbiosa di questa pianura si muovono i componenti della sua famiglia, spezzata dai lutti e dal dolore della perdita, una sorta di maledizione che la protagonista vuole sciogliere per sé stessa e per i suoi cari ancora in vita. Strega comanda colore è il nuovo libro di Chiara Tagliaferri pubblicato da Mondadori che ripercorre con estrema schiettezza e una buona dose di ironia quasi cento anni di una storia alimentata dai ricordi e dalle riscritture personali. Amore, violenza, vergogna ed emancipazione sono solo alcuni dei temi trattati dall’autrice che esplora in maniera lucida e consapevole un passato che per molti sarebbe da cancellare, non da riportare alla luce. Scrivere è il miglior esercizio per liberarsi dai demoni interiori, ce lo spiega meglio di chiunque altro Chiara Tagliaferri.

Sei stata autrice di programmi radiofonici, hai scritto e realizzato podcast, sei co-autrice insieme a Michela Murgia dei libri tratti dal podcast Morgana di Storielibere.fm. Dal punto di vista professionale hai sempre scritto, ma Strega comanda colore è il tuo esordio narrativo. Qual è stata la difficoltà maggiore di lavorare a un progetto così personale e quale, invece, il lato più bello ed entusiasmante di essere da sola di fronte alla pagina bianca?

In realtà non ci sono state difficoltà. Per anni mi sono schermata dietro le storie degli altri. L’ho fatto per prendere la rincorsa probabilmente. Dico sempre che sono una vigliacca, non sono un campione di coraggio, quindi è stato molto utile prestare la mia voce per le narrazioni degli altri. Se penso, però, a tutte le Morgane che con Michela abbiamo sgranato come un rosario in questi cinque anni, credo che in ognuna di queste storie ci fossero pezzi di noi. Ogni Morgana arrivava in fondo per raccontare frammenti della nostra vita che andavano riparati. A un certo punto ho pensato che era giusto smetterla di giocare a nascondino per provare a giocare a carte scoperte. Avevo davvero bisogno di fare i conti con una storia che fosse profondamente mia, così sono andata alle radici di quella che si potrebbe definire un’autobiografia non autorizzata in cui ho provato a mettere insieme le traiettorie interrotte che riguardavano la preistoria emotiva della mia famiglia: spesso per andare avanti occorre tornare indietro.

Non è un caso che io abbia scelto fin dall’inizio come titolo di questo romanzo Strega comanda colore. Un gioco inquietante che riporta all’infanzia e allo stesso tempo una sensazione, quella della strega che acciuffa se non sei abbastanza rapido e bravo ad afferrare il colore che la strega comanda. Il mio passato si comportava in questo modo: mi portava dentro a gorghi che non riuscivo a sistemare. Mi mancavano pezzi di puzzle. Ho una certa dimestichezza con le streghe perché tutte le nostre Morgane hanno un’attinenza profonda con la stregoneria – nell’accezione più bella che questo termine porta con sé -, ma c’erano delle streghe del mio passato con cui avevo dei conti in sospeso. Dovevo fare un esorcismo e con questo libro ho combattuto una malia con un incantesimo.

Mentre ripercorri la storia di questa ragazza senza nome che appare naturale associare a te, racconti anche le vicende delle generazioni che precedono la tua. Come hai fatto a mettere insieme i tasselli di questo puzzle e a scrivere quella che è a tutti gli effetti una saga famigliare? 

Hai ragione, questa è una saga famigliare perché copre cento anni di storia. Non c’è un ordine cronologico, ma emotivo e il montaggio degli episodi raccontati funziona come una matrioska. Seguiamo il flusso di ricordi della protagonista che conosciamo già grande. È già scappata dalla Bassa Padana, la terra dove nasce e cresce, una pianura dura, arida, piena di nebbia, chiamata anche il mal bianco, un fluido che si deposita nel cuore delle persone e le uccide. La rivediamo già grande quando arriva a Roma, una città esplosa di luce. Poi torniamo indietro a quando è una bambina di cinque anni mentre dice alla madre: «Quando la nonna Viviana morirà ballerò sulla sua tomba con delle scarpe rosse». E la madre, con aria spaventata, guarda la bambina e si chiede tra sé e sé come ha potuto passarle un pensiero simile se non attraverso il sangue. Questo è un libro che si pone un grande interrogativo universale, cioè come possiamo vendicare chi amiamo. 

La mia famiglia conta quattro membri: mia madre, mia sorella, mia zia ed io. Stiamo tutte in una macchina. Invece, da parte di mio padre ci sono altri personaggi che corrispondono alle persone che hanno popolato la mia vita. Visto che sono tutti morti mi sono concessa la possibilità di raccontare la loro storia per come me la ricordavo io. Si tratta di manipolazioni emotive perché tutto quello che noi raccontiamo è qualcosa che possiamo dire, ma ognuno lo fa a parole sue. Dirlo è importante perché tutto quello che non viene detto fa fermentare i mostri. Poterlo dire significa fare un esorcismo.

