Maurits Groen, imprenditore del Sole grazie ai WakaWaka

Maurits Groen – la “Persona più eco-sostenibile del 2015 nei Paesi Bassi” – è un uomo alto e dalla voce rilassata; “nomen omen” direbbero in latino, il cognome definisce la sua missione: <<groen>> significa “verde” in olandese. Di quel colore portava la giacca, quando l’ho incontrato in un caffè di Amsterdam qualche giorno prima delle fatidiche elezioni presidenziali USA.

Stazione di Amsterdam

WakaWaka, che in Swahili significa “brillare”, è anche il nome delle luci LED (Diodo a Emissione di Luce) portatili che si ricaricano con l’energia solare: “Questo è il dispositivo. Posso mostrartelo – afferma con molta semplicità – lo puoi usare e fa quanto serve per ridurre l’utilizzo delle fonti fossili”; di quella stessa semplicità si contraddistingue il suo omonimo progetto di successo nell’imprenditoria sociale sostenibile.

L’idea, nata tra una chiacchiera e l’altra davanti a una birra con l’amico Camille van Gestel, ha permesso a Maurits – già consulente su politiche sostenibili e strategie di comunicazione – di partecipare e di vincere il bando di concorso indetto dalla Fifa alla vigilia dei mondiali 2010 in Sud Africa. “Abbiamo scoperto che persino in Sud Africa, una delle più sviluppate economie del continente, 15 milioni di persone vivevano senza rete elettrica”.

Un destino ironico se vivi nella terra dove Helios illumina in media 10 ore al giorno con 300 mila morti all’anno per incendi provocati dalle lampadine a kerosene, inquinanti tanto quanto costose. Da qui la proposta di rimpiazzarle con luci LED, 9 volte più efficienti.

Maurits Groen

Questo imprenditore non convenzionale ha fatto dell’efficienza energetica la colonna portante di un modello di business, che tutti potrebbero adottare ma, soprattutto, di cui tutti potrebbero beneficiare.

Un sistema che parte dal concetto, “Share the Sun!”, per cui il Sole è una delle risorse più democratiche a cui possiamo attingere, senza distinzioni sociali né limitazioni geografiche. Per ogni prodotto venduto, infatti, ne viene regalato un altro per progetti in Paesi in via di sviluppo o segnati da guerre e catastrofi naturali (ad Haiti come in Nepal, nelle Filippine come in Rwanda, ecc.).

Un esempio da cui l’Italia può imparare molto. Non che ce ne sia bisogno: prima in Europa ad utilizzare fonti rinnovabili (per il 17%) e, dopo Germania e Inghilterra, a raggiungere l’obbiettivo della riduzione del 20% di emissioni gas serra. Un Paese ambivalente, in cui c’è potenzialmente il più grosso mercato di investimenti (tra i 55 e i 76 miliardi di euro) ma che soffre puntualmente di burocrazia e carenza di capitali.
Un Paese “genialmente primo della classe e stupidamente ultimo della classe”, come lo definisce Jacopo Giliberto su Il Sole24ore.

Pale eloiche in Danimarca

L’esempio danese, invece, offre numerosi spunti di riflessione: pur avendo molta meno luce solare rispetto al Belpaese, ci sono giorni in cui riesce a produrre il 100% del fabbisogno energetico (anche grazie al sostanzioso apporto eolico). Un obbiettivo – perseguito dal lontano 1973, anno della prima crisi del petrolio – che ha permesso alla Danimarca di uscire dalla posizione di dipendenza energetica con benefici anche sul piano delle relazioni internazionali.

Qui siamo dunque lontani anni-luce (è il caso di dirlo) da colossali progetti di gasdotti per il trasporto di gas naturale perlopiù russo, con gravi conseguenze ambientali e commerciali (vedasi TAP).

