Il Rock come atto sociale | Intervista a Pierpaolo Capovilla

È atteso per il 23 febbraio You don’t Exist, sesto album in studio del power trio nato nel lontano 1995. You Don’t Exist è uno spaccato di vita quotidiana nell’oscura contemporaneità in cui insistono le nostre esistenze. La guerra, l’individualismo, l’indifferenza, la disgregazione sociale, le ansie e le angosce d’oggigiorno rappresentano i temi ricorrenti di questo nuovo “romanzo” rock, che ambisce a raccontare le contraddizioni del presente, e lo fa con un sentimento di riscatto ed emancipazione. Ne abbiamo parlato con Pierpaolo Capovilla.

“You don’t Exist” è uno dei migliori dischi dei One Dimensional Man, quello in cui si avverte fin dal primo brano un’urgenza musicale e artistica fortissima, come se le cose che dici e le note che suoni non potessi più trattenerle ma dovessero in qualche modo venir fuori. M’interessa capire il processo creativo che ha portato alla scrittura del disco tanto nei testi quanto nelle musiche con Franz e Carlo.

Grazie Fabio per il giudizio lusinghiero. Ci inorgoglisci. Non c’è dubbio che ci sia questa “urgenza”. Ci siamo rimessi a suonare proprio perché ci sentivamo spinti da un sentimento di necessità. Qualche tempo fa, in una pausa durante le registrazioni, Franz se ne uscì con una felicissima battuta; disse: “ho l’impressione che siamo qui a registrare questo disco per il semplice fatto che è da troppo tempo che non ascoltiamo qualcosa che ci piaccia davvero“. Non posso che essere d’accordo con lui. Abbiamo sentito che era arrivato il momento di resuscitare il rock che più amiamo, quello nel quale intravediamo l’autenticità e la genuinità intellettuale che abbiamo sempre cercato. Quello che da tempo sembra essersi obliato dietro tutte le mode del momento, ma che in realtà vive ancora nel nostro (e non solo nel nostro) modo di concepire la musica rock, ed al quale vogliamo a tutti i costi ridare continuità storica. Anche per questo abbiamo pensato alla cover dei Saccharine Trust: “We Don’t Need Freedom” è una canzone dell’81, ma sembra scritta ieri, e sembra dedicata proprio a noi.

Ma c’è sempre qualcosa di imprevisto nello scrivere canzoni. Il bello di essere “band” è questo. Ti dai un obiettivo, ma non sai bene quale esso sia. Lo raggiungi, e soltanto una volta raggiunto comprendi che obiettivo era. Questo processo creativo è, dunque, anche un processo cognitivo, nel quale si impara a fare una cosa insieme. Si chiama cooperazione.

E poi, diciamocelo, siamo arcistufi di tutta la marmellata che ci fanno mangiare le mode di cui sopra. Dai Dead Kennedys, dai Black Flag, o dai No Means No, i gruppi citati in “Alcohol”, abbiamo imparato che l’impegno politico, nel segno dell’emancipazione e della rivolta anti-sistemica, è il cuore stesso di questo “atto sociale” che chiamiamo musica rock. E che la cretinaggine della stragrande maggioranza del rock d’oggigiorno se ne vada a quel paese! Non se ne può più.

“È solo a favore dei disperati che ci è data la speranza” ebbe a scrivere Walter Benjamin all’inizio dell’era fascista. La stessa frase la riprende Marcuse nel testo che dà il nome alla vostra band. Gli ultimi, i disperati son diventati nel tempo, soprattutto da Il Mondo Nuovo in poi, il perno di tutta la tua poetica. È chiaro che non ti limiti a cantarli ma li metti al centro di quello che potrebbe essere l’auspicato cambiamento politico e sociale. Come vivi la tua dimensione di uomo e musicista impegnato?

Caspita! Citando Benjamin e Marcuse… mi conquisti. Io sto dalla parte della povera gente. Senza indugi. Sto dalla parte degli ultimi, degli esclusi, degli emarginati, stigmatizzati, carcerati, manicomializzati e dalla parte del popolo Romanì, quelli che ci ostiniamo irrispettosamente a chiamare zingari. Sono un socialista. Sto dalla parte dei proletari, anche quando mi rammaricano: che tristezza sentire gli operai inveire contro gli immigrati. Sto dalla parte di quei giovani che chiedono a gran voce una società più giusta e più uguale. La mia è una scelta politica, e proprio perché politica, informa di sé il mio operato artistico e spero anche quello delle relazioni umane di ogni giorno.

