La musica come urgenza emotiva | Intervista a Daniel Kessler degli Interpol

Da poco è uscito Marauder, il sesto album degli Interpol, la band di Sam Fogarino, Paul Banks e Daniel Kessler, fra le più influenti nate a New York nel pieno del rinascimento rock a inizio millennio, riferendoci alla ricostruzione che ne dà Lizzy Goodman in Meet Me in the Bathroom. Insieme a loro gli Strokes di Julian Casablancas, proprio quella band a cui Alex Turner dedica l’apertura di Tranquillity Base Hotel & Casino, poi The Moldy Peaches, LCD Soundsystem, Yeah Yeah Yeahs e tutto il sottobosco che si rifugiava nei club e poi nei palazzetti, simbolo di un sentimento post 11/9, da cui nasce Turn On the Bright Lights, disco d’esordio di cui gli Interpol hanno di recente festeggiato i quindici anni dall’uscita con tre date a New York, Los Angeles e Città del Messico, dove hanno annunciato – contemporaneamente – l’uscita del successore di El Pintor. Proprio dalla capitale del Messico comincia la nostra storia con Daniel Kessler, chitarra della band newyorchese, quando lo raggiungiamo nel suo albergo di Roma in un caldo pomeriggio di luglio per fargli qualche domanda sul nuovo album e sulla loro carriera, dentro e fuori gli Stati Uniti.

 

 

 

 

D: Per annunciare l’uscita di Marauder avete organizzato una conferenza-show in Messico, in controtendenza a ciò a cui siamo abituati in quest’epoca digitale. Quello che colpisce maggiormente è l’affetto dimostrato dalle persone che si trovavano lì, per voi, come se foste a casa. Da dove nasce questo genere di connessione?

Siamo andati in Messico per la prima volta nel 2005, mentre eravamo in tour con il nostro secondo album e fu incredibile. Avevamo due concerti e durante la prima data c’era così tanta gente che fummo costretti ad annullare la seconda per evitare il rischio che qualcuno collassasse. La spostammo in un altro posto poco più piccolo dell’Oracle Arena. Fu pazzesco per noi, come band e musicisti, e in tutti questi anni i fan messicani ci hanno sempre supportati e sono rimasti al nostro fianco. Città del Messico è la città che preferisco in assoluto in tutto il mondo, alcuni dei miei più cari amici li ho conosciuti lì. I messicani, in generale, possiedono una generosità e un’umiltà che mi affascina, sono persone molto spirituali e ogni volta che torno mi sembra di aver l’opportunità di imparare sempre qualcosa di più a proposito della vita e di quale sia il modo migliore per affrontarla. Ci siamo sentiti sempre a casa e annunciare l’album lì ci è sembrato un modo per poter dimostrare la gratitudine per questo rapporto così speciale.

 

 

Pensate che sia necessario ristabilire un contatto preciso, reale, con le persone? Sfondare, cioè, il muro dell’etere per riconquistare una certa materialità come persone, prima che artisti?

 

Realizzare una conferenza stampa è stato qualcosa di nuovo per noi, con tante cose che accadevano nello stesso momento: siamo andati lì per annunciare la copertina, far ascoltare il primo singolo, rispondere alle domande e poi c’era la diretta streaming a cui chiunque, dappertutto, poteva partecipare. Poi abbiamo girato la scena del video di The Rover senza che nessuno lo sapesse. Volevamo ricreare una specie di progetto artistico, che connettesse la conferenza stampa a più aspetti e fosse in grado di coinvolgere chi c’era in qualcosa di più di un semplice annuncio.

 

 

 

 

Marauder arriva quattro anni dopo El Pintor, con un’energia vicina a quella dei toni di Turn on the Bright Lights e Antics, ridando nuova cattiveria e spinta alla vostra musica. Il predone, il marauder appunto, è chi arriva e conquista, come se ci fosse qualcosa di urgente da dire, o è spinto dal desiderio di rivalsa, lo stesso che sembrano disegnare le batterie e i testi acidi di Paul Banks di Party’s Over (Rock n’ roll bitch I’m into it / I like to show you my stuff / Baby cheetahs the Himalayas / What’s got you startled umbilical), o nel video di The Rover, dove viene inscenato qualcosa di simile a un rito di purificazione. Come si è sviluppato il processo creativo? Che tipo di suoni e contenuti volevate ottenere?

