Sex, money, murder | I demoni di Kendrick Lamar

Cinque anni sono un periodo lunghissimo nella vita di una persona. Gli ultimi due anni poi hanno accelerato e distorto ancora di più la percezione del tempo e della complessità del mondo. DAMN è uscito nel 2017 e ripensandoci sembra passata una vita; di sicuro il mondo era un posto meno ostile. Da DAMN sono passati 1855 giorni, ci ricorda Kendrick Lamar, nelle sue parole è diventato più vecchio, he’s gone through something, ha maturato una prospettiva che, ci avverte in The Heart pt. 5, potrebbe essere diversa dalla nostra.

Tutte le analisi di Mr. Morale & The Big Steppers parlano di un lavoro complesso, di ampio respiro, fino a evidenziarne una certa disorganicità (o troppa ambizione). Da un punto di vista musicale è certamente così. Alcuni dei pezzi sono disorientanti, quasi degli spoken word su basi anche dissonanti, più slam poetry che rap (United in Grief, Worldwide Steppers, We Cry Together, Rich-Interlude); altri si avvicinando alla trap (N95 o Silent Hill), altri ancora vanno verso l’R&B alla Drake (Die Hard, Savior, Mirror). Come sempre, molti registri, anche vocali, differenti. A differenza degli altri dischi, però, la sperimentazione formale sembra avere uno spazio maggiore. Father Time è forse l’unico pezzo che può guardare a una DUCKWORTH o una Good Kid in termini di produzione rap classica. Prendendo in prestito l’inizio proprio di DUCKWORTH, dividiamo la nostra analisi in due parti: Kendrick contro il mondo; Kendrick contro sé stesso.

It was always me vs the world

Kenrick Lamar è un genio. Un grande scrittore. Il miglior rapper di questi anni. La sua Alright è diventata negli anni l’inno del movimento Black Lives Matter. I suoi dischi sono, specialmente per il pubblico bianco, come scrive Charles Holmes su The Ringer, a cheat code to understand blackness (e per pompare in palestra). I suoi testi si studiano a scuola e su di lui vengono scritti libri. Il Pulitzer. La sua immagine pubblica è quella di una sorta di santone, di maestro zen sempre nel giusto (quella vaga somiglianza con un altro cyborg infallibile come Kawhi Leonard nella copertina di Mr. Morale la vedo solo io?), sempre in controllo. Non che lui non ci abbia mai tenuto: d’altra parte, si è estensivamente raccontato come il good kid in una maad city, una sorta di predestinato, di superstite. Non è raro trovare nei suoi testi allusioni al suo stato di migliore rapper in circolazione: King Kendrick Lamar in Compton, the greatest rapper in DUCKWORTH ma anche in HUMBLE. Il titolo di king ribadito anche in DNA (I got royalty inside my DNA), I e King Kunta, laddove status e storia afroamericana si intrecciano. Liberazione, emancipazione, pubblico e privato. Kendrick che ora si fa chiamare Oklama, che come ci dice Femi Olutade del podcast Dissect, nell’idioma degli indigeni Choctaw significa “alla mia gente” ed è la formula usata dai profeti nelle traduzioni della Bibbia in quella lingua. All’inizio del video di The Heart pt. 5 compare la scritta I am. All of us.

 

