Joyce Carol Oates: quando il sogno americano diventa un incubo

a cura di Sara Deon

“Dall’oscurità sono uscita, all’oscurità posso facilmente tornare.”
(Una famiglia americana, Joyce Carol Oates)

Una delle domande che gli scrittori si sentono rivolgere più spesso è quella su quanto ci sia di autobiografico nelle loro opere. Secondo autori del calibro di John Irving, si tratta di uno degli interrogativi più noiosi che ci siano. Se si fa riferimento a un buon romanzo, scrive nell’introduzione al suo best-seller Il Mondo secondo Garp, sia la domanda che la risposta sono irrilevanti. C’è invece una scrittrice americana per la quale questo interrogativo si fa più personale: Joyce Carol Oates, classe 1938, che con le sue oltre cento opere pubblicate (tra le quali 57 romanzi, 42 raccolte di racconti e numerosi saggi, opere teatrali, raccolte di poesia e libri per bambini) rappresenta una delle autrici più celebri e prolifiche del panorama letterario nordamericano. È stata insignita di numerosi premi letterari, tra i quali il National Book Award for Fiction e il Premio Fernanda Pivano, ed è stata inoltre finalista per il Premio Pulitzer. Il suo nome compare ciclicamente tra i favoriti vincitori del Premio Nobel per la Letteratura. Oltre a dedicarsi a tempo pieno alla scrittura, la Oates ha insegnato alla Princeton University dal ’78 al 2014, tenendo dei corsi e seminari di Scrittura Creativa.

In un articolo dell’81 intitolato Why is your writing so violent?, Joyce Carol Oates parla dei numerosi episodi in cui i suoi lettori le hanno domandato quale fosse l’origine autobiografica in grado di spiegare la violenza nelle sue opere, quale trauma personale nascondesse la sua scrittura. L’autrice ha interpretato questi interrogativi come tentativi di esaminare la sua vita privata, allo scopo di rintracciare quelle macchie nere che devono averne contaminato la prosa, fino a diventare una delle tematiche principali della sua intera produzione. Joyce Carol Oates racconta di aver più volte percepito, anche in maniera più sottile e indiretta, una critica implicita, per la quale sarebbe stato meglio se si fosse focalizzata su argomenti più domestici, alla stregua di Jane Austen o Virginia Woolf, lasciando il tema della violenza o i suoi filosofeggianti quesiti sulla morale ad altri. La convinzione sottesa è piuttosto chiara: non c’è nulla di femminile nella violenza.

Scrive: «Il territorio di un’artista donna dovrebbe essere quello soggettivo, domestico. Le è concesso essere “affascinante”, “deliziosa”, ”divertente”. I suoi modelli non dovrebbero essere Shakespeare o Dostoevskij, bensì una o più autrici femminili». La Oates mette le cose in chiaro: la sua scrittura non è esplicitamente violenta, ma più spesso le sue opere affrontano la violenza come fenomeno in sé, e con essa le sue conseguenze.

L’autrice mette in scena la povertà dell’America rurale e abbandonata, la Rust Belt della deindustrializzazione e del white trash, l’abuso sessuale, le tensioni razziali e i conflitti di classe, la smania di potere, e i suoi personaggi sono spesso ragazze e giovani donne. Nei suoi romanzi il Paese dell’American Dream ha perso il suo volto, si è trasfigurato: l’America della Oates è quella delle città post-industriali in rovina, dei vasti appezzamenti di terra abbandonati e dei cantieri industriali in affitto; è l’America delle piccole città squarciate dalle autostrade, dove la luce delle insegne a neon dei fast-food rimbalza sui finestrini delle auto in corsa.

Gli orrori e le violenze evocati dall’autrice si rivelano come specchio della vita reale, e lo fanno partendo dalle sue emanazioni quotidiane: l’invecchiamento, la malattia, i tradimenti, le perdite di familiari o cari. La realtà dell’autrice scuote il lettore nelle sue forme più umane, ordinarie. L’autrice si riappropria del contesto familiare, ben lontano, però, dall’evocare il fantomatico e vivace focolaio domestico, ma avvalendosi piuttosto di questa ambientazione come canale dove la violenza fluisce e cresce fuori controllo.

