La Famiglia Aubrey: tra Cazalet, Dickens e un pizzico di Flaubert

Per essere in periodo di Brexit e di chiusura (più o meno effettiva) delle frontiere, la Gran Bretagna sta esportando, negli ultimi anni, un gran numero di chicche culturali: da Downton Abbey a The Crown, dalla saga dei Cazalet a Dunkirk di Nolan fino al blockbuster Kingsman, il tutto con un sottofondo brit-pop che dagli anni Novanta è ormai la colonna sonora di intere generazioni, si sta vivendo una vera e propria british-mania, all’insegna di completi savile row, aspirazioni London calling, complicate trame familiari e vagheggiamenti di verdi brughiere.

È in questo contesto che Fazi rispolvera quella che il Time, nel 1947, definì, con enfasi forse un po’ troppo campanilistica, “indiscutibilmente la più grande scrittrice al mondo”: Rebecca West, pseudonimo di Cicely Isabel Fairfield. Esce infatti oggi nelle librerie La Famiglia Aubrey, primo volume di una trilogia familiare ambientata nella Gran Bretagna a cavallo tra ‘800 e ‘900. L’opera, che in Italia era già apparsa con modeste fortune edita da Mattioli nello scorso decennio, si appresta a vivere un rinnovato vigore sulla scia del grande successo ottenuto da Elizabeth Jane Howard.

Sgombriamo subito il campo dall’ingombrante paragone: Rebecca West non è la Howard, e la sua penna non si avvicina lontanamente alla straordinaria modernità e alla raffinatezza psicologica di quella della sua conterranea. La West è un’autrice ancorata ai codici narrativi che precedono la Seconda guerra mondiale: le emozioni, all’insegna di un buonismo vittoriano, sono contenute; le vicende spicce, poco eclatanti; i dialoghi impostati, anche quando parlano tra loro dei bambini. Le vicende si ambientano prevalentemente in ambienti chiusi, case che però non hanno il calore della dimora di campagna dei Cazalet o la vitalità eterogenea di Downton, ma sono piuttosto freddi palcoscenici su cui far muovere i protagonisti.

Avendo ben in mente queste premesse e smorzando quindi di qualche tacca le alte aspettative iniziali, ci si può accingere a leggere La Famiglia Aubrey apprezzandone gli elementi di originalità. Muovendo da ricordi autobiografici, Rebecca West traccia infatti il ritratto di una famiglia posta a un gradino molto particolare della scala sociale: il limite ultimo della borghesia, al di sotto del quale si finisce in miseria. Se Dickens ci aveva raccontato degli orfanelli di strada, i Cazalet della borghesia industriale e Downton Abbey della nobiltà circondata da servitù, la West svela invece il mondo di chi, pressoché quotidianamente, deve lottare per rimanere nell’ambito borghese, l’unico accettabile in una Gran Bretagna che “si è fatta” dopo la rivoluzione industriale.

L’anelito alla borghesia e alla stabilità economica, però, non contrastano con le ambizioni artistiche delle protagoniste: Mary, Rose e Cordelia, guidate e istruite dalla madre Clara, ex pianista di strabiliante talento, sognano di diventare grandi musiciste, affermando quindi il loro ruolo nella società senza tradire loro stesse e le loro passioni. È però una strada difficile da percorrere, butterata da facili tentazioni di evasione (come la “svendita” di Cordelia, comunque la meno dotata delle sorelle, a concertini di infima categoria) o dalla generale tendenza all’emarginazione di una società che, più che al talento, guarda al dio Denaro (e cosa c’è di più attuale se lo confrontiamo con la nostra società X-factor centrica?).

Ma il vero fulcro del romanzo, il protagonista silenzioso che pur non calcando fisicamente la scena è onnipresente, è un protofemminismo che lo rende assolutamente moderno. Il modello negativo dell’intera vicenda è infatti Piers Aubrey, padre e marito assente nonché giornalista/scrittore dalle ambizioni irreali e frustrate. Benché le figlie, da buone figlie di inizio ‘900, stravedano per lui e il suo fascino decadente, saziandosi affamate delle briciole di affetto che di tanto in tanto vengono loro concesso, si evince chiaramente come siano la sua instabilità e le sue velleità a causare le continue difficoltà familiari. Di contro, ciò che tiene uniti e a galla gli Aubrey è la forza delle donne, che sono le uniche a lottare per cercare di assicurarsi un futuro. La loro tenacia, già cardine del finale, troverà forse piena espressione nei successivi volumi della saga.

Flaubert aveva come ambizione letteraria di scrivere un romanzo sul nulla. Un romanzo appassionante, scorrevole e intrigante, che però parlasse in buona sostanza di niente. La West, che Flaubert dimostra di conoscerlo molto bene e alla cui Madame Bovary dedica infatti un ampio dialogo nelle pagine iniziali del volume, si avvicina molto a questo proposito. La Famiglia Aubrey tratteggia alla perfezione un periodo e un’atmosfera priva di eclatanti emozioni ma comunque godibile, con una sua intrinseca poetica. E che, nella sua apparente immobilità, rotola inesorabile verso il grande epos del Novecento: le due guerre mondiali.

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