John Zorn, un alchimista a New York

Prima istantanea. È il 27 ottobre 2013. Improvvisamente in una serata fredda una voce si rincorre sui social: è morto Lou Reed. Ad aiutarlo nel passaggio ci sono le musiche di un amico di lunga data, scritte appositamente per lui. Il disco con quelle musiche uscirà esattamente un anno dopo e si chiamerà Trasmigration of The Magus. Il compositore si chiama invece John Zorn, pochi mesi prima per i suoi sessant’anni un festival itinerante, Zorn@60, gli ha reso omaggio con retrospettive e happening al MoMA, al Lincoln Center e al Guggenheim.

Seconda istantanea. Salto indietro di quasi trent’anni. È il 1985. Esce The Big Gundown, disco omaggio a Ennio Morricone con una quarantina di musicisti a reinterpretare alcuni temi della sua produzione. Gran cerimoniere, arrangiatore, direttore: John Zorn, trentadue anni, da New York. Dopo aver ascoltato il disco, di lui Morricone, solitamente avaro di complimenti, dirà: “Questo è un disco che ha idee fresche, buone e intelligenti. Realizzato ad alti livelli da un maestro di grande fantasia e creatività”.

Terza istantanea. È il 1977. Un giovane new yorker magro come un chiodo, allampanato e dallo sguardo intelligente, auto produce il suo primo lavoro. Si chiama Lacrosse ed è un’improvvisazione basata sui game pieces, tecnica che affonda nel mondo jazzistico e che lui ha perfezionato. Sarà il primo dei suoi lavori per alcuni anni dedicati esclusivamente all’avanguardia. New York, il centro del mondo, è dove inizia a muovere i suoi primi passi quello che diventerà uno dei compositori più prolifici e versatili che il mondo musicale abbia mai conosciuto.

Raccontare John Zorn è un’impresa persa in partenza. Accumulare fotografie di una carriera ormai quarantennale sarebbe, forse, il solo modo possibile per cercare di ricomporre un puzzle. Come in una serie poliziesca americana, attaccarle poi tutte su un pannello e in una visione d’insieme provare a leggere le connessioni, i contrasti, ridisegnare punti nevralgici e percorsi di una carriera artistica che non ha uguali nel novecento dov’è nata e nel nuovo secolo dove ancora continua.

Autore sorprendentemente prolifico con centinaia di dischi pubblicati e nel medesimo tempo personaggio schivo e distante da tutte le regole dello star system. Newyorchese fin nel midollo, attento, intelligente, parlantina veloce e sarcastica, accento inconfondibile della Grande Mela. Organista, sassofonista, compositore, arrangiatore, produttore, animatore culturale, proprietario dell’etichetta più indipendente mai affacciatasi nell’industria musicale internazionale.

Con queste fotografie ben incollate alla mente, proveremo a raccontarvi la sua storia. Sarà un racconto parziale: non certo punto di approdo quanto punto di partenza per chi non lo conosce oltre che un modo per provare a offrirne una sintesi a chi si è imbattuto in un solo aspetto della sua produzione senza conoscere tutte le altre facce.

Come musicista John Zorn nasce organista (ma soltanto negli ultimi anni ha dato alle stampe tre lunghe suite di solo organo) ma presto scopre il sax e, va da sé, la passione per il jazz nella sua declinazione free, Ornette Coleman docet. I primi lavori sono però, un po’ a sorpresa, di pura improvvisazione e sperimentazione avanguardista. Quando nel 1977 Zorn auto produce Lacrosse, sono ormai passati già dieci anni dai fermenti che portarono al primo disco dei Velvet Underground. Zorn non è appassionato di pop music e invece di rivolgere il suo sguardo al disco con Nico (mediazione tra le radici colte di John Cale e quelle pop di Lou Reed) risale alle radici di quel periodo. Prende LaMonte Young e John Cage e rielabora quella lezione di libertà estremizzando suoni e messaggi, giocando con gli elementi (aspetto importantissimo in gran parte dei suoi lavori). Non a caso la tecnica che domina i primi lavori, file card, porta dritto ai game pieces organizzati come giochi legati a precise regole ma con ampi margini di libertà. Le file card permettono di predeterminare a intervalli di tempo alcune caratteristiche: durata, stili, addirittura emozioni. Forniscono in una certa misura la sintassi su cui i musicisti hanno la libertà di esprimere in maniera creativa il proprio linguaggio. Pochi anni prima esperimenti simili si erano avuti in Italia grazie agli Area in pezzi come Caos (Parte Seconda) con la collaborazione di Steve Lacy non a caso su etichetta Cramps, la prima grazie a Gianni Sassi a esplorare i lavori di John Cage (che apriva la collana Nova Musicha dedicata alla musica contemporanea).