Non ricordavo o non potevo sapere molte cose soprattutto della famiglia materna, così ho provato a utilizzare i ricordi di chi non voleva ricordare, cioè mia madre che è una persona che preferisce scansarsi da situazioni in cui non si è sentita comoda. Il suo potere magico è quello di saper dimenticare anche se vive sia in mezzo alla vita che in mezzo alla morte. Parlando con lei è come se mio padre fosse ancora vivo e grazie ai suoi ricordi ho potuto conoscere un fratello che non ho mai visto se non sotto forma di angelo di gesso. 

I personaggi principali del tuo romanzo sono soprattutto donne. Nonne, madri, zie e sorelle chiamate a prendere decisioni e a tessere la trama del racconto, cercando perlopiù di sbrogliare la matassa. Queste donne hanno accompagnato nella crescita la ragazza protagonista del libro. Cosa vuol dire nascere in una famiglia sostanzialmente matriarcale?

Si trattava di una genealogia femminile molto potente. Da una parte c’erano le streghe violente e dall’altra quelle fragili e vulnerabili. Se gli uomini erano delle presenze attutite, ovattate, le donne, invece, si potevano sentire ancora prima che entrassero in una stanza, spostavano l’aria con il desiderio o con la paura.

Crescere in una famiglia di questo tipo ha significato principalmente essere sempre affamata d’amore e di bellezza. Questa ragazza pensa che potrà cambiare identità attraverso gli oggetti e i vestiti. Vuole poetizzare la realtà esattamente come faceva la zia Cede che rendeva mitico il proprio sé. Non si tratta di superficialità. 

In qualche modo tutti noi non facciamo altro che colmare le voragini e ognuno sa qual è il modo giusto per arginarle. Quando in una famiglia c’è l’amore, ma fa fatica ad essere trasmesso, è necessario costruire un proprio alfabeto emotivo. Non è un caso che la protagonista del libro non abbia un nome e non è un caso che in copertina ci sia una ragazza con il volto cancellato.

Per vari motivi siamo tutti corpi da riparare, che hanno bisogno di essere rimessi insieme. Se essere amati può risultare facile, credo che imparare ad amare sia la cosa più complicata del mondo. Questo libro analizza sentimenti come il risentimento, la rabbia, la ferocia e la violenza, ma si concentra anche sulla tenerezza e sulla possibilità di perdonare.

L’amore è un altro dei grandi temi che affronti in questo libro. Strega comanda colore può essere letto come un’educazione sentimentale? Qual è per te la sfumatura emotiva più difficile da raggiungere?

Penso che i lutti creino sempre dei prigionieri. Io ero imbrigliata proprio come tutti coloro che hanno subito un danno nella vita. Spesso scriviamo per dare ai morti una seconda sepoltura. Non si tratta di ricercare il tempo perduto, ma di riscattarlo. Io non avevo bisogno di emanciparmi, ma di liberarmi e di liberare dalla vergogna le persone che amavo.

L’amore più difficile è spesso l’amore che non abbiamo il tempo di vivere. Per esempio quello per le persone che se ne vanno troppo presto. La protagonista del libro perde il padre da ragazza e a poco a poco scorda pezzi di lui, prima dimenticando il suo profumo, poi il suono della sua voce che cerca disperatamente nella segreteria del telefono. Vuole resuscitare qualcuno che non può essere resuscitato e persegue l’amore dove ci sono solo tracce di morte. Rimane imprigionata in quella dimensione, così come fanno la madre e la sorella, fino a quando decide di dare fiducia a un amore che creerà insieme a un’altra persona e a un’altra famiglia.

Si può decidere di avere paura rimanendo acquattati alle pareti di casa e conducendo un’esistenza a impatto zero sui desideri come fa la madre della protagonista, oppure commettere un sacrilegio e andarsene dal nucleo famigliare, progettando una fuga e un piano di vendetta come fa la ragazza che si sente investita di una missione fin da piccola e pensa che se i grandi non sono in grado di ingaggiare un combattimento con la strega dovrà essere lei a farlo.

Sullo sfondo della tua storia c’è la Bassa Padana e Piacenza, una città avvolta dalla nebbia per metà dell’anno e per l’altra metà invasa dalle zanzare. L’ultima provincia emiliana prima del confine con la Lombardia. Sintetizzi bene quali fossero le sue attrattive negli anni Ottanta con questa frase il parcheggio dello stadio, ghiaia e terriccio che la domenica vengono calpestati per seguire mollemente il Piacenza Calcio, una vita in C1. Vivere in provincia è un allenamento alla fuga?