La letteratura americana contemporanea ha dissacrato a più riprese il mito della famiglia nucleare, ne ha denunciate le ipocrisie borghesi e senza futuro, il falso perbenismo che serpeggia nei vicinati, le morbosità dei genitori passate di generazione in generazione come un virus. In questo quadro socio-letterario, i principali esponenti di tale operazione di de-santificazione sono stati soprattutto autori maschili: tra i più annoverati ci sono Philip Roth in Pastorale Americana, Jonathan Franzen ne Le Correzioni, Richard Yates in Revolutionary Road e Jeffrey Eugenides in Le Vergini Suicide. Se in questi romanzi a innescare la disfatta familiare erano la privazione di libertà, l’irriducibile banalità borghese che vanifica qualsiasi lotta idealistica, l’insofferenza calcificata tra padri e figli, laddove i figli decidono di imboccare strade che i genitori non possono comprendere, la Oates mette in atto un’operazione differente. Nelle sue opere, infatti, il crollo dei legami familiari è spesso innescato da un atto di violenza, la cui fonte è frequentemente esterna ma che dissesta il nucleo familiare.

Ci sono due romanzi dove l’autrice racconta il declino di una famiglia in seguito a un feroce atto di violenza. Il primo, pubblicato negli Stati Uniti nel 1979, è Stupro: Una storia d’amore (per Bompiani con la traduzione di R. Serù, 2004), e il secondo – e uno dei suoi romanzi più celebri in Italia – è Una famiglia Americana (titolo originale We were the Mulvaneys), pubblicato originariamente nel 1996, e uscito in Italia nel 2014 grazie al Saggiatore nella traduzione di V. Curtoni. I due romanzi sono accomunati sia dalla tematica familiare, sia dall’evento che scatenerà il disfacimento del nucleo: lo stupro. Nonostante il tema comune, l’autrice tratta la tematica della violenza sessuale con un approccio differente nei due romanzi.

In Stupro: una storia d’amore, dal titolo volutamente provocatorio (e altrettanto volutamente fuorviante), la Oates racconta un fatto di cronaca che ha luogo nei primi minuti dopo la mezzanotte del 5 luglio 1996, la notte successiva all’Indipendence Day: una delle ricorrenze più americane che ci siano. Teena Maguire, vedova appena trentacinquenne, sta attraversando il parco di Niagara Falls con la figlia dodicenne Beethie; è da poco scoccata la mezzanotte e le feste private si sono trasferite lungo le strade, c’è un clima allegro e altamente etilico. Mentre le due protagoniste stanno attraversando il parco, vengono approcciate da una banda di giovani che si chiude loro intorno, non permettendo la fuga. Il branco le aggredisce violentemente, e la violenza culmina in uno stupro di gruppo che ha come vittima Teena, mentre sua figlia riesce a nascondersi, pur dovendo assistere alla violenza. Teena viene abbandonata in una pozza di sangue a morire, e viene mantenuta in vita per diversi giorni in coma farmacologico. Una volta svegliata, deve affrontare un doppio processo: il primo è quello che si svolge nell’aula del tribunale, dove dopo il riconoscimento facciale porta al banco degli imputati i ragazzi che l’hanno violentata, e il secondo è quello mediatico, quello del vicinato, quello dello stesso avvocato della difesa e del giudice, quello che si propaga tra le malelingue della giuria come un’epidemia: «Se l’era andata a cercare» (da cui prende il nome anche il primo capitolo del libro). Era in stato d’ebrezza, era rinomatamente una donna facile, erano rapporti consensuali e quella avida ha chiesto pure di essere pagata, è una madre vergognosa, è una puttana. Nel corso della narrazione, si fa sempre riferimento allo stupro con questa espressione, l’autrice non si fa remore sul fornire dettagli espliciti sulla violenza subita sia nel corpo che nella psiche di Teena, ma affronta anche le ripercussioni del crimine sulla figlia, sulla madre, sul suo compagno.