Nella copertina del suo ultimo disco indossa una corona di qualche metallo prezioso. È ancora il re, è ancora un giusto, primus inter pares. In un altro scatto promozionale per il disco però è abbandonato su una poltrona, la faccia stremata, la corona che quasi gli cade dalla testa. In Crown, undicesima canzone del doppio album, cita l’Enrico IV di Shakespeare e il Vangelo di Luca: Heavy is the head that chose to wear the crown / To whom is given much is required now. La corona è anche simbolo di fallibilità, di umanità, sofferenza. Avere una responsabilità storica, politica, essere considerato una specie di spirito guida è pesante, non vale la pena, non gli interessa, non gli è mai interessato. Il rapporto con l’immagine pubblica che gli è stata costruita addosso, e il suo rifiuto di assecondarla, è uno dei temi principali del disco. Un lavoro che a questo proposito è stato definito heel turn, prendendo a prestito un termine del wrestling che si usa quando un personaggio da buono diventa cattivo. Kendrick dissemina i testi di dichiarazioni in cui vuole demolire il suo mito. Nella stessa Crown dice di non potere soddisfare tutti; in Savior ripete di non essere il salvatore di nessuno (così come lo dice di altre figure come Future, J Cole e LeBron). In Rich Spirit parla delle aspettative sbagliate che si ripongono sulle celebrità (celebrity don’t mean integrity / you fool); in Mirror ripete che non può fingere per compiacere le aspettative (I can’t live in the Matrix / rather fall short of your graces). Nello stesso pezzo sembra rispondere alle accuse (forse) rivoltegli dalla rapper Noname durante le proteste per l’omicidio di George Floyd nel 2020: accuse di non essere abbastanza vocal, di non essersi esposto (she even called me names on the post / the world can see it); accuse che rispedisce al mittente anche in Savior (meditating in silence made you wanna tell on me). A chi si aspettava una qualche presa di posizione forte, pubblica, da leader, Kendrick risponde con la meditazione e il silenzio. D’altronde, come dice in United in Grief, I grieve different.

 

Anzi, è proprio una certa forma di attivismo, quello dei fake deep, fake woke, I’m broke I care (in N95), a lasciarlo indifferente (a essere neutrali). Quelli che in Family Ties del cugino Baby Keem chiama overnight activists. Sempre in Savior, sembra criticare alcuni aspetti del fenomeno #Blackout Tuesday, nello specifico quello di pubblicare sfondi neri su Instagram come gesto di solidarietà (even blacked out screens and called it solidarity). In generale, nel disco sembra ci sia una rivendicazione da parte sua di un’indipendenza di pensiero, di una modalità personale di essere attivisti, di fare politica, poco instagrammabile e poco adatta al suo status di guru: I grieve different, o ancora in Family Ties, I’m not a trending topic. Nella conclusiva Mirror, d’altronde, ammette questa discrepanza (Sorry I didn’t save the world my friend / I was too busy building mine again). Il conflitto tra pubblico e privato che, come vedremo, sono due risvolti della stessa identica cosa.

 

Un altro bersaglio dell’insofferenza di Kendrick nel disco è la cosiddetta cancel culture, concetto che viene nominato per la prima volta in N95 (what the fuck is cancel culture dawg / say what you want about you niggas I’m like Oprah dawg). Nella successiva Worldwide Steppers trova spazio il suo pensiero: niggas killed freedom of speech, everyone sensitive / if your opinion fuck ‘round and leak, might as well send your will / the industry has killed the creators I’ll be the first to say. Ancora, le conseguenze del politicamente corretto sono per Kendrick la paura di esprimersi creativamente, e quindi una deprimente uniformità nella scena rap attuale. In Savior: bite their tongues in rap lyrics / scared to be crucified about a song but they won’t admit it / politically correct is how you keep an opinion / niggas is tight-lipped, fuck who dare to be different. Naturalmente questa presa di posizione è tra le cose che stanno facendo più discutere nel disco; il tema della cancel culture, specialmente nell’industria dell’intrattenimento, sembrerebbe forse essere più uno spauracchio che una cosa reale. L’ospite più frequente nel disco, ad esempio, è Kodak Black, rapper tra le altre cose accusato di stupro e dichiaratosi colpevole di aggressione e percosse nei confronti di una ragazza di 18 anni, passibilissimo di cancellazione, eppure non propriamente uno che se la passa male in termini discografici. Anche sull’impiego di Kodak Black, che a molti ha ricordato quello di Marylin Manson e DaBaby in Donda, si sono scatenate prevedibili polemiche. Tornando al finto attivismo, in Savior troviamo il verso like when they pro-Black / but I’m more Kodak Black. Troviamo qui l’indignazione e l’attivismo a comando, lo scegliersi le cause “giuste” e tralasciare quelle perse. Se Kodak nel disco sia provocazione, indice di scarsa sensibilità, cattivo gusto o un tentativo di redenzione è ciò che ci si chiede in giro; di certo vi è un’identificazione tra Kendrick e Kodak dovuta alle difficoltà di crescere in determinati contesti e nell’assimilazione di pattern comportamentali violenti e offensivi. Nelle parole di Kodak in Rich (Interlude), nigga play with me, he ain’t gon’ live to tell the story / you know this type of shit we glorify, everybody gang-gang / most of the people that you grew up are now in the chain gang. This type of shit, la misoginia, i soldi, la violenza, il flex, sex money murder (in DNA) L’essere un big stepper, nel ritratto fornito da Roddy Ricch nella canzone omonima.

