Il NOFEST ci racconta come si fa un festival di cinema sperimentale

NOFEST 2016 (S’alzano i roghi al cielo)

Si è appena conclusa la rassegna di cinema sperimentale e indipendente Nofest 2016: Cosa fare con il fuoco, tenutasi al Teatro Filarmonico di Piove di Sacco, in provincia di Padova. Abbiamo deciso di intervistare gli ideatori dell’evento, la redazione de L’emergere del possibile, composta da Francesco Cazzin e Francesca Rusalen.

Cos’è il NOFEST?

La domanda su cosa sia il NOFEST è irrimediabilmente coinvolta in quella sul suo perché, ed è in questo senso che noi diciamo che il NOFEST sia innanzitutto un evento: c’è una stringenza, una necessità nel NOFEST, e questa stringenza, questa necessità è costitutiva di esso, lo connota denotativamente. In questo senso, il suo carattere eventuale è come se lo circostanziasse, questo è vero, ma tale circoscrizione crediamo sia tanto inevitabile quanto, nei fatti, peculiare del NOFEST medesimo. In maniera più piana, il NOFEST non è tanto un accadimento, un qualcosa che puoi dire succeda o sia successo, perché, in effetti, non è mai successo niente al di là di esso o, se si preferisce, il NOFEST stesso è talmente conchiuso in sé che è indifferente al resto. Noi possiamo dire che nulla cambi, che, nonostante – poniamo – vengano fatti un bordello di NOFEST, il cinema a cui continua ad aggrapparsi l’Italia sia quello, sciatto, di sempre, ma è proprio questo il punto. Non si tratta di far cambiare le cose, perché le cose non cambiano, e il NOFEST non vuole cambiarle, non ha questa pretesa. Piuttosto, il NOFEST, come evento, si staglia su uno sfondo che riporta in sé come senso ma che non può, in quanto sfondo, che ritrarsi indefinitamente da esso; come evento, cioè, il NOFEST è il punto in cui la prossimità tra lo sfondo ritraentesi e ciò che si staglia su esso, tra ciò che accade e il suo senso è percettivamente più minima. Così, se è vero che il NOFEST non nutra la pretesa di cambiare le cose è altrettanto vero che le cose – lo sfondo – cambiano il NOFEST, tant’è che non ci sarà mai un’edizione del NOFEST identica a un’altra, ma ciò è dovuto al fatto che l’orizzonte circoscrivente nel quale avviene il NOFEST rimane il medesimo, il medesimo contro il quale viene a farsi il NOFEST. In questo senso, il NOFEST è una sponda rispetto a ciò che accade e accade quotidianamente. Non proprio un approdo, quindi. Forse nemmeno un riparo. Magari una radura, se intendiamo la quotidianità come un bosco in cui non ci si capisce una sega e, anziché camminare, si brancola e basta. In questo modo, però, bisogna sottolineare che alla radura ci si arriva si per tramite del bosco ma che la radura stessa apre il bosco, è da essa che si orienta la luce. Il NOFEST, dunque, bisognerebbe pensarlo come a qualcosa d’esclusivo, nella misura in cui esclude la quotidianità, ma anche a qualcosa d’inclusivo, poiché in esso ci si ritrova innanzitutto e, in secondo luogo e non meno importante, una volta concluso il NOFEST, ci si è rimessi alla quotidianità, solo in maniera diversa, meno mediocre. Il punto fondamentalmente crediamo sia, appunto, che la quotidianità sia insostenibile, o quantomeno noi ci siamo rotti le palle della sua banalità, della chiacchiera, della curiosità, di quel Si impersonale che la polarizza. Perché la banalità del quotidiano banalizza anche noi stessi, dalle nostre parole ai nostri gesti. E quindi il NOFEST come evento, come qualcosa che, di fatto, riorienta la visione, successo il quale può reinnestarti nel quotidiano ma in modo meno banale, in maniera meno mediocre. Più autentica, se si vuole. Per questo dicevamo che il NOFEST è qualcosa di circostanziato, che non cambia il reale e che è esclusivo. Perché al NOFEST c’arrivi tu, non ti capita. Sei come reclamato da esso, altrimenti non lo frequenti, non ci vai. Ma questo reclamo è una stringenza della tua persona così com’è data nella quotidianità, così come non può più sopportarla, questa quotidianità. Non è che il NOFEST ti renda una persona migliore: semplicemente, recupera le tue energie, riorienta la tua visione. In poche parole, ti rende meno banale, più te stesso. Ed è questa, crediamo, la sua peculiarità, il suo cosa e assieme il suo perché.

