Per una cultura di qualità | Intervista ad Eleonora Lombardo

a cura di Mattia Insolia

Fare letteratura e fare letteratura di qualità sono entità distinte, così come cultura e cultura di qualità sono entità distinte. Non accezioni di una stessa favella, ma mondi a parte, galassie lontane, rette parallele. Premesso tutto ciò, parlare di letteratura e di cultura, di giornalismo ed editoria, è oggi assai complesso. L’impressione che si ha, osservando la situazione libraria contemporanea, è quella di assistere al lento deterioramento di una cultura dal passato glorioso. Eravamo un popolo di santi, poeti e navigatori: oggi cosa ci rimane?

In occasione della fiera del libro di Taormina, il Taobuk, ho avuto modo d’incontrare Eleonora Lombardo: giornalista de La Repubblica, ghost writer e insegnante di scrittura alla scuola Holden di Torino. La Lombardo, nella diversità dei ruoli che ricopre, ha scelto letteratura e cultura di qualità. Si è schierata. Ha scelto una direzione. Il bosniaco Izet Sarajlic ha detto che sono i poeti ad aver fatto il turno di notte per impedire l’arresto del cuore del mondo. E io mi trovo d’accordo con lui, maestro di poesia e letteratura. Ma aggiungerei che con i poeti, a tenere acceso quel faro, c’erano moltissimi altri: uomini e donne che si sono battuti e che si battono, tutti in modi diversi, sicché la cultura non si spenga. Eleonora Lombardo può essere inserita, e a merito, in questo novero.

Cominciamo col parlare della cultura e della letteratura e facciamo partendo da lontano, per così dire. Cosa significa fare letteratura oggi e cosa significava fare letteratura in passato? Intendo, qual è stata l’evoluzione del lavoro in campo culturale e com’è cambiato negli anni, specie dal dopoguerra, il modo di fare letteratura?

Oggi lo si fa con un obiettivo più commerciale, obiettivo che prima non era contemplato. Io ad esempio, a tal proposito, sento molto la mancanza di una figura come quella del mecenate.

Perché?

Perché chi scrive deve poter perdere tempo, e, soprattutto, chi scrive deve avere tempo per studiare. Oggi la società non lo consente. Ho spesso a che fare con autori bravissimi che lavorano come postini, bancari e pizzaioli che riescono davvero a fare miracoli, magari scrivendo di notte, ma non è giusto. Non dovrebbe essere così. Gli scrittori tengono il polso del mondo, e dovrebbero essere messi nelle condizioni di lavorare. E soprattutto di studiare.

Lavori come giornalista, per Repubblica, come scrittrice – da ghost writer, ma non solo – e come insegnante di scrittura creativa, per la Holden. Qual è la differenza fondamentale tra le prime due professioni? Sul piano della produzione culturale, qual è la differenza più marcata tra il giornalismo, culturale e non, e la narrativa?

Credo che la differenza fondamentale tra le due, per me, sia la responsabilità. Sento molta responsabilità quando scrivo per il giornale e soprattutto quando vado online, dal momento che potenzialmente potrei arrivare al mondo. Devo farlo in uno spazio molto breve per cui anche quando devo veicolare delle informazioni banali, ad esempio quando scrivo di cronaca bianca, devo farlo all’interno di una tela. Una tela che raramente supera le ottanta righe. E questa brevità è accomunabile alla poesia.

Per quel che riguarda la narrativa?

Il mio primo romanzo non è ancora uscito, finora mi sono dedicata alla letteratura da mercenaria, e la mia narrativa si è concentrata sulla cura. Sul cercare di fare delle cose correttamente. Dunque non sento la responsabilità del messaggio che sto mandando e non posso esprimermi, in tal senso. Se non per i racconti che ho pubblicato, certo: lì forma e sostanza sono la stessa cosa, coincidono, e per me è molto importante anche il messaggio che cerco di inviare.

Scrivendo e pubblicando racconti, quindi, senti una responsabilità, anche se diversa da quella che avverti col giornalismo?

Sì, certo. Non penso al lettore quando scrivo, ma penso al fatto che aspiro a chiedere del tempo a qualcuno, e questa è una richiesta enorme. Cerco quindi di farlo, di scrivere, intendo, in maniera consapevole.

Lavorando per la Repubblica, analizzando autori di narrativa sia italiana sia straniera, come credi che si rispecchi l’evoluzione – o involuzione – sociale e politica, con l’avvento dei populismi e il fenomeno migratorio, nella letteratura? Pensi che ci sia un’opposizione?

Purtroppo credo che sia improvvisata e casuale.

Per una questione di impreparazione a ciò che è successo o c’è una sorta di sciatteria?

C’è, secondo me, una sciatteria epocale. Siamo troppo legati a un periodo in cui la letteratura impegnata è stata completamente messa da parte perché sinonimo di un’invadenza eccessiva rispetto alla libera espressione dell’autore. Dagli anni ‘70 in poi, per via dei cambiamenti sociali del nostro paese, ci si è completamente disinteressati a quello che succedeva.