John Zorn con Laurie Anderson, Lou Reed e Philip Glass

Gli anni ottanta significano autoproduzioni, improvvisazioni in giro per la città ma anche poco a poco l’inizio di quella che sarà una vita da grande leader della scena downtown di New York e che vedrà intorno a lui crescere e affermarsi alcuni tra i più grandi strumentisti di fine novecento. Sono anni di sperimentazioni, in Zorn cominciano a emergere gli interessi anche extra musicali che ne condizionano il lavoro: la tecnica del cut-up, i principi del post modernismo, l’uso del materiale altrui (anche sonoro) come base per la creazione di nuove opere. Ci sono la lezione della musica classica postbellica, il serialismo e la musica concreta, ma anche il free jazz e la musica di Carl Stalling (avete presente le musiche dei Looney Toones?)

Cobra nel 1984 porta al suo massimo splendore tutta la teoria dei game pieces e resterà nel tempo uno dei lavori più pubblicati nelle sue diverse interpretazioni grazie a collettivi sempre nuovi e alla natura stessa del procedimento. Il primo grande successo arriva, però, l’anno successivo con The Big Gundown il disco che rende omaggio a Ennio Morricone. Già dalla copertina (un giovane Zorn che posa davanti a una gigantografia del maestro romano) è possibile intuire la devozione del fan e di conseguenza anche l’onore, l’emozione e il privilegio derivati dalle parole di apprezzamento di Morricone (solitamente uomo avaro di complimenti). Dieci pezzi (diventeranno sedici nell’edizione del 2000 impreziosita da una versione da brividi di The Sicilian Clan e dalla voce di Mike Patton su The Ballad of Hank McCain) in cui Zorn eleva il concetto di cover a vette mai raggiunte prima attraverso un lavoro di trasformazione sui pezzi, lavorando sulle partiture che, sottraendo o aggiungendo, manipolando suoni e tempi, giocando con i generi, sono affrontate radicalmente eppure restano, allo stesso tempo, intrinsecamente fedeli all’originale. Tra i quaranta musicisti inizia a formarsi quella crew che lo accompagnerà per l’intera carriera, ma non mancano anche nomi importanti a dare il loro prezioso contributo come Diamanda Galas e Arto Lindsay.

Nel 1986 esce Godard, omaggio con la tecnica del jump-cut al grande cineasta francese. L’anno successivo tocca invece a Spillane, dedicato stavolta all’autore newyorchese di fumetti e romanzi (di cui Zorn è ammiratore fin da bambino), uno dei padri dell’hard-boiled. Gli anni ottanta si chiudono, poi, con due importanti omaggi al jazz, News for Lulu che guarda al bop degli anni cinquanta e sessanta e, soprattutto, Spy vs. Spy dedicato a Ornette Coleman che trasforma ancora una volta l’approccio free sottraendolo al jazz per portarlo su territori maggiormente estremi (trashcore e grindcore soprattutto).

