Da Almarina alla tragedia greca | Intervista a Valeria Parrella

Da una parte Elisabetta, dall’altra Almarina. Da una parte l’insegnante cinquantenne, dall’altra la ragazzina romena. Da una parte la vedova combattiva che vive in una Napoli splendente, dall’altra la piccola senza alcun affetto terreno che sconta la sua pena al carcere minorile di Nisida. È proprio nell’espansione di solitudini così atroci che avviene il contatto tra questi due tipi umani, tanto diversi e allo stesso tempo tanto incredibilmente simili. Nel loro isolamento fisico ed emotivo, Elisabetta e Almarina scoprono l’altro e nell’altro riescono a trovare loro stesse. Arrendersi alla vita, lasciandosi attraversare da accadimenti che sembrerebbero essere più forti di ogni volontà, non è mai stata un’opzione. E nel vorticare del vento che sospinge esistenze spezzate, dal lutto per Elisabetta e da un’infanzia violenta per Almarina, le due riescono ad afferrare l’una la mano dell’altra. Almarina è un romanzo poetico. Struggente, intimo, contemporaneo. Racconta di un amore spontaneo, un sentimento disinteressato e altruista che nasce nella notte più buia. Come un fiore che nessuno si è premurato di curare e che, nonostante le avversità, è cresciuto rigoglioso e bellissimo.

Abbiamo chiacchierato con la sua autrice, Valeria Parrella. Nata a Napoli, è una romanziera, giornalista e drammaturga, già candidata al Premio Strega – quest’anno è ancora in dozzina proprio con Almarina, Einaudi 2019. Ecco cosa ci ha raccontato.


Elisabetta parrebbe avvertire la necessità di affermare continuamente sé stessa, come a voler solidificare un’identità che le sfugge sempre di mano. Almarina in tal senso cosa simboleggia?

Credo che Elisabetta abbia questa necessità perché esce da un lutto. Vuole ridefinirsi, capire dov’è. È una persona molto insicura, tra l’altro. E cerca di ridefinirsi sempre rispetto agli altri, ma questo è anche uno sforzo di maturità. Essere monolitici, limitarsi a sapere che esistono la destra e la sinistra, il bello e il brutto, il bianco e il nero è un po’ da giovani. A un certo punto bisogna andare incontro all’altro. Lei ci prova, ed ecco il balletto emotivo che vedi. In questo Almarina le fa compiere un giro su un livello superiore. È chiaro che il romanzo abbia un andamento circolare per cui comincia e finisce nello stesso punto, sulle scale del tribunale, ma mentre all’andata siamo su un livello al ritorno siamo su un livello superiore: l’andamento non è proprio circolare, piuttosto è a spirale. E credo che Almarina serva a Elisabetta proprio per imporre un piccolo sollevamento della curva. Così, invece di avere un cerchio, il luogo dove si torna alla fine è lo stesso, ma un po’ più su.

Elisabetta non parla quasi mai del suo futuro ma, a tratti, lo fa come se si apprestasse a viverlo attraverso Almarina. La ragazza è in effetti la prospettiva di un nuovo domani?

Questo probabilmente è vero per il lettore, non per Elisabetta. Lei, secondo me, fino all’ultimo non sa cosa farà con Almarina. Si lascia vivere. Ha dei piccoli afflati. Tant’è che alla fine è il direttore del carcere a metterle la ragazza in casa. Lei tutto sommato aveva solo chiesto di passare il Natale in carcere perché “se devo fingere di stare con le mie cognate e pensare a mio marito morto, preferisco stare con i miei ragazzi”. È il direttore che capovolge la situazione. Io non credo che Elisabetta fosse così determinata. Ma sì, in generale è vero che parlo molto di più del passato e del presente dei personaggi. Questo lo faccio sempre. È la mia tendenza. Ad esempio, oggi – 21 aprile 2020, ndr. – su La Repubblica c’è un mio racconto, se lo leggi noti che è fatto allo stesso modo. Ecco, io scrivo così. Il futuro lo lascio al lettore. Se ci fai caso, in fondo i miei libri non finiscono. Non hanno mai, qualche racconto a parte, un finale vero e proprio. Perché è come se a me andasse di raccontare i personaggi nel momento in cui li incontro come se fossero a metà strada. Non si sa che succede dopo. Il futuro per me non è tanto importante. È più come se i miei personaggi rispondessero a una domanda: perché questa mi ha scelto come personaggio, che ho fatto fino a qui?

Non si realizza subito quando la vita sta cambiando”, dice Elisabetta. Qual è la porzione di vita che viviamo retrospettivamente? In altre parole, quanta parte dell’esistenza siamo capaci di abitare nel presente e quanta non possiamo far altro che elaborare solo poi, quando ormai è tutto finito?

Questa forse è più una domanda di psicologia, e io non ti so rispondere. Io so analizzare la realtà solo attraverso la scrittura. Il resto sono esercizi privati che non ha senso che ti esponga. Ti dico piuttosto come procedo nella scrittura. Mi succedono delle cose o mi raccontano delle storie. O vedo succedere delle cose o penso che un fatto di cronaca debba essere sviluppato. Non prendo appunti, non scrivo niente e aspetto il momento di scrivere – un momento che per me è determinato da una necessità interiore e da quell’ambaradan di cose che è la vita. Ecco, quando comincio a scrivere, quando arriva quel momento, passo al setaccio della memoria ciò che ricordo. Certo, nel frattempo mi sono dimenticata un sacco di cose e all’inizio mi fa pure rabbia. Mi dico “perché non mi sono scritta quella cosa, perché non ho conservato quel ritaglio di giornale?”. Ma lo so perché: tutto il resto è costruzione, è il piacere dell’affabulazione, dello scoprire. In un certo senso, credo di averti risposto. Immagino che ci sia una parte di realtà che affrontiamo subito, perché ci serve sapere se a pranzo mangeremo la pasta e piselli o no, e una parte di realtà che affronteremo quando la digeriremo, quella pasta e piselli. E forse il momento della scrittura è quella parte lì.

