Nel mondo in bianco e nero dell’arte di Martina Vanda

Figure sfuggevoli, umbratili si muovono nell’affascinante mondo in bianco e nero dell’artista Martina Vanda, una delle più importanti e originali voci emergenti dell’arte contemporanea in Italia. I suoi lavori, disegni, picture book, ceramiche, affollano i più importanti bookshop dei musei d’arte contemporanea a Roma. Martina ha vissuto per molti anni all’estero, Francia, Spagna, per poi tornare in Italia. Vanta un’esperienza nel campo dei libri illustrati, con risultati eccellenti, che l’hanno portata a vendere 150 mila copie di un suo libro illustrato acquistato dal Governo del Messico e distribuito in tutte le scuole. In questi anni è stata protagonista di eventi internazionali come l’International Art Festival di Pechino, La XII Biennale BCJEM, la selezione alla BIB di Bratislava e la Mostra illustratori di Bologna.

Incontrare e parlare con Martina è stata un’esperienza piacevole. Le sue parole sono riuscite a illuminare aspetti interiori della sua produzione artistica, a sviscerare gli elementi più nascosti del suo modo di fare arte oggi, al tempo del Covid, e prima. Con aneddoti e curiosità, Martina getta uno sguardo sul panorama dell’arte contemporanea, osservando l’evoluzione di una tecnica tanto apprezzata all’estero e oggi pian piano rivalutata anche in Italia, il disegno. Un viaggio alla ricerca di nuove forme espressive tra la necessità di innovazione e una spinta verso la canonizzazione. Ringrazio Martina per la sua disponibilità.

La rappresentazione del mondo in bianco e nero, protagonista delle sue opere, ha un’indubbia corrispondenza con la realtà contingente ed è realizzata con soluzioni diverse da altri artisti come Mircea Cantor, che pur insistono su queste tonalità. E con il mondo interiore di Martina Vanda?

C’è una corrispondenza, ma non mi piace parlare di biografismo. Una componente c’è, è ovvio, ma non tutto si deve ricercare nella componente biografica. Il mio progetto è nato nel 2016 con un cambiamento drastico, ho lavorato per molti anni nel mondo dell’infanzia. La mia è stata una vera e propria ricerca incessante, ho cercato di liberarmi dalle regole del mondo dell’illustrazione. Da lì la svolta. Ho cominciato a giocare con il pennarello nero, da cui sono emerse cancellature. Le cancellature hanno anch’esse un valore, grazie a loro ho capito che la spontaneità è insita nel segno. Così ho cominciato a concepire il disegno come una traccia realistica che si riversa sul foglio in maniera imperfetta, con cancellature ed errori che sono gli elementi che tuttavia garantiscono la naturalezza. Ho iniziato ad attingere da frasi, pensieri, dall’interiorità per realizzare voci collettive.

In Italia il disegno non è apprezzato come nel resto del mondo. Invece credo che il disegno sia rappresentazione del mondo contemporaneo e che raccolga idee veloci, fugaci. Un concetto essenziale nella mia produzione artistica è quello de “Il diritto alla pigrizia”, che è titolo del pamphlet di Lafargue, che vedeva nella passione per il lavoro un eccesso tipico della visione di una società capitalistica fino all’estenuazione. Io raccolgo voci dentro di me che si traducono in velocità, segno e quindi anche ripensamenti e cancellature.

Il disegno mi sembra paragonabile al ruolo che il racconto breve riveste oggi nella letteratura, una scrittura rapida, diretta, incisiva, adatta a raccontare il mondo “velocissimo” in cui viviamo. La scelta della tecnica del disegno per lei nasce come un’esigenza artistica spontanea o come un’evoluzione consapevole maturata nel tempo?

Il paragone mi sembra fondato, condivido. Per quanto riguarda la scelta della tecnica, devo dire che io disegno da sempre, sin da bambina. Creavo cataloghi su cataloghi, era il mio mezzo espressivo per eccellenza. Ero molto timida, ma per naturale predisposizione ho sempre raccontato attraverso il disegno. Poi sono passata ai libri illustrati, mi sembravano oggetti iconici, facili da portare, su cui poter lavorare, dire la mia, insomma. La mia arte, a prescindere dall’oggetto creato, si confronta sempre con la letteratura, con il linguaggio e la comunicazione. Con linguaggi diversi, che ho conosciuto nel corso della mia vita. Ho viaggiato molto, le mie esperienze mi hanno sicuramente aiutato a sperimentare, a ricercare nuove forme espressive e non nascondo che ho avuto difficoltà a trovare il mio spazio nel mondo.

Quali sono per lei gli artisti del passato di riferimento? C’è una corrente a cui si sente più vicina?

La corrente più vicina è quella del disegno contemporaneo. Raymond Pettibon, William Kentridge, Leanne Shapton, Paul Thek sono tutti nomi che mi hanno influenzato e dalle cui esperienze artistiche ho saputo trarre un valido sostegno.