 

La culture, che Kendrick descrive in The Heart pt. 5 come un concentrato di violenza, e da cui si allontana in Mirror (run away from the culture to follow my heart). Potrebbe allora essere possibile interpretare Kodak come una sorta di alter ego di Kendrick, come un big stepper all’inizio di un proprio percorso di accettazione e riconsiderazione di alcuni traumi. Perché come vedremo nella seconda parte, forse il tema principale di questo disco è proprio la fuga dalla culture intesa come generational curse, come insieme di traumi storici, familiari e personali che una volta sedimentati portano ad essere dei big steppers, individui violenti che perpetuano un insieme di comportamenti tossici. Se interpretiamo Mr. Morale come un soprannome legato alla percezione pubblica di Kendrick come autorità morale sui fatti del mondo, come ipotizza Andre Gee su Complex, allora nel disco sembra voler dire al mondo che lui piuttosto è (o perlomeno, come vedremo, era) un big stepper con la pistola sempre pronta (come nella copertina), sempre pronto a fare del male al suo prossimo, anche senza rendersene conto.

Until I found it’s me vs me

Si perché il termine big stepper, oltre a quello discusso sopra, potrebbe anche avere un altro significato. Una delle costanti del disco è il suono di piedi che sbattono sul pavimento, quasi in un tip tap. Lo si sente in molte canzoni, in più momenti. In We Cry Together Whitney Alford, (ex?) compagna di Kendrick e voce narrante del disco, gli dice di smettere di tap dancing around the conversation. Smettila di girarci intorno. Affronta i tuoi problemi. Un big stepper è colui che maschera e copre le sue insicurezze, i suoi traumi e la sua vergogna con i soldi, le sostanze, il sesso, i comportamenti tossici perché non è in grado di elaborare. A questo punto Whitney consiglia a Kendrick di andare in terapia (in Father Time). Tutto il disco allora potrebbe configurarsi come una sequenza di sessioni di terapia in cui piano piano Kendrick Lamar passa dall’essere un big stepper all’essere Mr. Morale, ovvero un uomo più consapevole, più centrato e attento ai bisogni di chi gli sta intorno (I wanna see the family stronger / I wanna see the money longer in Die Hard). Tornando a Father Time, la reazione di Kendrick al consiglio di sua moglie è real niggas don’t need no therapy: ecco che torna, con una citazione delle leggende di Compton, gli NWA, il tema del big steppin. Non serve parlare, mettersi in discussione, un real nigga non ne ha bisogno.

 

Nella canzone si capisce presto il motivo: Kendrick non riesce ad aprirsi, la sua interiorità è bottled up (chiaro riferimento all’alcolismo, conseguenza di questa chiusura, come in Swimming Pools) per via di un fattore ereditario. Daddy issues li chiama lui, ha imparato da suo padre a mostrarsi duro, a non perdere tempo in futili piagnistei: daddy issues, hid my emotions, never expressed myself / men should never show feelings, being sensitive never helped. Durante la canzone, però, Kendrick si rende conto di avere bisogno di aiuto: comicamente, la consapevolezza arriva quando scopre che Ye e Drake hanno fatto pace e lui ne rimane sorpreso (when Kanye got back with Drake I was slightly confused): secondo il sistema di valori che ha ereditato (egotistic, zero given fucks) quella cosa non sarebbe dovuta succedere, non era contemplata. Non c’è spazio per il perdono. Ecco che arriva il primo momento di consapevolezza: I need assistance with the way I was brought up. The way I was brought up è ciò che Kendrick chiama generational curse, ovvero un sistema di comportamenti, atteggiamenti, violenze che si perpetua per generazioni e con cui è impossibile convivere se non adottandolo a sua volta.

