L’occasione di Juan José Saer

Qualche giorno fa in una piccola libreria la signora che la gestisce mi ha detto di avere iniziato a leggere L’occasione di Juan José Saer e di come le fosse sembrato di fluttuare e nuotare in mare grazie alla scrittura dell’autore argentino santafesino. Senza volerlo mi ha fatto rendere conto di come leggere Saer abbia qualcosa che somiglia a nuotare. Non si fa nessuno sforzo a leggerlo, a patto che tu conosca le istruzioni: muovere le braccia impulsivamente come si muovono le pagine del libro, rinfrescare la testa nella calda increspatura dell’acqua, delle parole, planare sulle onde come dentro ai personaggi. Tuttavia non parliamo dello stesso genere di sensazione fisica che ti lasciano addosso le ampie nuotate a braccia delle pagine di John Cheever: Saer appare dentro l’acqua in punti diversi, disorienta senza che sia possibile tracciarne il percorso; com’è arrivato da un punto all’altro, e in che modo ci ha trascinato il lettore?

L’occasione è l’ultimo dei libri di Juan José Saer uscito per La nuova frontiera (tradotto da Gina Maneri), e ha una copertina in cui è facile acciuffare questa sensazione di leggerezza aerobica e scorrevole: distese verdi modulate da venticelli tiepidi, un cielo azzurro che ti si butta addosso. La storia invece è una sabbia mobile capace di risucchiare il lettore come dentro a una apparente allucinazione – una scordinata armonia. Ambientata sul finire dell’Ottocento narra le vicende di Bianco, mentalista e illusionista fuggito da Parigi a causa di una cospirazione di positivisti. Bianco segue il movimento delle grandi migrazioni del periodo e si ritira nelle pianure argentine dove incontrerà la futura moglie, e già nel primo movimento della storia scopriamo a poco a poco il gioco di disorientamento di Saer, i presupposti magici della sua fiction.

Per Saer un paradosso della fiction è che se ricorre al falso lo fa per aumentare la sua credibilità: non sorprende così che Bianco cammini controcorrente a quel positivismo di fine Ottocento che si rifletteva fino al romanzo sperimentale di Zola, che aveva provato a replicare nella letteratura le leggi della fisiologia umana delle scienze, ovvero aveva creduto che l’umanità potesse essere regolata da una sua legge, che scavando a fondo attraverso il romanzo si potesse arrivare a neutralizzare addirittura il crimine, costruire una giustizia in terra, prevedere comportamenti sociali e di massa. Con la protesta dei decadenti il rimprovero fatto al realismo positivista è quello di trascurare i sogni e l’ultrasensorio, la voce dei personaggi. E Saer va proprio in questa direzione: la voce di Bianco è una voce divorante, coi suoi sentimenti e la sua assoluta insensatezza, la sua dose intima di magia, le sue illusioni e le sue gelosie. Non sorprende che Bianco se ne vada controcorrente ai positivisti come un Des Esseintes, non sorprende la sua fuga da Parigi (prima in Italia e poi in Argentina), la sua fragile irrequietezza.

Quello che sorprende semmai è che Bianco non sia poi un così grande illusionista e mentalista, per esempio fallisce nel giocare con sua moglie alla telepatia, e fino alla fine non scopriremo mai se Bianco sia un impostore o la moglie Gina a barare. I presupposti magici del romanzo vengono contraddetti dalla ripetizione della vita nel rancho della pianura argentina, fra allevamenti di bestiame e lunghe conversazioni con il dottor Garay López. L’unico sussulto occulto che si incava nel cervello di Bianco è un’asfissiante gelosia dai tratti deliranti, il sospetto – mai concreto – che tra la moglie e Garay López ci sia qualcosa. Così, se per una sorta di pregiudizio sudamericano all’inizio potrebbe sembrare di essere stati catapultati in una storia da realismo magico, a mano a mano che corrono via le pagine la lettura si rivela più vicina a un’asfissia realista faulkeriana dalle terre del sud. Persino quando Bianco incontra un suo collega – il giovane Waldo, che prevede il futuro in forma di versi – di lui diffidiamo come da un profeta strampalato.

Se Bianco era fuggito da Parigi per continuare a cercare lo spirito, quello che fa rifugiandosi nelle selvagge distese argentine è avvicinarsi sempre più forte alla materia, al denaro, alla terra – e allora l’avventura del nostro mentalista non sembra più un movimento controcorrente, ma uno schianto contro la realtà infarcito di fantasie e visioni, allegoria che si conclude con l’esplosione di un’epidemia. È per questo che il lettore vede apparire illogicamente Saer in punti diversi di quell’immenso specchio d’acqua che ricopre il pianeta terra: una volta lo troviamo a sguazzare nell’oceano aperto e l’altra prigioniero del Lago d’Aral. Saer disorienta e cattura coi suoi tetri incanti – lo fa da audace indagatore del romanzo, da puro narratore, un inventore di storie che ha animato una comunità sotterranea di saeriani che scorre verticale e traversa alla realtà come pioggia obliqua.

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