Negli stessi anni prende corpo il progetto Naked City (John Zorn, Bill Frisell, Fred Firth, Joey Baron e Wayne Horvitz) forse quello più noto di Zorn perché più vicino alla musica rock soprattutto nelle sue intenzioni punk e iconoclaste. È una fase delicata, questa, della vita di Zorn che si divide tra l’appartamento newyorchese e la vita in Giappone. Dal punk prenderà il grido come elemento di ribellione, dal Giappone, dove si è integrato perfettamente all’interno di una certa cultura, una spinta alla violenza estrema, che passa anche per il mondo del porno che Zorn frequenta da spettatore, avido com’è di ogni aspetto umano e che si riversa non solo nei suoni ma anche nell’estetica che fa da contorno ai dischi dei Naked City e che non gli risparmierà aspre critiche nella puritana America. In particolar modo per Heratic che, fin dalla copertina, si muove su un immaginario sadomasochista e che è in realtà vera e propria colonna sonora di un film pornografico giapponese (non inclusa però nel catalogo dei Filmworks, altra creatura dell’infinito catalogo zorniano). Ma è fin dall’omonimo esordio che l’estetica Naked City appare in tutto il suo splendore. Pezzi brevi quando non brevissimi (sotto il minuto, anche di pochi secondi) di surf rock, punk, noise che non disdegnano aperture liriche e melodiche ancora una volta legate a Ennio Morricone (qui The Sicilian Clan supera addirittura l’originale) ma anche al George Delerue de Le Mépris e, soprattutto, a un nume tutelare del suo immaginario musicale, Olivier Messiaen, autore non solo di una delle opere imprescindibili dell’intero Novecento (il Quatuor pour la fin du Temps) ma anche uomo di profonda sensibilità verso il sacro (Zorn ha imparato a conoscerlo negli anni dietro l’organo), nonché, in quanto maestro, padre artistico di tutta la musica classica contemporanea (a partire da Pierre Boulez).

Grand Guignol è, forse, l’album più completo dove, dopo la title track che scorre come un’inquadratura cinematografica e una suite che ricodifica lavori di altri compositori “colti” (Messiaen ancora ma anche Debussy, Scriabin, Orlande de Lassus, Ives), si apre una sequela impressionante di micro pezzi che sono poi, in definitiva la vera ragion d’essere della prima all-star band di Zorn. Leng T’che è, invece, costituito da un unico lungo brano di circa mezzora ispirato alle idee sull’erotismo tragico espresse da George Bataille sulla tortura dei cento pezzi della dinastia Ch’ing (in Lacrime di Eros). La foto riportata in copertina (che sarà poi censurata e confluirà nel Black Box) è la stessa di cui parlano Oliveira e Wong in Rayuela di Cortazar, nella notte parigina durante la quale il club si trova ad ascoltare musica jazz. Un particolare, questo, che fa emergere tutto il valore intellettuale dietro la ricerca artistica e musicale di John Zorn. Abbandonando le contrazioni dei lavori precedenti, Leng Tch’e è, all’inizio, un avvolgente mondo di atmosfere epiche tra un percussivismo rock molto anni settanta e un avanzare rituale da doom metal, da metà in poi si carica, invece, di una matrice noise, angosciante ed estatica, affidata alle urla di Yamantaka Eye, il vocalist giapponese collaboratore regolare del progetto.

A ridosso del progetto Naked City (che avrà una sorta di erede nel collettivo Painkiller), con alle spalle le improvvisazioni d’avanguardia, le rielaborazioni di materiali preesistenti che guardano all’esperienza della musica concreta, le esplorazioni degli universi jazzistici e dei mondi cinematografici, si affaccia un grande cambiamento nell’universo zorniano: la riscoperta delle radici ebraiche. Tutto ha inizio con un album che è una pietra miliare, pubblicato nel 1993 dall’etichetta giapponese Eva, Kristallnacht ripercorre gli eventi accaduti nella notte tra il 9 e il 10 novembre del 1938, quando si consumò il pogrom delle SS. Se Shteti, la prima traccia, è una classica melodia klezmer che, con i consueti metodi zorniani, è costruita amalgamando discorsi del regime tedeschi, frammenti sonori, Lili Marlene e abbaiare di cani che fanno venire la pelle d’oca, dalla traccia successiva, in un’esplorazione del contesto più che politico, emotivo intorno a quegli eventi, si scatena uno spaventoso universo rumoristico e cacofonico in alcuni passaggi insostenibile (ancora qui, si potrebbe recuperare quella Lobotomia degli Area, dedicata, negli anni della radicalizzazione politica, a Ulrike Meinhof) come unica possibile rappresentazione dell’orrore.