I personaggi del romanzo sono quasi tutti dei ragazzi che devono scontare la propria pena in un carcere minorile, Nisida appunto. Trattandosi di tipi umani giovanissimi, alcuni parrebbero non essere consci fin in fondo di ciò che hanno fatto, in un certo senso. Quanto sono figli delle circostanze in cui si trovano ad abitare questi ragazzi? Hanno effettivamente libertà di scelta o l’essere nati in un contesto come il loro è una sorta di privazione a priori del libero arbitrio?

Nel mio romanzo si dice proprio questa cosa, in effetti: se questi ragazzi non fossero nati dove sono nati non sarebbero finiti in carcere. Quindi chiaramente il contesto sociale esterno, noi e la città e l’Italia e la malavita e l’estrema povertà, sono il motivo per cui arrivano a delinquere. E questa cosa fa tandem con quell’altra frase che le dice sempre il direttore, “se esiste un ragazzo colpevole, da qualche parte c’è un uomo colpevole”. Questo fa pensare che sì, dovessi essere caustica nella risposta direi che è una privazione a priori del libero arbitrio. Voglio dire, il libero arbitrio lo eserciti quando sai che c’è un’alternativa. Certo è che se da quando sei nato vedi solo una cosa, vedi solo tuo padre che picchia tua madre o tua madre che si prostituisce, non pensi che ci sia un’alternativa. Pensi che quella sia la vita.

Aurora, la collega di lettere di Elisabetta, chiede ai ragazzi di Nisida di scrivere un tema su una cosa successa loro quando erano piccoli “perché il futuro non si immagina”. Ecco, io pensavo piuttosto che in carcere del futuro si cercasse d’immaginare ogni dettaglio, così da prepararsi per ciò che si vorrebbe costruire una volta fuori, e che del passato non si parlasse per evitare di disseppellire i ricordi più atroci di esistenze dure. Perché credi valga il contrario?

Di questo me ne sono proprio accorta. Il presente si sfugge perché è triste, il passato perché è doloroso; anzi, dolorosissimo: i ragazzi non ce la fanno, davvero non ce la fanno, ad affrontarlo. I loro ricordi di bellezza, quelli dei ragazzi, sono lontanissimi, mentre i ricordi recenti sono quelli che hanno dovuto rievocare davanti al giudice. La rapina, il furto, l’omicidio. E poi del passato non si parla anche per convenzione in carcere, e questo è anche vero da un punto di vista giuridico. I detenuti non possono parlare di quello che hanno fatto fuori. Proprio non possono: è un obbligo. E il futuro, sai, mica è scontato. Ci sono moltissimi detenuti che ho conosciuto a Nisida che sarebbero passati al carcere per adulti. Perché le pene sono lunghe, vanno oltre Nisida. Ci sono persone lì dentro che hanno ancora vent’anni davanti. Persone che usciranno perché hanno commesso crimini lievi ma che non sanno che fine faranno. Ecco, no, del futuro non si parla. Loro immaginano le cose come le immaginiamo noi da ragazzi, ma più in un’atmosfera da sogno: “mi piacerebbe aprire una pizzeria”, “mi piacerebbe fare l’estetista”, “mi piacerebbe fidanzarmi con Brad Pitt”. Non con un senso di realtà, di costruzione.

Una solitudine feroce vibra attraverso ogni pagina del romanzo e mentre questa desolazione, sia emozionale sia fisica, serpeggia tra le parole, i tuoi personaggi sembrerebbero adoperarsi per sconfiggerla. Credi che la solitudine sia una condizione comune dell’esistenza umana? E se sì, credi che la spinta che ognuno ha vada in direzione opposta in modo naturale, ancestrale?

A me la solitudine interessa moltissimo, spesso i miei personaggi sono soli. È proprio uno spazio utile, il loro. E questo dipende un po’ dalla mia passione per le tragedie greche. I greci sono monolitici, il tragico nasce dal fatto che non si parlino tra loro. Creonte non riesce a parlare con Antigone e viceversa, e attorno c’è un coro e basta: non ci sono interazioni come nei romanzi e nei film moderni. Questa modalità deriva dai greci, quindi.

Elisabetta ha qualcosa in comune con le protagoniste dei tuoi romanzi precedenti?

Elisabetta credo abbia molto in comune con Maria de Lo spazio bianco, più o meno la costruzione del personaggio è fatta allo stesso modo. Sono donne sole, da un lato, e in questa solitudine si chiedono delle cose. Anche le figure secondarie sono molto simili, ne Lo spazio bianco c’è il collega di Maria e qui c’è Aurora, la collega di lettere che mette Elisabetta sulla strada giusta. C’è un problema burocratico per entrambe, lì è l’ospedale e qui è il carcere. Insomma, sì: sono molto simili.

Quali sono i tuoi maggiori riferimenti letterari, contemporanei e non?

Sicuramente i greci, come ti accennavo prima. In questo periodo, poi, sono fissata con Marguerite Yourcenar, ho cominciato quest’estate con Le memorie di Adriano, ho appena finito L’opera al nero e Anna, soror.

Exit mobile version