La gente che non esiste | Intervista a Jonathan Bazzi

Oggigiorno in libreria è difficile trovare vera letteratura. Invasi come siamo da romanzi che hanno la pretesa di imporsi per meriti dubbi, sono pochi i libri che possano accaparrarsi meritatamente tale titolo. Ci sarebbe poi da chiedersi cosa renda un testo vera letteratura, e probabilmente ognuno avrebbe una propria risposta, del tutto personale e inviolabile. Quel che è certo è che, nel panorama affollato di un’editoria che ogni anno sforna tanti titoli da non poter quasi tenere il conto, quelli realmente degni di attenzione non sono molti. E così trovare la vera letteratura, quella che risponda ai canoni di ognuno, diventa come cercare il proverbiale ago in un pagliaio. Febbre, di Jonathan Bazzi, edito da Fandango, è certamente un ago. Potente, intimo e allo stesso tempo universale, duro, forte, spietato e con un cuore narrativo che sta lì, aperto e vulnerabile, tra le sue pagine dolcissime. Parla della sieropositività, dell’omosessualità, dell’Italia contemporanea. Parla di Jonathan, di me, di te. È il ritratto impietoso di una condizione difficilissima. È la storia di un ragazzo che vive diverse vite e una sola. È vera letteratura.


Il tuo è stato definito un esordio potente. In Febbre ti sei messo a nudo senza remore, senza paura. Credi sia questo l’aspetto che contraddistingue il tuo romanzo? Credi che dipenda dal modo spiazzante in cui hai aperto ai lettori le porte della tua sfera intima?

Non so se è questo che contraddistingue il libro, so che ho scritto questa storia, proprio questa storia, perché percepivo la sua tensione narrativa, il suo potenziale emotivo. Li sentivo innanzitutto su me stesso, e mi interessava condividerli, anche come forma di riparazione (penso soprattutto ad alcuni episodi della mia infanzia a Rozzano, ma anche allo stigma che permane verso le persone con HIV). In generale mi viene molto naturale usare le cose che mi capitano come materiale per la riflessione, anche collettiva. Ho un bisogno di privacy molto poco accentuato.

L’HIV, com’è naturale, è la grande protagonista del libro. Leggendoti mi è parso quasi di avvertirla come un personaggio a sé. Come se avesse corpo, sostanza palpabile e definibile. In letteratura sono pochi i romanzi che trattano della sieropositività. Il panorama, perlomeno quello italiano, è tristemente scarno e l’unico esempio a cui riesco a pensare è La vita non vissuta, di Nicola Gardini. Perché se ne parla così poco anche in narrativa?

Perché se ne parla poco in generale. I sieropositivi dichiarati, ovvero che vivono la loro condizione alla luce del sole, sono molto pochi, e di conseguenza mancano anche le autorappresentazioni. Lo sguardo prevalente è ancora quello dei sieronegativi, di chi non ha contratto il virus: di HIV si parla perciò sempre nello stesso modo, o con le (sacrosante e ahimè pochissime) campagne di informazione oppure con i servizi giornalistici tetri e inquietanti in caso di fatti di cronaca (vedi alla voce untore). A me interessava dar vita a un progetto prettamente estetico, letterario, anche un po’ per aggiornare un immaginario rimasto congelato agli anni ’80 e ’90.

Per quel che riguarda l’omosessualità? Le tematiche LGBT sono ampiamente trattate, sia in tivù, sia nel cinema, sia nella letteratura. Operazioni fatte in maniera trasversale, che toccano corde sensibilissime e in modi del tutto diversi; spesso narrando epoche, luoghi e personaggi anche molto distanti tra loro. Credi che questa letteratura di genere abbia una tradizione nel passato? E qual è il suo ruolo nel contemporaneo? L’arte, e la narrativa in particolare, secondo te ha un ruolo sociale, dev’essere impegnata, per così dire, o ha, in prima istanza, uno scopo ricreativo, di evasione?

Io sono interessato al potere sociale dell’arte, ma sempre accompagnato dall’attenzione per il piano formale, estetico. Credo anzi che l’arte possa smuovere cose in più, più profonde, perché ha la possibilità di tracciare collegamenti e analogie più suggestive e spiazzanti. In generale credo mi interessi particolarmente il racconto delle vite minori, marginali, quelle che il potere esclude, zittisce, censura. Febbre fa questo, e non solo in riferimento all’HIV. Per me il mio è anche – e forse soprattutto – un libro sulle disparità di genere e sulla violenza familiare. Tornando alla tua domanda, una tradizione LGBT in arte e letteratura certo, esiste, da sempre. Io però non sono mai stato un amante dei prodotti culturali con l’etichetta e anzi vivo con un certo fastidio gli scaffali delle librerie a tema. Scaffali che spesso mettono insieme mille cose: narrativa, saggistica, poesia, un po’ a casaccio. Essere collocato lì senza il mio consenso per me è una forma di ghettizzazione. Anche perché il mio romanzo, come dicevo, strabocca di figure e temi non LGBT.