E oggi la situazione è la stessa?

Adesso si stanno facendo i conti con un’epica e una storia che è stata fondamentale. Come le stragi del ’92, ad esempio. Solo la generazione del ‘78 sta facendo i conti con quegli avvenimenti. Il che è fondamentale perché siamo tutti figli di quelle bombe, di quelle stragi.

E per quel che riguarda il fenomeno migratorio?

A dire il vero non ho ancora letto niente che abbia affrontato con coraggio la vicenda. Lo si fa, è vero, ma in modo poetico e ossequioso. Quindi sì, tangenzialmente alcuni autori ce lo fanno entrare, ma si vede, si sente che non è il problema centrale, che non è ancora un problema digerito. Ma temo sia una caratteristica italiana quella di voltare le spalle a… mettiamola così: noi non ce lo abbiamo, un Phillip Roth, ecco.

Devo dunque desumere che, secondo te, cultura e società non siano più intrecciate come in altre epoche storiche. È corretto? Voglio dire, chi si occupa di cultura, chi fa letteratura, cerca ancora di raccontare la società e la società, a sua volta, si rifugia ancora nella cultura?

Assolutamente no. E il mio è un no secco. Si danno le spalle.

Da entrambe le parti?

Sì, da entrambi le parti. La cultura cambia il popolo quando la cultura parla a molti. Alle tragedie greche andavano tutti. Mentre adesso tutti guardano la tivù. E nessuno si è occupato di riformare seriamente la tivù facendola diventare un mezzo di cultura. Anzi, è un mezzo di ignoranza.

Non è un bel periodo, insomma.

È un periodo di regressione e di paralisi.

Lavori anche come ghost writer, metti a disposizione la tua penna a coloro i quali hanno una storia da raccontare. Quanti sono gli autori che se ne occupano? E come funziona questo mondo? È molto vasto il mercato delle opere dei ghost writer?

Tra gli autori pubblicati dalle grandi case editrici, per quanto non voglia fare una percentuale, il numero di coloro i quali si appoggiano a un ghost writer è molto alto. Il mio è un mestiere: io sono prevalentemente una ghost writer, ecco.

Un esempio?

In America è un lavoro fantastico. Open, ad esempio, la biografia di Agassi, il tennista, è stata scritta da Moehringer, che ha lavorato come ghost writer, ed è un libro che è un capolavoro. Nasce dalla collaborazione tra uno che sa raccontare e uno che sa scrivere. E non c’è assolutamente niente di male, in questo.

È un mercato vasto e funzionante, quindi.

Sì, ma diventa un problema quando vizia il sistema. Quando persone che hanno l’abilità di scrittura pompano il mercato per pubblicare libri di giornalisti, attori, calciatori e così via. Le case, poi, naturalmente seguono questi trend. Insomma, ci sono delle case fantastiche, ma tutti hanno bisogno di far cassa e io sento che le logiche di mercato sono troppo forti per le realtà editoriali.

Che genere di rapporto si instaura tra uno scrittore e il proprio cliente, per così chiamarlo?

Il rapporto che si instaura, per quel che mi riguarda, è simile a quello che c’è tra un avvocato difensore e il cliente colpevole, la missione è difenderlo e non importa cosa abbia fatto. Certo, penso che non potrei mai scrivere nulla di razzista o che vada contro le mie ideologie, ma cerco di essere uno Zelig, cerco di diventare quella persona lì.

Parliamo adesso dell’insegnamento. Lavori per la scuola Holden di Torino, la scuola di scrittura di Alessandro Baricco, e hai molto a che fare con ragazzi e aspiranti scrittori, comunque con i giovani. Queste nuove generazioni come si pongono davanti alla scrittura, alla narrativa e alla letteratura?

In modo presuntuoso. La maggior parte delle persone che fa corsi di scrittura non legge e crede nell’ardore del genio. Come dire che “sei tu che devi adattarti alla mia idea geniale”.

“Sei tu che hai avuto fortuna a trovare me”, diciamo. È questo che pensano?

Sì, esatto. Ma l’atteggiamento italiano nei confronti della letteratura è questo. Solo adesso è normale frequentare dei corsi di scrittura. Quando io stessa ho frequentato la Holden ero una scadente, che pensava che nella scrittura non ci fosse niente da imparare. Scrivere aveva a che fare solo l’ispirazione.

A proposito di te, stai lavorando a qualcosa di tuo? Di unicamente tuo, intendo.

A gennaio uscirà La disobbedienza sentimentale. È una cosa che ho scritto un po’ di tempo fa. Ma sto lavorando a una storia su Achille.

Su Achille?

Su Achille, sì.

Un romanzo? O parliamo di saggistica?

No no, è un romanzo. Amo la storia di Achille e sto lavorando a un romanzo su di lui. Spero di finirlo a settembre, se riuscirò a tenere fede alle mie scadenze.

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