Il tuo mondo musicale, particolarmente nel progetto One Dimensional Man, affonda le radici nella stagione della musica indipendente americana (SST Records, Touch and Go). Un periodo esploso sotto la presidenza di Ronald Reagan in cui la musica aveva assunto una profonda funzione di rivolta verso tutto il sistema. Se ci guardiamo intorno, quell’esperienza oggi, a parte qualche significativa eccezione, sembra un patrimonio perduto. Questa ricerca continua della leggerezza e del disimpegno che ha coinvolto il mondo della musica, lo avverti come una fase legata a dinamiche di mercato musicale o come il successo di un sistema capitalistico capace di disinnescare l’aspetto rivoluzionario della musica?

Non c’è il minimo dubbio che il sistema capitalistico sappia “sussumere“, concetto cruciale in Marx, qualsiasi forma di lotta emancipativa, trasformandola nel suo contrario. L’intero processo mercantile minaccia, da sempre, la libertà della gente, e lo fa convincendola che la libertà è consumo, è soddisfazione merceologica, è “avere” e non “essere“, giusto per citare Fromm, altro filosofo della Scuola di Francoforte. Leggerezza e disimpegno non ci appartengono, anzi, li rifuggiamo e facciamo del nostro meglio per sbarazzarcene. Ritornare alla tradizione che fu così ben rappresentata da quella stagione di cui tu accenni, è una strategia di cui siamo pienamente consapevoli.

In The American Dream, il pezzo che chiude l’album, declami i nomi dei primi 43 presidenti degli Stati Uniti d’America. La scelta di tenere fuori Obama e Trump è dettata da una prospettiva storica, attendere cioè ancora un po’ di tempo per un giudizio che possa avere il rigore del distacco o da altre logiche? E, in secondo luogo, come nasce il tuo capovolgimento dell’american dream, da sempre utopia o, se preferisci, ipocrisia del sistema a stelle e strisce spostando l’attenzione dall’uomo comune, l’american worker, verso chi è passato per le stanze del potere?

Occhio che nella canzone Obama c’è, eccome! (e in effetti c’è! A differenza degli altri presidenti, il nome di Barack Obama non è recitato ma sussurrato, quindi urlato sulla coda strumentale tra pianti di bambini, grida e rumori di devastazione N.d.A.) La figura storica di Barack Obama è semplicemente esemplare. Vince due volte le presidenziali americane grazie a parole e promesse socialisteggianti, ad un eloquio elegantissimo fatto di contenuti valoriali forti, di princìpi democratici. Nei fatti, Obama è stato il presidente più belligerante della storia statunitense. L’ipocrisia dei suoi due mandati presidenziali è paradigmatica. Ma ciò che più mi preoccupa è qualcos’altro. Negli USA, che chissà perché continuiamo a definire “la più grande democrazia del mondo”, non vige alcuna democrazia. I presidenti non sono che dei pupazzi nelle mani del così detto “deeper state”, quel mostro finanziario e militar-industriale che si è appropriato della volontà popolare, piegandola ai propri esclusivi interessi: quelli di una sparuta e interstiziale minoranza di super ricchi. La chiamano “infinite supply”, “ricchezza infinita”, ed è pericolosissima proprio per la democrazia, per tutte le democrazie del mondo, anche la nostra. Perché chi è infinitamente ricco può comprare tutto e tutti, con buona pace di qualsivoglia valore democratico, e perché grazie e attraverso essa l’informazione, i media, i grandi network, ci abituano ad una narrazione delle vicende storiche completamente falsa. L’undici settembre non è forse la più grande bugia della modernità? Non è forse l’inizio della così detta post-verità? Sono interessi enormi, perché finanziari e geopolitici, e perché legati indissolubilmente all’approvvigionamento delle risorse energetiche e minerarie dell’intero pianeta. Quel “deeper state” è, in questo momento del decorso storico, il più grave problema che la civiltà umana si trova a dover affrontare.

Il “sogno americano” non è mai stato un sogno, se non per una minoranza esigua che nell’ascensore sociale, calpestando i popoli e il pianeta, è riuscita a salire. Per tutti gli altri è un incubo, il più terribile degli incubi.