 

Il sentirsi vittima di un passato atroce (e torniamo alla strofa di Kodak Black in Rich-Interlude, ma anche a Sing About Me, I’m Dying of Thirst), il senso di vergogna per non aver reagito alle violenze, i traumi che non riescono a rimarginarsi. Nelle parole di Eckhart Tolle, controverso guru e riferimento spirituale di Kendrick, in Savior (Interlude), if you derive your sense of identity from being a victim. Let’s say, bad things were done to you when you were a child. L’ipotetica è lasciata a metà, seguita da un altro racconto traumatico, stavolta da parte di Baby Keem, cosa che mette in comunicazione diretta i due interludes come base di partenza della terapia. Le conseguenze di questo passato traumatico e dell’incapacità di superarlo sono molteplici. In We Cry Together assistiamo alla messa in scena di un litigio tra Kendrick e una partner (interpretata dall’attrice Taylour Paige): un insieme di linguaggio offensivo, dinamiche tossiche di potere e problemi lasciati irrisolti. Paige accusa lui (e le sue insicurezze) di essere la motivazione per una società patriarcale, per l’ascesa di personaggi come Trump, Weinstein e R. Kelly. Questi argomenti però vengono alla fine lasciati cadere, il litigio si tramuta in una scopata riparatrice, si continua a fare tap-dance intorno alla conversazione. Se il primo disco, chiamato non a caso Big Steppers, corrisponde all’enunciazione dei problemi, alle prime sedute di terapia di Kendrick, il secondo invece potrebbe rappresentare il suo percorso nel diventare Mr. Morale. La prima traccia del secondo disco (e decima dell’intero lavoro), Count me Out, inizia con la psicologa che fa partire la decima sessione, dove accade il primo breakthrough, il primo momento di autoconsapevolezza. This is me and I’m blessed è la conclusione a cui arriva Kendrick dopo aver capito di avere sempre compiaciuto gli altri e mai sé stesso. Questa frase ripetuta quasi come un mantra, canticchiata come un motivetto, è forse il primo passo verso l’accettazione del proprio trauma.

 

Un altro aspetto affrontato da Kendrick in questo percorso è il disimparare tutto un linguaggio omofobo e offensivo, come racconta in Auntie Diaries, canzone sulla transizione di due suoi parenti. Nel pezzo Kendrick racconta di un suo zio che ha compiuto la transizione da donna a uomo e di una sua cugina che ha invece intrapreso il percorso inverso. Tutta la canzone è il racconto di una presa di consapevolezza da parte di Kendrick che inizialmente, pur provando rispetto e ammirazione per loro, non può fare a meno di fare misgendering o deadnaming o di usare l’epiteto faggot (faggot faggot faggot we didn’t know no better). A poco a poco, in seguito a una discussione con la cugina, capisce che il suo utilizzo della parola faggot ha su di lei lo stesso effetto che ha per lui l’uso della parola nigga da parte di una donna bianca (in riferimento a una cosa realmente accaduta a un suo concerto). Sono termini offensivi, denigratori, in ogni caso hanno molto potenti: o li si usa entrambi, sdoganandoli dalla loro forza insultante, o non li si usa per niente (le due posizioni sono, rispettivamente, quelle di Jay Z e Oprah in un famoso dibattito di qualche anno fa). A lui era stato insegnato che la cosiddetta F-bomb non era altro che uno scherzo innocuo (comedic relief), che le parole sono solo puro suono. L’esempio collegato all’uso della parola nigga lo fa invece tornare sui suoi passi e capirne la portata. La canzone ha molto diviso il pubblico, tra chi ne ha criticato il linguaggio omofobo e chi invece lo considera parte della rappresentazione di un Kendrick adolescente e inconsapevole.

