La combattente di Stefania Nardini: intervista alla scrittrice che racconta un amore e la passione politica

Due dimensioni temporali: nel passato narrativo gli anni Sessanta e Settanta, la partecipazione politica, la fibrillazione sociale, le piazze gremite, le Università occupate, i collettivi. Nel presente narrativo, invece, la contemporaneità, che per chi ha vissuto quel periodo di ideali e desideri di cambiamenti radicali ha un retrogusto amaro. La combattente (edizioni e/o), l’ultimo romanzo della giornalista e scrittrice Stefania Nardini, meritevole di aver acceso l’attenzione in Italia e in Europa sulla figura del marsigliese Jean Claude Izzo, si snoda proprio su queste coordinate. Si disvela così il passato di Fabrizio, uno dei personaggi principali del libro, che di sé ha omesso la vicinanza alle frange armate dell’estrema sinistra e molti altri dettagli che sono la sua ansia continua, una specie di male di vivere che nasconde persino a Angelita, voce narrante e compagna di vita. Nonostante l’amore che li lega e del quale apprendiamo essenzialmente attraverso dei flashback, tra Angelita e Fabrizio c’è una distanza che si rivela segretezza, ambiguità, dolore. Per ricostruire quel che Fabrizio le ha omesso, Angelita arriva fino a Marsiglia, dove vecchie conoscenze  riportano a galla versioni di lui che la nostra eroina ignorava. Angelita è un personaggio d’ispirazione: non arrendevole, ostinata, attraversa stati d’animo diversi lungo lo svolgersi della storia. È bella perché non si sottrae. Con una scrittura affilata e piena di grazia, Stefania Nardini delinea il profilo di una donna moderna ma assolutamente inclassificabile, politicamente scorretta, a suo agio nei cortei, a raccontare le politiche sociali per i giornali che le commissionano i reportage. Una donna che a un certo punto si innamora e poi si dispera, ma che in ogni circostanza insegue la verità, il che è davvero illuminante.

Abbiamo raggiunto Stefania Nardini e le abbiamo fatto qualche domanda.

 

Stefania Nardini, Foto di Mohammed El Hamzaoui

Fabrizio e Angelita li conosciamo attraverso il loro temperamento (sono entrambi cocciuti, ostili, arrabbiati) e i loro lavori (regista lui, cronista lei) intrisi di politica. Più che incontrarsi, sembrano scontrarsi, quasi fosse questo il loro modo di stare al mondo, di esprimersi, quindi di relazionarsi. È così?

Più che di scontri parlerei di una dialettica vivace, tipica della loro generazione. Sono due persone passionali anche se Fabrizio tende a dare di sé un’immagine più pacata. Il perché verrà fuori dalla storia che ho raccontato.

Nel romanzo aleggia la nostalgia per un periodo storico – gli anni Sessanta e Settanta – caratterizzato da cambiamenti sociali, battaglie politiche e soprattutto da partecipazione e coinvolgimento. Secondo lei dove è finita quella voglia di essere parte di un cambiamento? Perché si è miseramente svuotata?

È un argomento complesso dal quale bisognerebbe partire per capire la situazione di oggi. Gli anni Settanta sono stati anni straordinari. Basti pensare alle grandi conquiste di civiltà: dalla riforma psichiatrica alla legge per il divorzio. Conquiste per le quali la società civile, le organizzazioni politiche si sono battute. La strada era il terreno di protesta, a differenza di oggi che sono le aule dei tribunali. Purtroppo è accaduto che quel grande rinascimento ha finito per essere definito come gli “anni di piombo”. E di peggio non poteva accadere. Purtroppo, al di là delle grandi conquiste sociali, si era creata una frattura tra politica istituzionale e un nuovo proletariato che rivendicava un modello anti democristiano. E ciò accadeva in pieno “compromesso storico”. La base della sinistra si andava sfrangiando e questo partorì quelli che vennero definiti “i compagni che sbagliano”. Era vero che sbagliavano usando la lotta armata, ma dietro questo fenomeno estremo si celava una lacerazione della sinistra che non fu mai affrontata. Mentre il terrorismo di destra imperversava raggiungendo l’apice con la strage di Bologna in cui persero la vita 85 innocenti.

Cosa stava accadendo nel nostro paese?

Il clima di emotività, comprensibilissimo, ha finito con l’inghiottire un’analisi e un’elaborazione politica. Ha vinto la paura, il dolore. E la storia non è ancora stata scritta. Creando il binomio anni Settanta – anni di piombo.  Il che mi sembra riduttivo.

Il suo è un libro che scandaglia anche il dolore, la disperazione per la morte di chi si ama. Secondo lei occorre coraggio oggi, nell’epoca dei social, dei sorrisi e dei successi da ostentare, per raccontare la sofferenza emotiva?

La sofferenza emotiva ha acquisito sembianze nuove legate appunto all’esternalizzazione del dolore come materia di comunicazione. Il che non aiuta a uscire dal dolore, tantomeno a capirlo o a decifrarlo. Raccontare la sofferenza emotiva è un mezzo per capirla, per attraversarla come fosse un fiume in piena, per uscirne. Altrimenti il rischio è creare zone d’ombra che certamente non contribuiscono al benessere, alla felicità.

Nel romanzo i luoghi sono protagonisti. Angelita è romana ma è attratta da Marsiglia e da Napoli, luoghi irregolari, decadenti e bellissimi. Che cosa cerca in queste città di mare la sua protagonista?

Il Mediterraneo.  Un’antica cultura che ha la capacità di rinnovarsi come le onde del mare. Napoli e Marsiglia sono due città che soffrono, che vivono, che si appassionano.

Angelita compie un percorso nel presente narrativo che passa attraverso la ricostruzione di alcuni episodi storici che hanno coinvolto Fabrizio da giovane. La sua protagonista sembra non avere paura della verità, anche quando è scomoda e indigeribile. Voler perseguire la chiarezza, secondo lei, è una forma di onestà?

Si. La verità ci aiuta a capire, a capirci

Durante la scrittura del romanzo c’è qualche libro che l’ha accompagnata e che ci vuole consigliare?

Sono una grande fan di Goliarda Sapienza che non a caso ho citato nel romanzo. Una donna che ha vissuto la sua sofferenza fino alla fine dei suoi giorni.

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