Rothkonite di Menegazzo-Pernisa

Il titolo, NOFEST, da dove deriva?

Il titolo, NOFEST, deriva appunto dal fatto che bisogna per una buona volta avere il coraggio di dire no. No al cinema, innanzitutto. No alla festa che è diventato e no ai festival che continuano a protrarre quel cinema che si dà nel quotidiano, dunque quello banale. NOFEST significa «no festival», ma con ciò s’intende che il NOFEST sia dichiarativamente contro i festival e non soltanto che esso non sia un festival, cioè un altro evento mondano come lo sono diventati tutti i festival in Italia, anche quelli che, all’epoca, sembravano avere qualche chance in più, come Torino sotto Turigliatto o Pesaro sotto Aprà. Per dire, Aprà non c’è, e chi c’è a Pesaro? C’è Armocida. E chi è Armocida? Armocida è uno che scrive su, cioè per – dove questo per dev’essere anche letto come «a favore di» – ilGiornale. Ora, con tutta la simpatia che noi possiamo avere per la destra, c’è davvero possibilità – e lo chiediamo onestamente – che un festival si faccia in una maniera che non sia quella della quotidianità ma dell’autenticità, nel momento in cui è in mano a un tizio che scrive per ilGiornale? Noi crediamo di no. E facciamo notare, en passant, che il Nostro scrive anche per Ciak e FilmTV, quindi – come dire – la banalità della banalità, cinematograficamente parlando. Certo, ora a Pesaro sembra che Satellite stia facendo qualcosa di diverso, ma attecchirà? l’Italia, e con essa il suo cinema, è pronta ad accogliere una proposta come quella stilata nel manifesto di Satellite? o sarà solo l’inizio di un’altra moda ancora, un luogo in cui inserirsi? oppure – ancora – la moda è già iniziata, ci ha già preceduti – e come moda non fa che precederci? Come fare in modo che la moda arranchi fino a sfiatare, che il NOFEST e, insomma, queste realtà qui rimangano autentiche? come evitare che la loro passeggiata non assuma i toni di una marcia fascisticheggiante? Ricordiamoci che Santini, il cui cinema è all’apice del nuovo cinema sperimentale italiano, è, sì, andato a Rotterdam, ma non come regista, bensì come produttore: e produttore de I racconti dell’orso, il cui peso specifico è quello del crowdfunding, quindi di qualcosa che funziona nel momento in cui ha una base sociale che lo garantisce. Ormai è il sociale che garantisce il cinema, e in maniera sempre più evidente; ovviamente, questa non è una novità, ma l’indipendente e l’underground, allora, che significano? Il cinema sperimentale si definisce come gesto tecnico, di contro al gesto sociale dell’altro cinema, quello tra virgolette commerciale. Ma che succede nel momento in cui anche l’indipendente viene a essere sociale? Non è un caso, dopotutto, che Romano abbia prima girato un film prodotto da Arcopinto e poi abbia detto pubblicamente che si sente molto vicino alla sensibilità di Sestieri e Amato, perché il crowdfunding è la nuova deriva del cinema indipendente, il che significa che persino l’indipendente non sarà più tale, sarà cinema sociale. Ecco, noi diciamo precisamente no a tutto questo stato di cose qui. No a Torino, che è diventato qualcosa di oltraggioso con e grazie a Oberto, che l’altro anno, nella sezione dei cortometraggi, ha presentato le cose più abominevoli. No a Venezia, ormai una passerella di mentecatti che arriva fino a Orizzonti. No a Roma, alla Puglia e via dicendo. Prendi il caso della Puglia. La Puglia è forse la regione con più cineasti indipendenti o supposti tali in Italia. Quello che fa la Sacra Apulia Unita non lo fa nessun’altra Filmcommission in Italia. E, guarda caso, anche la critica, in Italia, è spesso e volentieri magheggiata da loro. Pensiamo a Uzak, ad esempio. A quello che scrivono e a quello che fanno, le cose che organizzano. Pensiamo di non aver mai letto un articolo di cinema, su Uzak. Eppure Uzak scrive di cinema. Ci sono Abiusi, Marelli e altra gente, in Uzak. E scrivono tutti delle delle cose in cui tipo puoi ritrovarti Zemeckis e Florenskij, Mazzola e Marcello. Perché? Ad esempio, Fabio Scacchioli e Vincenzo Core, che sono due nomi comunque affermati, nel panorama del cinema realmente e radicalmente indipendente italiano, sono taciuti da Uzak. Perché? Di cosa scrivono, quando scrivono di cinema, quelli