I classici non invecchiano mai | Intervista ad Ida Amlesù

Sarebbe più facile dire che Perdutamente, il primo romanzo di Ida Amlesù, classe 1990, pubblicato da Nottetempo, è la storia di una bambina e poi di una ragazza. Sarebbe più facile raccontare del suo temperamento, dei suoi libri, delle sue amicizie, delle sue insicurezze, del suo innamoramento per un ragazzo del conservatorio che pare uscito da una pagina strappata e mai pubblicata di Anna Karenina. Sarebbe limitante, però. E allora dobbiamo aggiungere che questo esordio narrativo è brillante, intelligente e difficile. Parla di consapevolezze, di ricerche e del tempo, che possiamo concepire come un rettilineo disseminato di altari e podi o come un cerchio. Optando per la seconda ipotesi accettiamo il punto di vista della protagonista e voce narrante che segue una corrente, lasciandosi coinvolgere da persone e segnali, tutte tracce dell’esistere, sebbene non ne siano prove inconfutabili.

La protagonista, che tanto somiglia alla sua autrice, vola fino in Russia per inseguire più di una passione. E sarà sulla vetta di una giostra emotiva che si ritroverà donna, cosciente delle sue peculiarità, delle sue debolezze e dei suoi punti di forza. Una specie di inno ad amarsi, a trovare la propria voce, costi quel che costi. È fuori del comune che una ventisettenne esplori questo sentire, questo processo esistenziale con tanta delicatezza ed autoironia, convincendo i lettori. Ma, forse, più di questo, vale che Perdutamente è un testo poetico. È un libro magistralmente scritto, dalla scrittura sopraffina. Un libro breve ma da centellinare: ogni parola traspira e prende forma, pagina per pagina.


Ida, la protagonista di Perdutamente cerca il suo modo di stare al mondo e fa un percorso, anche a prescindere dall’innamoramento. A quale suo lato caratteriale sei più legata, a quale meno?

Io amo molto scrivere, ed è l’amore sempre che mi lega ai personaggi. Sono legata ad essi, sono impigliata proprio, non saprei uscirne neanche volendo. Forse per questo non so giudicarne il carattere, non so vederne gli aspetti. I personaggi di Perdutamente non hanno lati caratteriali – sono persone, nate così, non saprebbero essere diverse da loro stesse. Le loro azioni sono emanazioni differenti di un’identità singola, io amo il loro nucleo e non posso per questo non amarne ogni aspetto. In ogni caso, della protagonista ammiro l’assoluta incapacità di uscire da se stessa. Lei ama gli altri non amando che sé. Questo è terribile e affascinante.

Che cosa sono l’amore e la solitudine per la tua protagonista?

L’amore è fame, la solitudine pure è fame. Se questo fosse un sillogismo, potremmo dire che amore e solitudine sono la stessa cosa. Ma non lo sono. La solitudine è fame in potenza, l’amore è fame in atto.

E il tempo?

Il tempo è un grosso spazio orizzontale, di cui i personaggi cercano disperati di decidere la direzione. Sembra scorrere in un verso, ma tutti in Perdutamente vogliono fare come i salmoni, grandi salti fuori dall’acqua, all’indietro. Non a caso l’unico personaggio indifferente al tempo è il Diavolo. Potremmo dire quasi che Perdutamente è una breve – nelle sue centoquaranta pagine – lotta tra il tempo e il non-tempo, infernale. Ma non è neppure vero. Il tempo vince, stravince, nella struttura del libro: passato remoto, puntuale e lontano, nella prima parte, coi suoi episodi interrotti; imperfetto, durativo, quasi liquido, della seconda parte; e finalmente presente, istantaneo e dilatato all’infinito, una manciata di secondi sul fiume lunghi come un respiro di Proust.

Ida Amlesù

Volodja è il ragazzo dell’Europa che cantava la Nannini negli anni Ottanta. Qualcuno che condensa tutte le domande del mondo in un sorriso e prende a calci l’esistenza con una leggerezza inspiegabile e contagiosa. Dopo essersi inseguiti a lungo, lui chiede alla tua protagonista di restare. Lei se ne va e va incontro a se stessa. Perché?