Noi che veniamo dalla provincia siamo tutti degli escapisti. Penso proprio sia così. Quel parcheggio che citi conteneva le meraviglie: si animava in primavera quando arrivava il circo e poi il Luna Park. Sembra incredibile, ma il primo vero nucleo formativo al pensiero della fuga me l’hanno fornito proprio i figli dei giostrai che venivano nella mia scuola per un mese, il tempo di sostare a Piacenza. Arrivavano come proiettili scagliati nel futuro. Pur essendo ancora piccoli indossavano la libertà di essere ciò che volevano come Nicholas Cage in Cuore selvaggio. Questi bambini erano il futuro e noi, invece, eravamo delle creature difettose incagliate sempre alla periferia della vita. Chiunque sia nato e cresciuto in provincia ha provato almeno una volta la sensazione di essere inghiottito dalla nebbia, dal grigiore e dalla perdita della vitalità. Quindi l’unico modo per salvarsi è mettere in atto una fuga.

Le mete di questa fuga sono prima Torino, la città in cui hai studiato e poi Roma, dove hai trovato lavoro e attualmente vivi. Cosa hanno rappresentato per te?

Con Torino ho un rapporto conflittuale, ma quando sono scappata da Piacenza per andare a studiare era comunque un rifugio, un modo per non dover tornare ogni sera a casa. Molti anni dopo la vita mi ha riportato a Torino, ma essere di nuovo lì, dopo aver abitato a Roma è stata una pessima idea per quanto mi riguarda.

A me piace molto la scelleratezza delle persone e dei posti in cui mi trovo e mi muovo. Un mio amico nato e cresciuto a Roma la definisce “un minestrone di merda e stelle” ed è esattamente così: a Roma c’è qualcosa di profondamente eterno e allo stesso tempo di claudicante. Nulla viene preso sul serio e tutto può essere guardato con meraviglia. A Torino non sentivo la possibilità della meraviglia.

Una delle frasi che sentivo più spesso a Torino era “non sta bene” e mi sembrava assurdo che ci potesse essere qualcuno preoccupato delle cose che non stava bene fare. Preferisco l’animo smargiasso di Roma in cui tutti possono fare tutto e nessuno si scompone per niente.

Fin da piccola hai percepito la differenza tra le classi sociali, da una parte le famiglie della nobiltà piacentina come i Barattieri o i Visconti, dall’altra il ceto medio come la tua famiglia. Il denaro è un mezzo per potersi affermare nel mondo?

Nel libro il denaro è un mezzo di riscatto perché attraverso di esso un’intera famiglia viene tenuta sotto scacco da una nonna feroce ed è l’unico strumento per vincere questa malia. Io rivendico moltissimo l’autodeterminazione in special modo per le donne.

Da anni lo faccio insieme a Michela Murgia con cui ho scritto Morgana – L’uomo ricco sono io che tocca proprio questo tema. L’indipendenza economica è il primo punto fondamentale nella vita di una donna per scegliere dove stare, ma soprattutto dove non stare più. Dopo il primo lockdown su centomila persone licenziate, novantanovemila erano donne che non potevano scegliere di uscire da una situazione anche domestica e pericolosa perché quel famoso “state a casa” che tanto doveva rincuorarci, invece, era la minaccia peggiore per moltissime donne che non avevano uno stipendio.

Da piccole ci è stato detto che era l’uomo che doveva lavorare per portare il denaro a casa e se, a parlare di denaro, era una femmina veniva considerato volgare. Tra i tanti, questo è stato il furto più grande che sia stato commesso nei nostri confronti. Se per duemila anni ci è stato detto che eravamo inferiori da un punto di vista fisico e intellettuale, ci hanno tolto i diritti sociali, civili e politici è comprensibile avere la sindrome dell’inadeguatezza. È difficile trovare un maschio che ne soffre, è più facile che si senta capace di fare bene tutto anche se non lo sa fare al massimo.

Bisogna imparare a convivere con le streghe di cui parli nel romanzo o cercare il più possibile di allontanarle?

Dobbiamo imparare a convivere con la possibilità di essere un po’ rotti. Sono una grande amante delle persone fratturate e lo sono io per prima. Ho smesso di avere l’illusione di svegliarmi un giorno perfettamente intera. Ci sono dei danni che si possono un po’ sistemare, ma che ci fanno sentire sempre eccessivi e al tempo stesso mancanti. Le energie che abbiamo le dobbiamo riservare per stare il meglio possibile, combattendo le streghe. In questo libro, però, ci sono anche delle streghe buone, non sono tutte da allontanare.

Exit mobile version