Il dado è tratto: tra accuse di sionismo (francamente deboli) e dall’altra parte invece di utilizzo delle sue radici come scaltro pretesto, Zorn dà nuovo slancio alla sua arte compositiva scrivendo in un mese cento composizioni che utilizzano le scale sefardite della tradizione ebraica, rivestendolo come sempre di sonorità diverse e affidando il tutto a dieci dischi con un quartetto à la Ornette Coleman con Zorn (sax alto), Joey Baron (batteria), Dave Douglas (tromba), e Greg Cohen (contrabbasso). È il progetto forse più jazzistico, di sicuro quello che gli permetterà di calcare i palchi di mezza Europa e lo introdurrà ai maggiori festival jazz che non abbandonerà mai più. Sarà lo stesso Zorn a ribadire, però, che la sua presenza nei festival jazz non deve trarre in inganno sulla natura della sua musica che non necessità di etichetta: i festival jazz sono nei fatti gli unici o i pochi spazi concessi alla sua idea totale di musica.

Masada, inizialmente solo il nome del quintetto, diventa un marchio duraturo nel tempo che allargherà per la prima volta il carnet di musicisti che saranno accolti alla corte del grande mago: il violinista Mark Feldman, il violoncellista Erik Friedlander, il pianista e organista Jamie Saft, la pianista Sylvie Courvoisier, Kenny Wollesen e, soprattutto, Cyro Baptista alle percussioni e naturalmente il grandissimo Marc Ribot (Tom Waits) alla chitarra per il Bar Kokhba Sextet. La matrice ebraica si fa sempre più forte grazie, nel 1995, alla formazione della Tzadik, la casa discografica personale di John Zorn che ha pubblicato a oggi circa seicento opere, un terzo delle quali vede direttamente coinvolto lo stesso Zorn come musicista o come compositore e ha dato spazio a grandissimi musicisti e compositori (oltre a quelli già citati, non si può sorvolare su Mike Patton, Nana Vasconcelos, Ikue Mori, Teiji Ito, Alvin Curran, Wadada Leo Smith, Eyvind Kang, Milton Babbit e Morton Feldman) in diverse collane che spaziano dalla Radical Jewish Music a quelle invece che esplorano l’universo della musica colta dei primi del novecento fino a opere originali contemporanee. La Tzadik mette a disposizione dei musicisti non solo il know how e le strutture, ma anche la produzione, lasciando però totale libertà nella registrazione senza intervenire in alcun modo in ambito creativo, ponendosi, così, unicamente come piattaforma per la diffusione di giovani talenti o musicisti affermati che beneficiano anche degli incassi dei loro lavori mentre i ricavi dei dischi in cui è coinvolto Zorn direttamente, aiutano (grazie al relativo maggior numero di copie vendute) a portare avanti l’impresa in totale indipendenza dalle major anche distributive (in Italia si possono trovare nel bookshop del Museo Ebraico di Venezia).