 

La riflessione più articolata sulla potenza del generational curse e sulla difficoltà di rompere questo loop di violenza, trauma e vergogna, proviene da Mother I Sober. Kendrick racconta inizialmente di come, a cinque anni, abbia assistito a un atto di violenza nei confronti della madre, ma di come non sia riuscito a intervenire. Da qui il senso di colpa, e un senso di responsabilità portato all’estremo (e torniamo al Kendrick leader, stanco portatore della corona). Successivamente, ci racconta di come la madre, vittima di violenza a sua volta, sospettasse che Kendrick fosse stato abusato sessualmente da un cugino. La cosa non era vera, ma il continuo sospetto della madre lo fa dubitare della veridicità della sua risposta. Ancora, violenze e traumi passati che si trasmettono di generazione in generazione condizionando l’identità. Il senso di colpa, il dolore rendono necessari dei coping mechanisms, dei modi per lasciarli fuori dalla porta dell’interiorità. Ecco qui allora l’alcool, la droga, i soldi, tutto ciò che si identifica con la figura del big stepper, perché è da sobri che il dolore si presenta più forte (blame myself, you never feel guilt ‘til you felt it sober). Kendrick si è sempre ritratto come una specie di straight edge in un contesto di dipendenze (la figura del good kid, la canzone The Art of Peer Pressure), ma il suo personale coping mechanism è una dipendenza dal sesso, cosa che lo ha portato, sembrerebbe, a perdere anche Whitney, con cui era legato fin dall’adolescenza. Ne aveva parlato già in LUST su DAMN, ma in questo disco gli accenni sono molteplici: l’insicurezza legata al sospetto di essere stato vittima di abusi lo ha portato ad essere dipendente dal sesso. Intoxicated, there’s a lustful nature that I failed to mention / insecurities that I project, sleeping with other women, o ancora più avanti, seven years of tour chasing manhood. Come scrive Marcus J. Moore su NPR, non è il trauma in sé a essere doloroso, ma il fatto di riportarlo alla luce (twenty years later the trauma has resurfaced / amplified as I write this song, I shiver ‘cause I’m nervous).

 

Sono molti i rapper con un passato di abusi. In Mr. Morale Kendrick si chiede se R. Kelly, anche lui vittima di molestie, si sarebbe comportato diversamente se non avesse subito violenza. Il trauma della violenza e il senso di colpa e di vergogna che ne deriva è per Kendrick endemico, una maledizione che si tramanda nelle famiglie fin dai tempi della schiavitù (they raped our mothers, then they raped our sisters / then they made us watch, then made us rape each other / psychotic torture between our lives we ain’t recover). I meccanismi per affrontarlo (o ignorarlo) sono chains and tattoos, ma anche il perpetuare la violenza a sua volta (If I kill a nigga it won’t be the alcohol), le varie dipendenze. Il tema della continuazione di questo ciclo è affrontato anche in Mr. Morale, dove ancora Eckhart Tolle dice che questi traumi (da lui chiamati pain bodies) ha bisogno di alimentarsi continuamente di negatività, di altra violenza: ecco così una possibile chiave di lettura (che non è giustificazione) per i comportamenti tossici, offensivi e violenti, per Kodak Black e R. Kelly (learn how we cope). La terapia, il superare i propri demons (parola usatissima nel disco) e i daddy issues, la spiritualità, anche il silenzio quando tutti si aspettavano che parlasse: queste le soluzioni in cui si è rifugiato Kendrick, e che ci racconta lungo tutto il disco Alla fine di Mother I Sober, Whitney si congratula con Kendrick: you broke a generational curse. Sembrerebbe che sia riuscito a uscire dal loop, ad abbandonare gli aspetti più nocivi dell’essere un big stepper per trasformarsi alla fine in Mr. Morale. Thank you daddy, thank you mommy, thank you brother. La famiglia sembra essere salva. A salvare gli altri non può pensarci (più) lui.


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