di Uzak? Ci pare non di cinema. E perché allora scrivono di alcuni registi anziché di altri? Perché, ad esempio, Uzak ha dedicato varie cose a Dongiovanni? Non vogliamo essere maliziosi, quindi non diciamo che è perché sia sacrapulicommissionato, e però è strano che determinati film, come Giano e Anapeson, siano seguiti da titoli di coda eterni, lunghissimi, che fanno invidia persino a uno sceneggiato RAI, è strano – vogliamo dire – che per un film indipendente (o supposto tale), in cui si fa qualche inquadratura contemplativa di una baracca, compaia, nei titoli di coda, un assistente alla regia. Vogliamo dire, che cazzo fa un assistente alla regia? E questo è Uzak, eh. Uzak spinge ‘sta roba qui, per quel che concerne l’indipendente italiano, mentre con l’altra mano parla di Marcello e robaccia simile. E però Uzak muove un bel po’ di cose, ad esempio adesso coll’Apulia hanno questa cosa in ballo con Ghezzi, un altro su cui bisognerebbe indagare approfonditamente prima d’incensarlo. E non è un caso, peraltro, che alcuni di Uzak, ultimamente, abbiano fatto sponda anche in quel de La Furia Umana, non fosse per il fatto che D’Angela e Abiusi sono molto amici… e, del resto, lo schiavo è sempre il miglior amico del tiranno, come c’insegnano i nostri vecchi della bassa padovana. D’altro canto, cioè coestensivamente, D’Angela pubblica le uzakine, come Carlucci e Dell’Aquila, i cui articoli sono risibili, sembrano cioè rabberciare frasi a random e rantolare citazioni che evidentemente non sanno gestire per negligenza, perché non si è studiata sistematicamente una cosa, perché tanto ormai Deleuze è come il prezzemolo e allora basta dire «divenire-[x]» e va bene così. Ora, perché accade questo? Perché non gliene frega un cazzo a nessuno del cinema. Da D’Angela a Uzak, l’unico motivo che spinge ‘sta gente a parlare di cinema o, nel caso di Dongiovanni, a fare cinema è ritagliarsi un riquadro per la propria persona. Non è Brakhage, che annichiliva la propria persona, il proprio corpo (Chinese series) nel gesto – perché per lui era un gesto – filmico, nell’essere trapassato da quell’entità che andava poi a farsi filmicamente. Per dire, Brakhage è messo sullo stesso piano di Malick, da La Furia Umana… Perché? Perché quest’intellettualismo spinto? Perché trovare corrispondenze anche laddove non ci sono? Perché, appunto, si parla di sé, del proprio presbitismo anziché far parlare, lasciar parlare il cinema. E NOFEST è dunque da leggersi come contro questa festa qui, questo stato di cose qui. Perché siamo stanchi del personalismo, siamo costretti a pensare che oltre la quotidianità ci sia qualcos’altro e che questo qualcos’altro, nei fatto, sia aperto nella quotidianità medesima da una breccia che il cinema è, perché il cinema avviene nel reale, nel nostro vivere quotidiano. In questo senso, si capisce bene che la negazione che costituisce il NOFEST è un’affermazione. Non facciamo solo una teologia negativa. Ma questa affermazione si fa contro una determinata realtà – quella quotidiana – che va negando. Si tratta di essere meno banali, meno mediocri. E non è un discorso superomistico, eh. Poiché un conto è nutrire un superomismo di maniera colle frustrazioni procurate da un lavoro al Leroy Merlin (e allora arrivi ad autocitarti nei tuoi film, il che è patetico e inaccettabile), un altro conto è essere schiantati da esso, ritrovarsi ineluttabilmente ulteriori rispetto a una realtà mediocre e banale qual è quella della quotidianità. Il NOFEST, allora, assume veramente le caratteristiche dell’evento, e le assume nella misura in cui ti rigetta nella realtà sbrogliandola dalla mediocrità ad essa costitutiva. Si pensi a Cillo, ad esempio. Tutto il cinema di Cillo è canalizzato in questa direzione. Cosa fa Cillo? Di fatto, filma roba quotidiana, come ad esempio una statua, solo facendone emergere il lato possibile e non realizzato. La notte, in Cillo, dev’essere presa seriamente: è allora che la realtà continua ad esistere, ed esiste non insistendo in essa, su essa quella patina di mediocrità e banalità che la opacizza, che non ci restituisce l’albero, la macchina, il lampione, la statua così come queste cose ce le restituisce, nella loro genuinità, il cinema di Cillo.