La canzone, per altro, si conclude con la voce di Kenneth O’ Keefe, questo ex soldato americano convertitosi alla causa palestinese. Un tipo davvero fuori dal comune. Abbiamo fatto un taglia-e-cuci delle sue invettive (spero non se ne abbia a male, ho cercato di contattarlo in tutti i modi…). O’ Keefe è uno che ha le idee chiare, e quella giustapposizione con la quale si chiude il brano e il disco, alla fine recita così: “Trust me: a functioning brain, a basic critical thinking, is all you need. Checkmate motherfuckers!“. Una frase rabbiosa ma piena di speranza, che condividiamo e nella quale ci specchiamo convintamente.

Vuoi dirci come nasce l’idea dell’artwork di You don’t exist?

L’artwork è opera di Michele Bubacco, un nostro caro e antico amico, divenuto un artista di fama internazionale. Per come la vedo io – non sono un esperto di arti figurative – Bubacco è fra gli artisti più compiutamente contemporanei che ci siano in circolazione. Ha ascoltato il disco, e ci ha donato l’utilizzo delle sue opere, tutte originali e dipinte e composte per l’album. Ne approfitto per ringraziarlo anche qui. È così bella la cooperazione, sopratutto quando è interdisciplinare.

Partecipare a un tuo concerto significa assistere a una delle ultime esperienze militanti on stage: l’adrenalina, il filo diretto col pubblico, il sudore si mescolano dentro a un’unica rappresentazione da consumata rockstar. Quasi sempre giù dal palco continui a raccontare e raccontarti, a suggerire, mentre fuori si fa l’alba, suggestioni e letture (è grazie a te che ho incrociato Il poema ferroviario di Venedikt Erofeev). Quanto è importante per te la dimensione del palco e quanto il rapporto off stage, lo stare in mezzo alla gente, alla tua gente?

Mio caro Fabio, io mi considero un “primus inter pares”. So bene che mi viene riconosciuta una certa autorevolezza, ma quest’ultima non avrebbe alcun significato se non fosse politicamente declinata al sacrosanto valore della pari dignità di tutte le donne e gli uomini. Quindi anche del e nel nostro bel pubblico. Essere un artista, per me, è certo una responsabilità, ma anche, se non sopratutto, una grande gioia. Amo la gente. E amo stare in mezzo alla gente, confrontarmi, conoscere, e rendermi utile. By the way… felicissimo d’averti suggerito Erofeev. Il “Poema Ferroviario” è fra i libri più divertenti e folli che abbia mai letto. In un pezzo del disco c’è una sua citazione. Ma non ti dico dov’è. Vediamo se indovini!

Infine, dentro il tuo modo di vivere la musica si percepisce una rabbia, un’urgenza, come dicevamo, una sensibilità nei confronti di ogni ingiustizia che riesci a vivere anche fuori dal mondo artistico. A che punto è arrivata la battaglia contro l’ignominiosa pratica del Trattamento Sanitario Obbligatorio?

Stiamo facendo grandi passi in avanti. Grazie all’accanimento e alla pervicacia di alcuni psichiatri basagliani, molti dei quali riunitisi nel Forum Salute Mentale (http://www.news-forumsalutementale.it/), se tutto va bene, nella prossima legislatura avremo una riforma della Legge 180, di cui quest’anno celebreremo il quarantennale con molte manifestazioni e incontri pubblici. Se questa riforma andrà in porto, porteremo il nostro paese all’avanguardia mondiale nella pratica psichiatrica. Lo sai Fabio che nel resto d’Europa e del mondo la situazione è ampiamente peggiore che qui da noi? In realtà l’Italia è a tutt’oggi l’unico paese ad aver abolito i manicomi, e il TSO è il cuore stesso della Legge Basaglia: paradossalmente è grazie ad esso che i manicomi sono stati chiusi. Il problema, cruciale e ineludibile, è che del TSO non si faccia più -mai più- un uso politico o poliziesco: deve diventare ciò che deve essere e per il quale è stato concepito: una pratica medica esclusivamente extra-ordinaria, e sempre e soltanto in favore del paziente, della sua dignità, dei suoi diritti. Gli abusi devono cessare, una volta per tutte, così come deve cessare l’oscena pratica della contenzione meccanica e quella delle porte chiuse negli SPDC (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura N.d.A.). Nel manicomio che Basaglia e il suo piccolo gruppo di eretici della psichiatria trasformarono da quel carcere spaventoso che era in un luogo aperto e ospitale, c’era una scritta (temo sia stata cancellata, per errore, da alcuni operai che stavano manutenendo lo stabile): la libertà è terapeutica.

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