 

Molto spesso ascoltare le impressioni degli altri su ciò che facciamo ci aiuta a raggiungere un grado di comprensione in più. Siamo sempre troppo in mezzo alle cose per risalire completamente alla natura di quello che abbiamo scritto. Tutte le canzoni partono dalle nostre idee, seguono la direzione che vogliamo dargli ma ciò che sono, o che possono dire alle altre persone, è più complesso e supera il valore che gli abbiamo dato noi. Dopo El Pintor ci siamo parlati un po’ e abbiamo deciso di prenderci un po’ di tempo per riflettere e lavorare su altre canzoni da soli e poi ci siamo ritrovati per vedere cosa aveva prodotto ognuno di noi. Ciò che ho fatto è stato rimettermi a scrivere, in tranquillità. Amo lavorare sui pezzi con Sam e Paul, quando siamo insieme lo siamo per davvero e ciò che ne è uscito lo dimostra. Abbiamo smesso di pensare a ciò che potremmo dire per farlo e basta, mentre scrivevo sentivo questo genere di urgenza diventare più forte e lo è stato ancora di più quando ci siamo ritrovati in studio, fra i muri delle stanze, nei rumori di New York alle nostre spalle. Mi piace parecchio la linea ruvida che abbiamo scelto per le canzoni, a testimonianza di quest’urgenza che chiedeva di uscire. Abbiamo raggiunto un nuovo livello di sincerità, è un disco molto essenziale ma che mi ha scavato nel profondo. Lo trovo anche empatico, che cerca di guardare al di là proprio per la forza emotiva con cui è nato ma è anche in grado di coinvolgere l’ascoltatore in senso buono. È il tipo di album che mi ricorda quando ero ragazzo, camminavo per le strade con i dischi nelle cuffie e il mondo, semplicemente, andava via. Succede a tutti, non importa quale sia la strada che stai seguendo, sei in relazione con il mondo e la musica si fonde come in un grande film. Marauder vuole avere questo ruolo e spingere le persone a ricercare questo tipo di esperienza.

 

 

Leggendo i testi e ascoltando le canzoni di Marauder è facile trovare una sorta di nuova elaborazione dei vostri primi album ma la luce che brilla maggiormente sembra indicare più le atmosfere cupe di El Pintor e Our Love to Admire. Queste due anime sono sempre coesistite? Tornare a lavorare con un produttore come Dave Fridmann vi ha aiutato a trovare questo tipo di equilibrio?

 

Quando siamo arrivati in studio per cominciare a registrare l’album, le canzoni erano quasi finite. Dave ci ha aiutato a sfruttare tutte le potenzialità dei brani in fase di registrazione e a ottenere il suono caldo e analogico che ha Marauder. Credo abbia notato anche lui che si trattava di qualcosa di unito e coerente, ha capito subito cosa volevamo e l’ha reso possibile. Del resto Dave è stato in grado di produrre tantissime cose diverse fra loro, dai The Flaming Lips ai Mercury Rev, dai Mogwai e Tame Impala fino agli Spoon. Le due parti si sono unite naturalmente alla fine di tutto. È stato l’inizio della strada che ci ha, poi, portato a registrarlo. Ogni disco degli Interpol vuole essere qualcosa a parte e di sensato, non una compilation di canzoni. Cerchiamo sempre di raccontare una storia che abbia un inizio e una fine. Marauder è un album intenso, che si vuole mescolare con l’ascoltatore. È un disco urgente perché viviamo in tempi pressanti e trova necessario parlare così alle persone. Non è passivo, non vuole far riposare per niente chi lo ascolta. Magari qualcuno potrà sentire una certa vicinanza a questo disco ed è ciò che abbiamo sempre cercato di fare, immergerci nel tempo che viviamo e raccontarne il cambiamento. Tutti i dischi del nostro passato possono essere visti come rappresentazioni di ciò che siamo e di ciò che ci sta accadendo. Questo album va visto come un nuovo capitolo, che abbiamo voluto rappresentare in maniera più vitale e intensa per tutte queste ragioni.

 

 

Ogni disco è un capitolo, ma cosa vuole comunicare esattamente Marauder?

 

In questo disco, in particolare, la priorità era scavare sempre di più nella nostra intimità, volevamo davvero creare delle canzoni che stupissero ma che potessero anche essere comprensibili. Ognuna delle canzoni è instabile, si è attaccata alla mia chitarra e quando ci siamo ritrovati tutti insieme abbiamo cercato di percorrere questa strada che si riflette nel suo centro, in cima, mentre la musica è pressante e ruvida, come se fosse il modo giusto per essere più onesti e diretti. Marauder suona come se ci potessero sentire in studio, puoi sentire Sam, Paul e me suonare e riconoscere ogni aspetto che ha permesso agli Interpol di crescere. Non è qualcosa di calmo, puoi sentire tutti gli elementi della band, il nostro legame, come costruiamo le canzoni e come rapidamente cominciano a funzionare. Per l’epoca che stiamo vivendo abbiamo voluto essere diretti e aprirci. Per farlo abbiamo lasciato New York e siamo andati in questo posto isolato durante l’inverno, ci siamo concentrati solo sul disco, vivendo lì in una maniera semplice nonostante facesse freddissimo. Ci sono tante chitarre, le tastiere e suona tutto come se qualcuno potesse assistere dal vivo. Dave è stato incredibile. C’è così tanto da ascoltare, così tanti dettagli. È un disco sconveniente e parecchio umano, pensato per suonare dal vivo ma che non perde mai il suo significato.