Potrà sembrare fuori dal personaggio, ma per dirla con Onegin: perché anche il dolore le è venuto a noia. Dentro di lei c’è un’infinita volontà, ricerca, di sensazioni. È strano pensarlo, ma prendendo un punto di vista kierkegaardiano, lei è al contempo vittima del seduttore e seduttore stesso, un gigantesco buffo equivoco di uomo (donna) estetico.

Come hai trovato la tua voce nella vita e nella scrittura? Intendo dire: sei consapevole di avere un carattere e di riflettere, anche attraverso i tuoi personaggi, un modo peculiare di guardare alle cose?

Sono consapevole di essere strampalata da sempre, ma ho passato molti anni a fare finta, riuscendo piuttosto bene. Però non perfettamente: sfuggivano sempre pezzi folli di testa, nei discorsi, nelle azioni. Posso quindi affermare che per tanti anni ho scritto davvero male, perché ho vissuto male, nascostamente, infidamente. Poi un giorno ho letto Almanacco di Chiara Valerio, e mi si sono sciolte tutte le briglie in testa. Ho pensato: allora posso esistere anch’io. Poi ho letto Ghiotti, e ho capito che non bastava più esistere, bisognava anche scrivere proprio come si esiste.

Nell’intermezzo a pag. 119 (meraviglioso) scrivi: “si aspetta tanto la differenza, che quando arriva è uguale a tutto il resto”. Rispetto allo scrivere, ci racconti i primi scambi con Chiara Valerio e come ti ha guidata alla pubblicazione?

Chiara Valerio è una creatura eccezionale. Odierà che io lo dica, ma è vero. Lei non scopre i talenti, lei è proprio un indovino. Mi ha indovinata subito, molto prima che io fossi una brava scrittrice. Tutto quello che so fare con una penna in mano lo devo a lei, alla sua infinita pazienza, alla bellezza di quello che scrive e di quello che è. Ha amato quello che scrivevo prima che fosse bello, come una madre di libri. Delle faccende pratiche, come e perché, non so nulla, se non che abbiamo aspettato tanto, un anno e mezzo, prima che Perdutamente uscisse. E ovviamente non era quello il titolo, all’inizio.

Sei anche una traduttrice. Pensi che tradurre ti abbia migliorato come scrittrice?

No. Mi ha migliorato come pensatrice, anzi, proprio come testa. La testa dei traduttori è limpida e sfaccettata, la miglior testa del mondo. Tutte quelle parole in ordine nei cassettini, è come essere un dizionario, però a colori, con le figure. E conoscere più lingue è come avere tanti ingranaggi in testa, sovrapposti come dischi – nella traduzione gli ingranaggi si muovono per riaggiustarsi, per trovare i riferimenti. E mentre che si muovono, un poco del grasso ti cola nella tua lingua personale, che si arricchisce e diventa bellissima, fiorita.

La tua protagonista dice: “Sfogliavo le pagine dei libri e cercavo me stessa”. Pensi che i libri, le parole possano influenzarci o almeno indicarci una strada, una prospettiva? 

Sì, perché noi lo vogliamo. Però secondo me in questo desiderio sbagliamo. Le persone colte non sono quasi mai felici. Cerchiamo nelle pagine qualcosa, lo troviamo, siamo brevemente felici, e poi ancora il tarlo rode e ci viene da cercare. Ma che cerchiamo, dove andiamo? Forse dovremmo fermarci tutti.

Cosa stai leggendo in questo periodo?

Sono, devo ammettere, una pessima lettrice. Capricciosa, schizzinosa, esigente, pure svogliata a volte. Comincio romanzi che non finisco, allora ne compro altri, o me ne faccio prestare. Solo i classici non mi deludono mai, perché sono una persona molto noiosa. Al momento sto leggendo solo poesia, ma tantissima poesia, alla rinfusa, senza conoscere gli autori, senza sapere perché. E ancora meglio, ascolto la poesia. Quando hai la fortuna di conoscere qualcuno di molto amato che legge Shakespeare con tutte le voci del mondo – quelle che esistono e quelle che non esistono – ascoltare la poesia diventa l’unica vera forma di felicità perfetta in terra.

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