Jonathan Bazzi

In un Paese che, soprattutto nell’ultimo anno, parrebbe aver rivelato il proprio lato più violento e meno tollerante scrivere un romanzo come il tuo, parlare dell’omosessualità e dell’HIV, è un gesto significativo. La auto-fiction è un elemento fondamentale di Febbre, è chiaro, ma tocca nervi scoperti di una società in perenne assetto da guerra. Ti sei posto, in qualche modo e in qualche momento, il problema dell’accoglienza del tuo romanzo? O lo sfogo quasi diaristico, per quanto la narrazione ci sia e sia ben visibile, è venuto prima?

Ho iniziato a progettare Febbre diversi anni fa, direi attorno al 2013-2014. Non eravamo nella stessa situazione di oggi, ma alla fine quello che stiamo vedendo ora credo sia solo la piena estroflessione di qualcosa di ben presente anche prima. Come dicevo poco fa io credo nella scomodità della letteratura, nella sua capacità di mettersi di traverso rispetto al corso ufficiale del pensiero, quindi certo non mi preme ricercare il favore di chi ha la testa rivolta all’indietro. Detto ciò però il problema dell’accoglienza del libro me lo sono posto, nel senso che subito prima della pubblicazione ero molto inquieto: non avevo la più pallida idea di come sarebbe stato preso. Avevo la sensazione di aver fatto una cosa molto libera e scoperta, un po’ spericolata. Anche stilisticamente.

Febbre pare sia diviso in due. Racconti la storia di un Jonathan bambino, alla scoperta di sé stesso e del mondo, e la storia di un Jonathan adulto, che alla luce dell’HIV deve scoprirsi daccapo e riscoprire il mondo come fosse un posto del tutto nuovo. Perché questa dualità?

Io volevo raccontare Rozzano e l’HIV, queste due presenze, questi due tratti della mia identità. E sentivo che avevano qualcosa in comune, che in qualche modo si tenevano insieme. Non sapevo però bene come. L’ho scoperto poi, scrivendo. All’inizio sapevo che volevo provare a raccontare quei due mondi dall’interno e volevo individuare i punti di contatto e i punti di apertura del significato, quelli in cui la mia storia diventa una specie di miniatura della storia di tutti. La dualità – che è narrativamente spiccata all’inizio del libro – poi smette di essere tale. Man mano che il racconto avanza Rozzano e l’HIV si parlano in modo sempre più fitto.

Qual è il ruolo di Rozzano? Il tuo romanzo è ambientato lì, ed è un’ambientazione forte quella che costruisci, ma mi domando se la narrazione del posto abbia altre finalità.

Rozzano è un luogo ma non solo. È l’origine, la matrice. È un’eredità, un ingombro e un’arma, una serie di armi, che ho scoperto di possedere. È il veleno e l’antidoto. Il mio potrebbe sembrare un libro che intende denunciare alcuni fatti e certe dinamiche di quel posto, ma a guardar bene io penso che sia anche un grande omaggio al paese in cui sono cresciuto. Ho parlato di Rozzano perché la conosco molto bene, ma sono molte le Rozzano d’Italia. E molti hanno avuto la loro Rozzano. È un posto che mi ha fatto del male, in cui sono stato straniero, corpo estraneo, ma allo stesso tempo mi affascina. È un posto speciale.

Qualcuno una volta ha detto che “chi è passato attraverso molte tempeste desidera solo tranquillità, ma, delle tempeste, conserverà sempre l’inquietudine”. È l’HIV un pezzo di quell’inquietudine che conserverai per sempre?

Io credo che, dopo essere passati attraverso una tempesta, se si è sopravvissuti, si possa anche voler celebrare la potenza – e la bellezza – delle forze che hanno messo a rischio la nostra vita. Febbre per me è un po’ questo: dato che sono vivo, la mia rivincita è raccontare. Riedificare Rozzano, contagiare il virus con le mie parole. L’inquietudine è sempre stata parte di me, la tranquillità la conosco poco e la desidero ancora meno. Quello che mi interessa è costruire attorno a quell’inquietudine una storia, usarla per vedere di più, e per far vedere di più agli altri.

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