I miei punti di riferimento, avendo vissuto all’estero, sono internazionali e di culture diverse. Questo mi ha consentito di acquisire una visione trasversale, che ho potuto utilizzare una volta tornata in Italia. Sicuramente una personalità che ha avuto un peso decisivo per me è stato Bill Traylor, artista afroamericano, nato in schiavitù, vissuto a metà tra XIX e XX secolo, che realizzava disegni sui marciapiedi di Montgomery. Un punto saldo per me, per quello che vedevo come un gesto arcaico dall’infinita bellezza e spontaneità. Poi è innegabile che i disegni di Van Gogh, più che i dipinti, abbiano esercitato un fascino irresistibile sulla mia idea d’arte.

Visitando Maxxi e Macro di Roma, ma anche l’Affiche di Milano, non si può fare a meno di notare i suoi Libri e i Taccuini. Mi spieghi come nasce questo progetto e come si evolverà.

I Taccuini non nascono come oggetti di merchandising per musei, mi consentivano di stabilire un legame con l’oggetto-libro. Stavo cercando un modo nuovo di arrivare al pubblico e non è stato facile. Ho autoprodotto queste nuove creazioni, ho bussato alla porta dei bookshop e ho notato che in Inghilterra il sistema fosse diverso. Gli artisti contemporanei lì hanno l’opportunità di proporre loro oggetti e opere nei bookshop, qui è diverso, inevitabilmente si punta più sull’aspetto commerciale e meno su quello espositivo. Quello dei Libri e dei Taccuini si è rivelato fin da subito un progetto stimolante. A vederli sembrano oggetti semplici, ma c’è un gran lavoro dietro. Ho scelto con attenzione carta, misura, spillatura, volevo che fosse tutto perfetto. Ho realizzato settecento disegni in questi anni e vorrei pubblicarli tutti su questi quaderni. Oggi sto aprendo nuovi orizzonti di ricerca, da qualche tempo sto puntando sui disegni su tele. Vorrei continuare a lavorare su disegni più ampi, ma parallelamente non abbandono il progetto delle ceramiche. Tutto è cominciato quando ho deciso di studiare ceramica di alta temperatura, da lì in poi ho realizzato dei piatti, un oggetto più intimo, d’uso comune, dove però la provocazione è più forte rispetto alle altre opere. C’è un senso del gioco che cerco di infondere nei miei lavori, non in senso frivolo. Non cerco necessariamente ironia, i miei pensieri sono veri, a volte noir. E la gente ride. Noto sempre uno straordinario effetto di catarsi nel pubblico, nel momento in cui l’opera diventa pubblica.

Altra iniziativa che l’ha vista protagonista è stato il live painting al patio del MAXXI. Com’è nata l’idea di realizzare un’opera dal vivo, davanti a tutti, e che emozione ha provato a esibirsi con il pubblico alle spalle?

Decisamente una grande emozione. Sono riuscita a cavalcare l’onda dell’entusiasmo misto ad ansia e il risultato è stato ottimo. In quest’occasione sono stata invitata dal Collettivo 100% contemporaneo a realizzare questo live painting nel patio del MAXXI. Dietro questo evento, c’era l’inizio di un nuovo progetto concepito proprio durante il lockdown: mi hanno chiamata per proiettare su un muro animazioni e parallelamente dipingere. È stata un’esperienza inedita, a tratti spiazzante, eppure fortificante. A essere sincera, io sono da sempre abituata a realizzare opere nel mio studio, nella mia tana. Poi quest’occasione si è rivelata una vera e propria sfida per me, da poco dipingo su grande formato, qui avevo addirittura il pubblico alle spalle. Li senti, li vedi, devi catturare la loro attenzione, il loro sguardo, devi trattenerli là. La sensazione è quella di stare di fronte a un precipizio. Un precipizio che sono riuscita a superare abilmente, un salto decisivo. Ogni esperienza mi arricchisce, mi motiva e da qui nascono nuove idee.

Quali sono i suoi progetti per il futuro? Quali saranno le prossime mostre che la vedranno coinvolta?

Gli eventi da qui a fine anno non mancano, per fortuna. Ho un appuntamento fisso, una mostra che faccio da cinque anni a Natale nella libreria Polarville de L’Aquila. Grazie a questa libreria, ho realizzato per il progetto OffSiteArt dei manifesti enormi di 10 x 10 metri esposti su di un palazzo in restauro nell’Aquila post-sisma. A dicembre sarò a Roma, nella galleria Incinque Open Art Monti, poi con la mia curatrice stiamo lavorando ad un progetto espositivo a Sarajevo, di cui ancora è presto per parlare.

Che significato ha avuto fare arte durante il lockdown. Qualcosa si è rotto o si è modificato a livello artistico?

È stato un periodo complicato, che ho vissuto con intensità ma anche con grande armonia. Ho lavorato, prendondomi i miei tempi, scandendoli in maniera diversa. Non ho notato punti di snodo nella mia produzione artistica, ma ho continuato i miei progetti. Ho realizzato animazioni che hanno avuto un gran successo, è stata una gioia immensa. Sono stati mesi decisamente cupi, ma anche in quei momenti ho cercato sempre di trasmettere uno stato vitale di gioia nelle mie opere. Dietro il bianco e il nero, dietro il mondo chiaroscurale che rappresento, si nasconde una gran voglia di vivere.

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