Kabi Nagata parla a Kabi Nagata

Non so se c’è qualcosa di terapeutico o consolatorio nel mettersi a nudo; qualcosa di altamente egoriferito e d’altra parte anche di profonda fiducia verso l’altro. Kabi Nagata torna al suo pubblico di nuovi e vecchi lettori dopo il successo di La mia prima volta. My lesbian experience with loneliness con una raccolta di Lettere a me stessa – piccoli episodi di vita che prosegue, inciampa, rovina e poi in qualche modo si rialza –, nell’edizione italiana raccolte in un unico massiccio volume pubblicato da Jpop.

Le lettere riprendono da dove la trentenne mangaka giapponese ci aveva lasciati col suo precedente volume, portandoci nella dimensione del diario, quindi frammentata, spezzata e paradossalmente quasi più dolorosa. Se infatti ne La mia prima volta Nagata raccontava con profonda sincerità la decisione di avere il suo primo rapporto sessuale all’età di ventotto anni con una sex worker e tutto il percorso impervio di vita che l’aveva condotta a questa scelta, salutandoci con la soddisfazione di chi aveva appena afferrato una verità e fissato dei punti di riferimento; in Lettere a me stessa ci riporta di fronte alla pungente realtà che la vita, nel bene e nel male, non si ferma.

Lettere a me stessa.

Kabi Nagata parla a sé stessa, tenendo in mano una matita e con l’altra le redini di un’esistenza da tenere in salvo. Torna a parlare della solitudine, dell’essere giovani adulti in un Giappone che non fa sconti a nessuno, della difficoltà di trovare affetti ed essere in grado di saperli corrispondere; delle aspettative in famiglia e delle ondate di depressione che tornano a un ritmo cronicizzato, come una marea regolare che toglie il respiro. Dietro disegni dal tratto dolce, sfondi a pois rosa, e un tono sempre autoironico, quelle che si levano dalle pagine sono lame affilate che colpiscono dove devono colpire e prima di qualsiasi forma di empatia ci suggeriscono una sensazione di ingiustizia, perché semplicemente è ingiusto che qualcuno stia così male.

La fumettista però non ne fa mai una riflessione sistemica, se non nelle ultime pagine di un episodio extra di pura finzione dove i nemici portano maschere con su scritto la parola “società”. D’altro canto il focus su di sé è dichiarato, intuibile già da titoli e pronomi: Nagata si limita a renderci partecipi di un percorso inviolabile e individuale di costruzione di un’identità e protezione della stessa attraverso la resa su carta. Come nella migliore tradizioni della storia dell’essere umano, il diario diventa riparo – in un momento in cui manca la giusta scintilla per creare storie nuove – e arma a doppio taglio in cui si è costretti a fare i conti con le proprie azioni, i propri pensieri, il proprio sentire. Laddove si crede che la perdita della “verginità” basti si ci ritrova di nuovo desiderosi di un abbraccio figlio di un sentimento sincero; il legame materno al limite della dipendenza si scontra con l’atavico istinto al non negarsi pur di soddisfare le felicità altrui.

La mia prima volta.

Fissarsi sulla pagina vuol dire dire dirsi “io sono questa” al di là degli insuccessi, della patologia depressiva, delle aspettative sociali. Vuol dire affermarsi di fronte al mondo e con la più grande delle fatiche anche davanti ai propri occhi, come un essere umano fatto di slanci e voglia di fare, ma anche fragilità e bisogni. Bisogni materiali – una casa in cui costruire un’indipendenza, soldi a sufficienza per potersi mantenere –, ma anche fisici. La soggettività di Kabi Nagata si compone infatti costantemente attraverso esperienze corporali, dall’autolesionismo e i disturbi alimentari prima, dal desiderio sessuale e la banale ma tardiva scoperta di come si è fatti a livello anatomico poi. Il suo corpo vive con lei come presenza nel mondo oltre qualsiasi volontà della mente di annullarsi, diventando muro su cui scagliarsi ma anche entità da nutrire e di cui avere cura. Le cui reazioni inaspettate, come il bagnarsi a letto durante i giorni di ripiego nell’alcol, sono un campanello di allarme che costringe ad ascoltare e ascoltarsi.

Lettere a me stessa

È inevitabile affezionarsi all’autrice, che per la maggior parte dei lettori sarà anche coetanea e vicina di sventure; ma difficilmente si vive un rispecchiamento, o d’altra parte un sentimento di pietismo. Perché il suo io è vivo e queste pagine sono la sua testimonianza e quindi la sua resistenza, oltre il dolore e la ricerca faticosa di un modo per tenersi insieme.

Exit mobile version