Light Night di Enzo Cillo

Il NOFEST, insomma, dicendo no a tutto questo schifo, si afferma positivamente, ma questa positività non è una negazione che, improvvisamente, si trasforma nel suo opposto: è la negazione medesima, è il negativo che si protrae, che continua a protrarsi come tale. Che r\esiste a tutto questo, che esiste contro tutto questo ed esiste come tale, cioè resistendo. Perché ormai solo resistendo si può esistere. Da qui la decisione, nel corso del NOFEST, di proiettare determinate cose ma anche e soprattutto sul come proiettarle. Ad esempio, a Piove di Sacco abbiamo proiettato dei film che erano in programma ed altri che non lo erano per dare una struttura precisa, una traiettoria particolare al tutto (ad esempio, abbiamo presentato, al termine di tutto, Rothkonite, poiché, se Il tubo delle cose 2 mostra che l’immagine precede la rivoluzione anestetizzandola, allora ci siam posti il dubbio se l’immagine dovesse essere distrutta e se non fosse proprio la distruzione dell’immagine a doversi dare quale immagine). Ed è questa precisa struttura, questa particolare traiettoria a funzionare, perché è irripetibile. Irripetibile come l’incontro che c’è stato, l’incontro coi registi intendiamo. Non è la cazzata dell’incontro deleuziano. È qualcosa di molto più inquientante. Durante Cosa fare con il fuoco, abbiamo incontrato le solitudini di ognuno, ci siamo incontrati in quanto solitudini. E, in fondo, a viverla così, non si può che essere soli. Noi de L’emergere del possibile non abbiamo fatto altro che rabberciare alcune solitudini, farle anche scontrare per certi versi. Menegazzo/Pernisa, Vaia, Cillo, Mazzola e via dicendo… Non c’era un’unità, un qualcosa di monolitico. Se c’è stato un incontro, questo è avvenuto nel momento in cui si dava l’impossibilità dello stesso incontro; tutto il contrario, insomma, di quel che accade quotidianamente, in quella quotidianità in cui la solitudine non esiste, in cui le amicizie fanno gioco e riempiono gli spazi, costituiscono poteri. Allora, eravamo soli, e in ciò sensibilmente, spiritualmente comunicanti.

Come funziona il NOFEST?