 

 

 

 

Portare  di nuovo in tour Turn on the Brights Lights, quindici anni dopo la sua uscita deve essere stato qualcosa di particolarmente forte per voi, pensando soprattutto al legame con New York e ciò che è accaduto l’undici settembre. Come vi siete preparati e cosa vi aspettavate da questo momento?

 

Ci siamo divertiti parecchio e, davvero, non mi sarei aspettato questo tipo di reazioni e di attesa, ma è stato bellissimo tornare sul palco e vedere lì persone che,  quando è uscito Turn on the Brights Lights, erano bambini o non erano nemmeno  nati. Erano lì insieme, tra il pubblico, i teenagers e chi già dal 2002 ci seguiva. È incredibile pensare che qualcosa che hai creato tempo fa è stato in grado di legarsi così tanto ad altre persone. Suonare ci ha aiutato a lavorare a Marauder, abbiamo lasciato per un po’ la scrittura e siamo tornati in tour con questo vecchio disco ricordandoci di quante emozioni ci procura farlo. Una settimana dopo siamo tornati in studio per finire tutto. Suonare i vecchi pezzi ci ha dato l’energia necessaria e ci ha fatto realizzare che era il momento giusto per riprendere da dove ci eravamo lasciati con un nuovo capitolo.

 

 

Non avete mai avuto paura che le persone, proprio questo profondo legame con il passato, possano essere meno interessate alla vostra maturazione e alle ricerche per i nuovi album? Influenza la vostra scrittura?

 

Siamo stati fortunati ad avere così tante persone che ci seguono ed è bello vedere quanto sono affezionate al nostro primo disco. La nostra fanbase ci è sempre stata vicina, per questo non abbiamo mai avuto paura che potesse accadere. Tutto quello che fa la musica è cambiare costantemente, ci consente di continuare a creare e di spingerci sempre un po’ più oltre, per realizzare qualcosa di sempre migliore. Marauder è una delle cose migliori che abbiamo fatto ed è fatto proprio per quelle persone che apprezzano un certo tipo di sonorità. Non abbiamo cercato di distaccarci dal nostro passato, Turn on the Brights Lights ha contribuito a renderci ciò che siamo e siamo grati che le persone continuino a trovarci un certo tipo di connessione. È assurdo pensare che possa formarsi anche con persone che non erano ancora nate quando è uscito ed è un privilegio farne parte. Viviamo in un momento storico folle e le persone si muovono molto velocemente, avere questo tipo di connessione è qualcosa difficile da ottenere, non so come spiegarlo, non accade a tutti e il fatto che si accaduto a noi ci rende felici.

 

 

 

 

Marauder esce in un momento parecchio distante da quello della scena newyorkese di cui parla Lizzy Goodman in Meet Me in the Bathroom quando, fra il 2000 e il 2010, le chitarre sembravano essere lo strumento adatto per raccontare quel preciso momento storico mentre ora tutto sembra essere cambiato. Credi che la chitarra possa ancora incarnare un certo tipo di tendenze e ricoprire un ruolo da strumento di comunicazione  oltre che artistico anche politico?

 

 

Per capire quel periodo bisognerebbe tornare indietro nel tempo, attraversarli come abbiamo fatto noi, e ritrovare quei termini che avevamo in comune con tutte le altre band con cui abbiamo collaborato. Negli anni 2000 l’effetto più grande riguardava la chitarra suonata da chi si scriveva le canzoni ed è difficile capire come questa cosa sia cambiata. La maggior parte delle persone non ha tempo di aspettare, il mondo sta cambiando rapidamente e non necessariamente in meglio o in una maniera più sicura. Il futuro è davvero imprevedibile ma non solo nel senso che non possiamo sapere cosa accadrà in un tempo molto ampio, ma nemmeno nel giro di un anno, in un mese o due, in sei settimane. Per questo è difficile poter prevedere se la chitarra potrà uscire dalla musica e rappresentare ancora qualcos’altro. Molti artisti si stanno esponendo pubblicamente contro alcune cose e sicuramente questo aiuterà le persone a prenderne coscienza. Credo ci siano momenti nella storia in cui l’arte diventa essenziale, soprattutto quando sembra difficile scegliere da che parte stare o costringersi a far uscire certe cose. L’arte è un elemento importante per le persone, è ciò che le spinge a comprendere le situazioni, li circonda di nuove via di fuga e di speranza. Ci sono molti modi con cui può aiutare le persone a trovare la strada, un tempo la chitarra ci riusciva più di altri strumenti. Oggi c’è la musica elettronica, l’hip hop, il rap. Le parole di protesta possono avere forme differenti e la chitarra, sicuramente, può essere ancora una di queste.

 

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