Il secondo, Una famiglia americana, è un romanzo più tradizionalmente familiare. L’autrice presenta i Mulvaney: un clan – come si autodefiniscono loro – composto da Michael Sr., Corinne, e i figli Michael Jr, Patrick, Marianne e Judd. A Mount Ephraim, piccola località a nord di New York, i Mulvaney sono ammirati da tutti come la famiglia modello, l’ideale da cartolina dell’American Family: vivono in una fattoria a tre piani, circondati da animali, in quello che sembra una sorta di Eden. Michael Mulvaney Sr. è la personificazione del sogno americano, grazie alla sua dedizione e al duro lavoro è passato dal non avere nulla all’essere a capo di un’attività di successo che si occupa di riparazione e costruzione tetti; la moglie, Corinne, è una giovane donna dallo sguardo vispo ed è bella, nonostante porti sempre stivali e salopette sporchi di fango e polvere per i lavori alla fattoria. C’è poi il primogenito (Michael Jr), ex stella della squadra di football del liceo, e Patrick, che viene nominato valedictorian per i suoi meriti accademici, Judd è invece il figlio più piccolo, soprannominato Ranger per il suo carattere avventuriero. Infine c’è Marianne, l’unica figlia, bellezza acqua e sapone e fervente devota cristiana, così gentile e altruista nei confronti degli altri da sembrare uscita da una parabola biblica. Come avviene in Stupro: una storia d’amore, sempre in una sera di festa – San Valentino, 1976 – avviene quella cosa, come la chiameranno spesso i membri maschili dei Mulvaney. Quella sera, infatti, Marianne viene violentata da un suo compagno di scuola, e la violenza esplode con una forza che, gradualmente, travolgerà l’intero assetto familiare.

Qui emerge la capacità dell’autrice di rivelare gli orrori dello stupro sotto una lente ampia, dalla sensibilità più universale: Una famiglia americana è postumo di quasi vent’anni rispetto a Stupro: una storia d’amore, eppure si ha quasi l’impressione che questi due romanzi siano in comunicazione fra loro. Se infatti Teena è una donna avvenente, che veste abiti succinti e a cui piace flirtare, Marianne è qui tratteggiata come una ragazzina pia, sempre sobria nei comportamenti, che preferisce parlare di Dio e della sua Fede. E il messaggio che lancia l’autrice è lo stesso: può capitare a chiunque. È capitato a Teena, è capitato a Marianne, e potrebbe capitare a chiunque altro; non ha nulla a che vedere con i loro comportamenti, o con le loro personalità.

Lo stile e il linguaggio delle due opere sono molto differenti. In quest’ultimo romanzo, l’impianto è molto vicino a quello di una fiaba moderna: c’è una situazione di equilibrio iniziale in una sorta di locus amoenus, ma poi accade un evento funesto al quale seguono le diverse peripezie che dovrà affrontare l’eroe (qui non è uno, ma l’intero clan dei Mulvaney). In Stupro: una storia d’amore la lingua dell’autrice è esplicita, diretta; in Una famiglia americana, la violenza sessuale è un trauma a cui non si può dare l’esatta nomenclatura, diventa allora abuso, violenza sessuale, quella cosa. Scrive la Oates: «Quali parole venivano pronunciate? Io ricordo abuso, violenza, approfittare di, fare del male. Parole che sentii, o captai di nascosto, per quanto nemmeno queste venissero pronunciate apertamente, come non si poteva parlare direttamente di cancro, di morte». Non c’è un processo in tribunale, tuttavia si ripropone anche qui, come nel romanzo precedente, il processo sociale, e allora non pronunciare quella parola rende la violenza più nebulosa, non le permette di assumere forma concreta.

In entrambe le opere, per l’autrice non è necessario ricorrere alla retorica per rispecchiare l’orrore della violenza sessuale: anche laddove si riferisce all’episodio implicitamente (in Una famiglia americana), le conseguenze del trauma subito dalle protagoniste vengono narrate di bocca in bocca, partendo da Teena e Marianne fino ad arrivare ai loro famigliari o ai loro cari. La Oates dà loro voce, rendendo impossibile al lettore restare indifferente, non sentirsi parte del nucleo familiare, non desiderare che sia fatta giustizia.

Cruciale è la conclusione di entrambi i libri, dove in seguito alla disgregazione del nucleo si raggiunge il momento della catarsi: questo sgretolamento muta forma, lascia il posto a una riconciliazione sia personale che interpersonale. Come la tragedia può colpire chiunque, l’autrice suggerisce che sia possibile anche trovare la pace. E questo è l’augurio che Joyce Carol Oates fa a tutte le Teena, e alle Marianne, e con loro a tutte le altre donne.

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