Più forti del regime | Jesse Owens alle Olimpiadi di Berlino

Ci sono dei nomi che col tempo non ricorda più nessuno, ci sono dei gesti che invece ricordano tutti, ci sono anche dei gesti che passano inosservati ma che possiedono un valore inestimabile, se scoperti e raccontati. Alcuni palcoscenici sembrano innocui per il potere, anzi spesso sono lo strumento per rafforzarlo, ma poiché i contesti sono fatti di esseri umani, non tutto è calcolabile, e proprio questo “essere umani” a volte, per fortuna, tracima e viene fuori. Dicevamo di nomi più o meno noti, ne prendiamo alcuni e ne raccontiamo brevemente le gesta.

Le Olimpiadi del 1936 in Germania si svolgono in pieno periodo nazista, pronte a magnificare la perfezione del regime e la superiorità della inesistente “razza ariana” anche su una pista, per dimostrare la superiorità completa, anche fisica dei tedeschi. In una folla di braccia tese, a coronare una perfetta coreografia che accompagna tutta la manifestazione e sotto gli occhi attenti del Fuhrer, il medagliere tedesco conta ben 89 medaglie di cui 33 d’oro. Tutto secondo i piani, ma non tutto ancora è concluso.

Il 4 agosto tra Hitler e la realizzazione del suo piano “sportivo” si mette di traverso un ragazzo americano che a distanza di chilometri da quella pista ha frantumato diversi record di velocità. Qualche tempo prima in quarantacinque minuti ha stabilito cinque record del mondo ed eguagliato un sesto. Anche il 3 agosto, il giorno prima, nelle qualifiche il ragazzo vola. Si prepara a fare incetta di medaglie nel tempio del nazismo. In poche ore diventa l’incubo del regime. Non è ariano, non è tedesco, e secondo la follia nazista della catalogazione, è parte di una razza inferiore, essendo anche nero. È l’ultimo di dieci fratelli, figlio di un coltivatore di cotone e nipote di uno schiavo, il suo nome è Jesse Owens.

Per esorcizzare le paure e non minare alla base le loro teorie, i nazisti provano a pensare che nella corsa, nella velocità, può anche accadere che un “selvaggio” possa correre più veloce, e allora provano a mettere le mani avanti dicendo che è sul salto in lungo che si misura la superiorità, in un gesto fatto di potenza, coordinazione e magari di eleganza. Peccato per loro che Owens sia in lotta per una medaglia anche lì, e il suo avversario, tedesco, ha tutte le stimmate del perfetto rappresentante “ariano”: il suo nome è Lutz Long. Per andare in finale i due devono superare la misura di 7.15. Long la supera senza problemi, Owens invece è più teso, in contemporanea sta anche svolgendo le batterie di qualificazioni ai 200 metri, e mentre si riscalda per prepararsi al primo salto, calpesta la sabbia della pista e i giudici considerano il salto nullo, una vera e propria infamata, che innervosisce l’atleta afroamericano che sbaglia il successivo salto. A questo punto, Jesse si gioca tutto nell’ultimo balzo.

Lutz Long e Jesse Owens

Owens è nervoso, sotto lo sguardo di Hitler e anche sotto l’occhio della telecamera della regista Leni Riefenstahl incaricata di riprendere le olimpiadi. A questo punto la storia riserva una sorpresa che in pochi secondi cambia tutto. Long consiglia a Owens di staccare in anticipo sull’ultimo tocco per non rischiare il salto nullo, la leggenda dice addirittura che il tedesco lasci cadere una sua maglia bianca in parallelo alla pedana per indicare il punto sicuro per liberarsi in aria. Owens si fida e approda alla finale. Più sereno centra una serie di balzi che lo portano a vincere con un salto di anticipo, su un comunque combattivo Long. Owens, l’ultimo salto vuole farlo lo stesso, sebbene si sia già assicurato la medaglia d’oro, e sotto gli occhi di tutti con un 8,06 stabilisce il nuovo record olimpico. Il primo ad abbracciare e congratulrsi col campione sarà proprio Long, che in seguito riceverà da Goebbels l’ordine di “non abbracciare mai più un negro”. Owens intanto nei giorni successivi, vincerà altre tre medaglie d’oro nei 100 e 200 metri e nella staffetta, ma questa è la parte della storia più o meno sotto gli occhi di tutti e scolpita nel medagliere olimpico.

Jesse tornerà in un’America ancora profondamente razzista, divisa tra neri e bianchi, e nonostante le sue medaglie dovrà salire sugli autobus sempre e solo dalla porta posteriore come tutti i neri. Per vivere e guadagnare dei soldi, correrà contro tutto, inclusi cani, auto e moto. Long invece non si era fatto amare dai nazisti per le sue idee troppo tolleranti verso le cosiddette “razze inferiori”, dopo un impiego in un ufficio viene spedito al fronte. In questi anni pare resti in contatto epistolare con Owens rinsaldando l’amicizia nata quel giorno. Long muore in Sicilia, ferito in guerra, e prigioniero degli inglesi che lo terranno in ospedale fino alla fine, per poi seppellirlo in provincia di Catania, a Motta Sant’Anastasia, dove è tuttora. Pare che abbia scritto a Owens chiedendogli un giorno di raccontare al figlio, del padre mai conosciuto. La guerra finisce, la Germania è liberata dal nazismo e Owens è invitato a Berlino a tenere un discorso proprio nello stadio Olimpico davanti a 70mila persone. Alla fine un ragazzo si fa coraggio e gli porge una foto da autografare, raffigurato c’è Long, e quel ragazzo è il figlio Kai, a cui Jesse racconterà tutto di quel lontano 4 agosto. L’ultimo capitolo di questa vicenda ha luogo ancora in una pista, ai Mondiali di Atletica del 2009 a Berlino, quando a premiare il vincitore del salto in lungo saranno Kai, il figlio di Lutz Long e Marlene Dortch, nipote di Jesse Owens.

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