A metà degli anni novanta, a vent’anni da oggi, la discografia di Zorn è già ampia e ricca. Sarà niente rispetto alla valanga che sta per arrivare. A partire dal 2003, solo per la seconda serie Masada – The Book of Angels, Zorn sforna 300 tunes raccolti in dischi chiamati ciascuno con il nome di un demone della demonologia ebraica e che solo adesso vedono concludersi la loro pubblicazione. Questo nuovo corpus di musica ebraica è stato affidato a una serie di musicisti diversi e più distanti dall’universo zorniano e ha portato a esiti di straordinaria intensità e bellezza. Citiamo i migliori: il pianistico Moloch affidato a Uri Caine, Tap suonato con ogni strumento possibile da Pat Metheny (con Antonio Sanchez alla batteria), Mycale, disco di canti polifonici per ensemble di voci femminili, Malphas affidato al violino e pianoforte della coppia Feldman/Courvoisier.

Mente voracissima e suggestionabile, John Zorn cerca fin dall’infanzia di leggere lo scibile, appassionandosi, in una delle meravigliose e polverose biblioteche newyorchesi di quegli anni, alle opere di Aleister Crowley e Georges Gurdjieff (che per la cronaca si detestavano). Non a caso le pubblicazioni editoriali della Tzadik, riflessioni sulla musica e sull’arte, sono raccolte in una collana intitolata Arcana. Tra le ispirazioni e le dediche dei suoi lavori vengono fuori anche i nomi di Kenneth Anger e Antonin Artaud, Rimbaud e Baudealaire, William Blake e William Borroughs, Marguerite Duras e August Strindberg, Maya Deren e Joseph Beuys solo per citarne alcuni.

Dalla demonologia e dalla passione per la numerologia e la Qabbalah, a partire dagli anni duemila Zorn intraprende anche una sorta di percorso spirituale e misterico attraverso il Moonchild Trio con Mike Patton e Trevor Dunn, pubblicando una serie di lavori di grande successo (come sempre quando Zorn si avvicina a una musica più codificabile o almeno più spendibile su un certo mercato). Streghe e maghi funzionano meno però in termini di ricerca lasciando qualche perplessità sia su un diffuso senso di pesantezza quanto soprattutto in termini di ripetitività delle opere.

Negli stessi anni, The Gnostic Trio con Carol Emanuel, Bill Frisell e Kenny Wollesen si contrappone alla furia iconoclasta del Moonchild realizzando uno degli episodi più fortunati dell’ultimo Zorn, creando attraverso vibrafoni, campane, arpe e chitarre altri mondi sospesi nel tempo come in un contraltare illuminato ed etereo alla discesa infernale del Moonchild.  È proprio con lo Gnostic Trio che Zorn realizza l’omaggio all’amico Lou Reed (sarà proprio Reed nel 2011 a introdurre Zorn nella Long Island Hall of Fame) che cinque anni prima aveva calcato insieme alla moglie il palco dello Stone per una serata d’improvvisazione raccolta poi nella serie The Stone: Issue. Lo Stone è il terzo capitolo della personalità zorniana dopo il ruolo di compositore/musicista e quello di imprenditore discografico con la Tzadik. Dal 2005, infatti, Zorn apre lo Stone, locale ad angolo, in Alphabet City diviso tra resident artists e musicisti di passaggio anch’esso regolato da precise disposizioni: la libertà assoluta di programma agli interpreti, ad esempio, cui vanno anche in maniera integrale gli incassi alla porta. Dieci anni dopo la fondazione della Tzadik, Zorn ha così crea così un altro spazio, stavolta fisico, di estrema libertà creativa e soprattutto di grande rispetto per la coerenza artistica di chi si esibisce.

Ancora, dagli anni novanta Zorn porta avanti il progetto dei Filmworks: in totale venticinque dischi di colonne sonore per film indipendenti su cui spicca come una gemma preziosa Trembling before G-d che accompagna il film omonimo in cui si racconta il difficile rapporto di alcuni ebrei omosessuali credenti all’interno delle comunità ortodosse. Disco di bellezza assoluta in cui spicca una perla pianistica à la Satie come Meshav, ma anche pezzi come Idalah-Abal sorretto da una tessitura corposa di organo e che ritroveremo anche nel progetto Electric Masada completamente trasfigurata a ricordare come l’opera di Zorn (un po’ come quella bachiana) sia da intendere soprattutto come partitura musicale che è possibile affidare a diverse interpretazioni e ovviamente a molteplici approcci strumentali.