Appunto, il NOFEST funziona solo rompendosi. Dev’essere un evento, qualcosa che trascina in sé lo sfondo che, però, si ritrae, perché il senso non si dà. E non si dà perché il senso, quand’è autentico, risucchia in sé l’evento, lo fa svanire, lo annichilisce. Ma è questa la sua peculiarità. Il fatto, cioè, di non accadere se non disfandosi, annichilendosi. Deve sparire ogni volta, e ogni volta rifarsi. Il NOFEST funziona solamente se ne accade un altro, ma quest’altro può accadere nel momento in cui il primo è svanito, s’è disintegrato. È come un riot, e non per niente la prima edizione reale del NOFEST è stata intitolata Cosa fare con il fuoco. Il fuoco della molotov, che distrugge, a cui è stata dedicata la prima serata, con lavori di Sylvain George, Margaret Rorison e Nothingness. Ma anche il fuoco del primo proiettore a carbone, che dà l’immagine e dunque crea: l’immagine del cinema dell’immanenza quindi, che abbiamo approfondito invece nella seconda serata con i cortometraggi di Mazzola, Cillo, Scacchioli/Core, Menegazzo/Pernisa, Vaia, Santini, Schirinzi e Masini. La distruzione è creazione, la creazione è distruzione. In questo senso, siamo anarchici. E il NOFEST funziona come un riot, perché altrimenti che senso ha? Noi crediamo che la gente sia stanca. Che sia ormai palese che così non si possa continuare. Economicamente, politicamente, socialmente etc. Ma non crediamo nella politica. Non crediamo che votando si cambino le cose. Ormai sono troppo radicalizzate. La rivoluzione, come mostra Il tubo delle cose 2 del collettivo Nothingness, ha già un’immagine di sé che la precede, e quest’immagine non è rivoluzionaria. Basta vedersi intorno. Tra videogiochi, film e via dicendo, siamo mitridatizzati alla guerra urbana. Il riot ha già un’immagine, il che significa che è già stato anestetizzato, controllato. Se c’è una possibilità di cambiamento, questa si dà nel proprio, nel piccolo, nell’intimo. In quella che Foucault chiamava la cura di sé. Perché è dal sé che parte qualcosa di veramente rivoluzionario. La conversione è qualcosa che riguarda il sé. Ci si converte a qualcosa. In gioco c’è il soggetto, non certo il qualcosa verso cui ci si converte. A convertirsi è il soggetto, il cambiamento è soggettivo. Ed è questo il punto. Ci si può convertire a qualsiasi cosa, ma quando ci si converte non conta più il «che cosa» al quale ci si converte, perché la conversione è inerente al soggetto, situata in esso – è esso che muta, cambia, attraverso la conversione. Il fallimento delle rivoluzioni è dovuto a questo: ci si è convertiti a un’idea, come quella comunista. Il cristianesimo, invece, è diverso. Quella è stata una rivoluzione riuscita ed interessante, ma perché lì, allora, colla parousia, ci si convertiva a qualcosa che dava l’idea, la convinzione. Col cristianesimo delle origini, ci si convertiva al cristianesimo, ma questa conversione era primariamente un cambiamento soggettivo. La seconda venuta di Cristo ancora non era arrivata, e convertirsi al cristianesimo significava cambiare modo di vita, ed era da questo cambiamento che derivava l’idea, la convinzione della seconda venuta di Cristo. Contrariamente, negli anni Sessanta, ad esempio, ci si è convertiti a un’idea, e per conformarsi a essa si cambiava, si cambiava mentalità, comportamento etc. E da qui tutti i fallimenti rivoluzionari che ne derivarono. Quindi, insomma, secondo noi un cambiamento, oggi come oggi, può essere dato solo nel soggetto. Il soggetto deve cambiare. Ma deve cambiare per una sua propria deriva, per una sua propria stringenza. Per una necessità interna. E questo crediamo sia fattibile attraverso un certo cinema, che definiamo dell’immanenza. Sicché, appunto, il NOFEST funziona così, per necessità. Funziona nel momento in cui altri lo faranno. Altri sentiranno l’esigenza di vedere un determinato film, ad esempio Bang Utot, e si organizzeranno, faranno una serata in un teatro come in uno scantinato e lo proietteranno. Come un riot. Che funziona nel momento in cui non diventa mondiale ma pluri-locale. In cui scoppia prima a Baltimora, poi a New York, poi a Venezia, infine ovunque. Ma saranno sempre diversi riot, quindi ingestibili, perché ognuno avrà determinate dinamiche, ognuno avrà le sue ragioni e via dicendo. Certo, serve la voglia, lo sbattimento e via dicendo, eppure ci sembra che non tutti siano felici. Ci sembra che diverse persone vogliano vedere determinati film e non ne abbiano la possibilità, perché la realtà cinematografica oggi non permette la visione di questi film. E allora bisogna togliere le armi a queste realtà qui. Bisogna crearne altre. E il NOFEST, crediamo, è una di queste. Per questo abbiamo intitolato la prima edizione reale del NOFEST “Cosa fare con il fuoco”, perché si trattava di questo. Cosa fare con il fuoco, che – si badi bene – non è una domanda. Cosa fare con il fuoco. La seconda edizione reale del NOFEST, invece, sarà intitolata Vedere Altrimenti, e sarà allo Sherwood Festival di Padova il 14 luglio. Proietteremo altri lavori dei medesimi registi che abbiamo ospitato nel corso della prima edizione, ma sarà un’edizione diversa, anche con una forma diversa. Perché ora che l’abbiamo posto, il NOFEST, si tratta di protrarlo e, con ciò, protrarre la sua negazione senza positivizzarla, senza istituirlo, perché la cosa più rischiosa è, appunto, farne un’istituzione, un brand. E allora Vedere Altrimenti. Il che significa, certo, vedere altrimenti, vedere in un modo diverso rispetto a quello quotidiano. Ma con ciò è anche posta l’alternativa. Vedere altrimenti non vedere. E su questo siamo molto precisi e radicali: vedere altrimenti, vedere in modo diverso da quello quotidiano e fare ciò grazie e attraverso il cinema, ma anche vedere altrimenti non vedere, poiché ci pare che la visione, oggi, ci sia preclusa. Non vediamo più. L’epoca contemporanea è così ingorgata d’immagini che, semplicemente, abbiamo smesso di vedere. E allora vedere altrimenti, vedere in modo diverso significa anche e soprattutto vedere in contrapposizione a quell’altrimenti del vedere che, di fatto, è la cecità più terribile, quella della servitù consenziente in cui vivono più o meno tutti.
Nascere è abbandonare un morto.

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