Perché la campagna #ioleggoperché è andata a puttane

Gira questo hashtag, #ioleggoperché, e insieme all’hashtag un’intera campagna sociale di promozione culturale dell’oggetto libro, tutto da leggere. E insieme alla campagna, una massa ignota di evangelisti del libro, con una pretenziosa foga di insegnare quanto sia bello (e vuotamente fico) portarsi appresso, nella tasca interna della giacca, un libro di Baudelaire o Baricco, twittatori ignoti di belle parole e citazioni d’autore, in 140 caratteri con la ”ics” al posto dei ”per”. Il fatto che si ritrovino in giro tweet sgrammaticati (e per fortuna Twitter ci ha tolto dall’imbarazzo sociale donandoci solo la brevità dei 140 caratteri) la dice lunga sull’iniziativa. Chi sono questi promotori di cultura, questi santoni e guru del libro?, e che fascino potrebbero mai esercitare su un non lettore per convertirlo alla lettura? Davvero le case editrici per invogliare i consumatori a leggere hanno bisogno non di buoni libri ma di iniziative così out of tune?

Una delle grandi lacune della letteratura in Italia è la mancanza di una promozione (a parte belle eccezioni) che sia in grado di trasformare l’oggetto libro in qualcosa di desiderabile da possedere, ma soprattutto leggere (anche perché i due aspetti molto spesso non coincidono nel mondo ultra-hipster di oggi, più devoto all’apparenza che al contenuto). Non stiamo parlando di marketing editoriale, o comunque non soltanto, ma anche di parole in grado di smuovere qualcosa tout court, senza pretese meramente pubblicitarie. A questo si ricollega un immaginario letterario che in Italia appare ancora profondamente ”vecchio”, basti andare alla presentazione di un libro per accorgersi di una certa atmosfera che fa della letteratura un rituale più sovversivo rispetto a un evento musicale o un happening artistico. Il pubblico è profondamente diverso: l’immaginario di un concerto è cool, l’immaginario letterario è ancora quello borioso che ci legava alla cattedra della professoressa di italiano che voleva che leggessimo Manzoni senza passione. Si è contributo a creare l’immaginario dei lettori come quello di arroganti e pretenziosi intellettuali con venature naif, incapaci di essere passionali ricercatori come gli ascoltatori di musica. L’aspetto del piacere nella lettura passa in secondo piano, come se un lettore fosse guidato solo dal puro utilitarismo del manuale da imparare, da un intellettualismo di maniera e dal peggiore dei nozionismi culturali.

C’è una cosa su cui la promozione editoriale insiste troppo poco: un racconto di Raymond Carver, un romanzo di Fedor Dostoevskij, una poesia di Sylvia Plath, possono procurare lo stesso (e maggiore) sconfinato piacere di quel serial tv che tanto vi piace. Quando parliamo di letteratura parliamo di storie, immaginari, immedesimazioni, sentimenti umani: tutto ciò che ci tocca nel profondo del nostro comune destino dello stare al mondo. Non sono le citazioni da twittare che salveranno la letteratura dal suo destino (spesso volutamente) minoritario, né l’arroganza del lettore tipo che vorrebbe tenersi stretto l’oggetto libro tutto per sé. Rendere i lettori una sorta di fumosa élite che vive staccata nel suo Empireo non aiuta a diffondere le parole e il sentimento che la parola può provocare.

Il cuore della questione sta tutto nel trasformare il libro in un oggetto desiderabile, ed è questione più scabrosa che svegliarsi al mattino nei panni di un insetto senza una ragione. Su quali qualità (la copertina? l’autore? il sentimento del tempo e blablabla?) bisognerà insistere per ”vendere” un libro è un problema che riguarda soprattutto il mercato editoriale, che probabilmente vive in una congiuntura così disperata da attaccarsi furente a iniziative come #ioleggoperché. Come dire, in mancanza di altro, puntiamo sulla viralità degli hashtag. Ma quello che non è andato nell’iniziativa mi sembra legato a un problema di percezione da parte del pubblico. Il lettore già lettore, quello da non convertire, non è molto sensibile a scatti di piedi che si uniscono candidamente a copertine di libri via Instagram. Quello che dovrebbe esser sensibile all’iniziativa, il tizio da convertire, raramente ne resterà affascinato al punto da correre in libreria a comprare un libro qualsiasi. La questione sta tutta nella fascinazione e nella conquista: e per arrivare a conquistare un non lettore a leggere non restano che le parole. Non i tweet di Jovanotti e Franceschini. Non le trasmissioni tv. Le uniche armi che abbiamo in mano sono le parole. Rendere affascinante un libro, raccontarlo, non smettere mai di parlarne, stimolare un intero immaginario intorno ai libri che non è più quello vecchio-borioso, e neanche quello nazional-popolare in salsa rosa. Ebbene: come facciamo a creare questo immaginario, come facciamo a far desiderare a un tizio qualsiasi di spendere i suoi soldi per possedere I Detective Selvaggi di Bolaño?

Anzitutto pubblicando libri migliori, e insistendo su quelli. Quando a David Foster Wallace veniva chiesto ”com’è che la gente legge sempre meno libri?”, lui rispondeva: ”sarà colpa degli scrittori che non scrivono buoni libri”. Se vogliamo avvicinare una persona alla lettura di certo non possiamo proporgli il catalogo dei buoni sentimenti della letteratura italiana solo per far vendere di più a editore tal dei tali. I lettori non sono fessi, e neppure i non lettori, al di là della squallida diatriba dei tempi. Ci sarebbero un insieme di temi collegati da sviluppare, e un giorno, quando avremo il tempo, forse ne parleremo. Per esempio di come la letteratura italiana non abbia assecondato nessuna rivoluzione beat; e andando a ritroso nel tempo si possa dire che non ci sia stato un vero e proprio filone ”scapigliato” di poeti, gli autentici maudit di poesia e prosa; e anche quando avremmo avuto l’occasione di avere a che fare con scrittori del genere (Tondelli, Bellezza, Carnevali), complice una sotterranea pruderie tutta italiana, poco siamo riusciti a coglierla in termini di diffusione su una scala più vasta di pubblico. Ma questa è un’altra storia, qui parlavamo di tweet.

(continua, forse)

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