Mentre gli ultimi lavori spaziano in altre aree d’interesse culturale dalla Commedia dell’Arte italiana al serial killer ante litteram del tredicesimo secolo Gilles de Rais, passando per Lord Byron a Hieronymus Bosch non si può di certo ignorare forse un ultimo e significativo aspetto della produzione zorniana, quello relativo alla musica classica. Fin dagli anni ottanta, infatti, John Zorn ha saputo distinguersi anche come compositore di musica colta pubblicando una serie di album con opere che si contraddistinguono per una vena ovviamente di grande modernità da Angelus Novus del 1988 passando per il quartetto d’archi Cat O’ Nine Tails affidato al Kronos Quartet (vero trait d’union della musica “altra” del novecento), le Variazioni sul Kol Nidre, Aporias: Requia for Piano and Orchestra o ancora Duras: Duchamp del 1997.

La natura classica di queste opere è la stessa che lo porta proprio oggi a Sarajevo nell’ambito della ventesima edizione del Sarajevo Jazz Fest, a presentare anche in Europa l’ultima creatura, Bagatelles Marathon, serie di composizioni atonali affidate a una pletora di musicisti che nella sua versione originale dura una decina di ore e qui sarà ridotta a circa quattro. Per l’occasione sono stati addirittura stampati dei francobolli commemorativi dal governo della Bosnia-Erzegovina.

Oggi, così come davanti alla mole dei festeggiamenti per i suoi sessant’anni, Zorn si schernisce e allontana il pericolo (per uno come lui) di un’istituzionalizzazione, sottolineando che sono le persone ad aver organizzato le celebrazioni e non gli enti in sé. Vero è che, fin dagli albori della sua carriera, John Zorn è stato al centro di una sorta di culto in misura certamente ridotta da parte di un pubblico attento ma in maniera molto più vasta da parte di un’ampia fascia di musicisti dei quali è stato mentore e impresario in un rapporto che Zorn ha sempre tenuto a definire di reciproco scambio. È un uomo di contraddizioni John Zorn che vive nello stesso appartamento di New York dal 1977 (e dove ha raccolto una collezione di dischi che occupa gran parte dell’abitazione) ed è assolutamente refrattario a concedere interviste alla stampa con la quale ha avuto spesso rapporti d’incomprensioni e scontro. Non a caso sul suo conto sono emerse, negli anni, tutta una serie di leggende come quando si diceva non avesse cucina per non avere distrazioni (sembra sia falso, almeno a sentire Mathieu Amalric, suo amico e tra i pochissimi ad avere il privilegio di poterlo filmare). Di là dalle leggende, sicuramente però Zorn ha sottoposto se stesso a una severa disciplina quasi ascetica, una vita fatta anche di rinunce, personali, familiari, affettive ma che, per sua stessa ammissione, si sono rese necessarie per perseguire gli obiettivi che gli sono sempre stati chiari.

Apertura e disciplina, regole e improvvisazione, serietà e ironia sono solo alcuni dei possibili contrasti sulla carta che si sciolgono nell’incontro con le sue musiche. Perché è difficile perfino parlare di una sola musica, non perché sia riduttivo ma perché non si coglierebbe appieno l’elemento principale della sua produzione artistica.

L’opera di Zorn richiama alla mente l’immensa torre di Babele. Per la vastità della sua produzione che conta centinaia di dischi, per il mondo musicale variegato che esprime, così come per l’infinita pletora di riferimenti culturali, non solo musicali, da cui trae ispirazione e a cui sono dedicate le sue opere. Ma anche, e non in maniera secondaria, per un’assoluta mancanza di limiti e umiltà, in grado di dar vita e spinta, sulla base di un’insaziabile sete di conoscenza musicale, culturale e trascendentale a una carriera che davvero non ha paragoni nella musica moderna.

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