L’ARRIVO DI WANG – la fantascienza da camera dei Manetti Bros

l'arrivo di wang

A pensarci bene la fantascienza col cinema italiano contemporaneo c’entra ben poco e gli adepti del maestro Mario Bava non hanno mai avuto vita facile. Ma quando si è al cospetto di due cineasti come i fratelli Manetti ci si può aspettare di tutto, persino una pellicola come “L’arrivo di Wang”; un fantasy atipico, una fantascienza da camera perché la storia in questione si svolge quasi interamente in un unico ambiente con i tre protagonisti a delineare il percorso narrativo con vittima, carnefice e intermediario. La strana storia vede un’interprete di cinese chiamata all’improvviso per un lavoro piuttosto anomalo: viene prelevata sotto casa e scortata da individui che lavorano per il Governo in un luogo che deve rimanere a lei sconosciuto e infatti lungo il tragitto viene bendata. Una volta a destinazione la ragazza viene introdotta in una stanza totalmente buia e le viene detto che da quel momento il suo compito sarà di porre in cinese alcune domande a un interlocutore che non potrà vedere per motivi di sicurezza, e naturalmente di tradurre le risposte che questi le darà. Tra l’ansia e la tensione crescenti per i contorni violenti e disumani che prende quello che si rivela essere un vero e proprio interrogatorio e i colpi di scena che cominciano quando si palesano le sembianze del misterioso recluso, la storia prende una piega decisamente inaspettata con risvolti apocalittici.

Con un budget di poco superiore ai 500 mila euro “L’arrivo di Wang” è una pellicola a cui non è stata risparmiata una buona dose di effetti speciali, funzionali però ad una trama che anzi in molti punti rallenta il ritmo portando all’esasperazione i momenti di dialogo che si svolgono durante l’interrogatorio; scelta azzardata e poco popolare anche quella di prolungare forse eccessivamente la scena in questione tenendo conto della presenza dei sottotitoli durante gli scambi in cinese. Intenzione dei registi era quella di utilizzare la storia fantascientifica per arrivare a raccontare la realtà contemporanea, il pregiudizio nella società moderna in molti casi pieno di contraddizioni e di luoghi comuni a doppio senso: colui che è considerato “diverso” o minoranza non è scontato debba esser buono per forza di cose, e allo stesso tempo non è detto che chi indossa una divisa debba necessariamente essere il cattivo di turno. I fratelli Manetti sono tra i registi più originali e capaci che si trovano oggi in Italia, e lo hanno già dimostrato all’esordio con lo spassoso “Zora la vampira” divenuto ormai un cult, e successivamente con il poco pubblicizzato ma a mio parere interessante e magnificamente girato “Piano 17”. Tra centinaia di videoclip musicali e regie di fiction televisive come l’apprezzato “L’Ispettore Coliandro” la loro carriera va avanti da oltre 15 anni con scelte lavorative contraddistinte da un’assenza quasi totale di compromessi col mercato e con una distanza ben marcata dal cinema convenzionale e dai classici circuiti distributivi che infatti non gli hanno consentito di avere il successo che meritano. In attesa del prossimo film, ora in post-produzione, intitolato “L’ombra dell’orco” e ispirato alla vicenda della ragazza austriaca tenuta prigioniera per dieci anni, consiglio di cercarvi le prime opere dei Manetti, corti compresi così da rendervi conto della loro qualità e originalità.


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