Siamo noi che finanziamo le guerre in Medio Oriente. Sono loro (non specifica chi ma è facile intuirlo, ndr) che utilizzano ciò che paghiamo per i rifornimenti di petrolio e gas naturale a finanziare quelle guerre.” E continua: “e quelle guerre provocano sofferenza umana, oltreché il fenomeno dei migranti”. Impossibile non pensare alla Siria, la cui risoluzione sembra ancora molto offuscata.

Proprio in Siria, grazie ad un progetto in collaborazione con la Croce Rossa, sono stati distribuiti 10, 000 dispositivi WakaWaka con un impatto su 50,000 persone e oltre 11, 000 tonnellate di CO2 rimpiazzate all’anno e 10 milioni di ore recuperate da dedicare al lavoro o allo studio. Numeri reali che indicano un impatto concreto sulle famiglie e le comunità dei Paesi colpiti.

Una goccia nell’oceano – sospira Maurits – perché siamo solo due persone che stanno facendo qualcosa.” Lui, laureato in Scienze Politiche, non sapeva nulla della materia con cui sta avendo a che fare oggi. La sua storia dimostra che molto può, e deve, essere realizzato in un breve periodo di tempo: non male se si pensa che WakaWaka, in 6 anni, ha migliorato l’accesso alla rete elettrica per oltre un miliardo di persone nel mondo e oggi ha progetti in oltre 54 Paesi. Una iniziativa partita dal basso, grazie anche a delle campagne di crowd-funding, reiterate poi grazie all’eco di grossi media internazionali, dal NYT al Guardian dalla CNN a Forbes.

Il ruolo giocato da giornali e altri canali di comunicazione è essenziale, a partire dalla scelta del linguaggio. Maurits, per esempio, preferisce dire “Interruzione climatica” (Climate Disruption) piuttosto che “Cambiamento Climatico” (Climate Change), più neutrale e meno coinvolgente. Non c’è tempo, continua, per una discussione di gruppo. E sono i media che devono diffondere le informazioni necessarie su cui le persone possano basare le loro opinioni. Come sottolinea Groen, stiamo parlando di una “verità scomoda”, che tendiamo a sopprimere perché altrimenti saremmo costretti a prendere provvedimenti e si sa, il cambiamento richiede tempo e sacrifici (che molto spesso non siamo disposti a spendere perché troppo presi dalla vita quotidiana). Il vero problema sembra essere la mancanza di immaginazione: “è difficile capire cosa succederà in un periodo di 50-100 anni se non facciamo qualcosa”.

Lettura consigliata da Groen: Diamond è un biologo e si interroga se sia possibile che anche alcune delle società contemporanee, o l’intera civiltà industriale, stiano andando incontro a un crollo e se e come sia possibile evitarlo

Risulta l’ennesimo fallimento del neoliberalismo degli ultimi decenni: il paradosso per cui le soluzioni più convenienti sembrano più difficili da realizzare per mancanza di condizioni di mercato favorevoli.

Eppure, a ben vedere, ci sono molte novità: basti pensare all’ultimo rapporto di dicembre del World Economic Forum: il sole e il vento hanno raggiunto lo stesso prezzo delle fonti fossili in più di 30 Paesi. Non si tratta più solo di un’opzione commerciale fattibile, ma di un’opportunità stabile di guadagno a lungo termine.

L’Italia in questo non manca all’appello: sono stati creati più di 40,000 nuovi posti di lavoro grazie agli investimenti nella riqualificazione energetica delle abitazioni.
Anche il modello di Smart Grid (Città Intelligente) presso il campus universitario di Savona è esemplare: turbine a gas ad alta efficienza e basso costo, sistemi di accumulo speciale per non disperdere l’energia prodotta durante il giorno dal sole. Grazie ai suoi impianti fotovoltaici, il Campus riesce a risparmiare sulla bolletta energetica fino a 60,000 euro annui.

E se è vero che “essere poveri è costoso – una delle citazioni preferite dall’imprenditore olandese – allora, non ci resta che scegliere consapevolmente le risorse che sono alla portata di noi tutti: Sole e Vento.

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