La libera maturità del Management, oltre il “dolore post-operatorio”

Tutti hanno avuto una felicità così grande da aver paura, e al contempo consapevolezza, di perderla. Di perdere quel sorriso, quelle lacrime, quello sguardo senza cui, guardare insieme il mare, lo farebbe sembrare «soltanto acqua». Sguardo di un amore, di una madre, di un amico, di un affetto, di un sogno.  E, senza rassegnarsi all’incubo di una vita di ricordi, reimparare il presente e convincersi che il passato non era meglio quando passato era solo destinato a diventarlo.

Parla per tutti e per nessuno Sumo, l’album della metamorfosi del Management. Un inno alle emozioni più che alle sensazioni, all’amore più che al sesso, e al sussurrare che spesso ha più potere del gridare. Perché si è completamente liberi solo quando non è un obbligo dimostrarlo al mondo. Senza però rinnegare quell’insoddisfazione di chi, comunque, non riuscirebbe a fare altro che continuare a provare a dargli voce.

Al loro quinto lavoro pubblicato per Full Heads/distr. Believe/Audioglobe e registrato all’Auditorium Novecento di Napoli, Luca Romagnoli (voce e testi) e Marco di Nardo (chitarra e compositore), lo sanno oramai bene. Hanno scoperto sulla loro pelle e arte il prezzo della libertà, nei temi dirompenti e nei gesti irriverenti, per poi mostrare ciò che di più dirompente esiste: il dolore. E così prende vita Sumo che proprio come il lottatore, non si arrende. Non più una lotta contro se stessi, ma contro quel senso di finitudine che, come le definisce Romagnoli, «subentra quando hai sviluppato e preso coscienza della concezione di morte». Alimentandola di impotenza, ignoto, paura ma soprattutto di curiosità «perché la morte è un grande dono alla poesia».

Il ventaglio di emozioni divora il “dolore post-operatorio” trovandogli un angolo più privato dove posarsi. Perché – e gli anni lo hanno dimostrato – quelle poche parole, si trascinavano un «immaginario schizofrenico, alcolizzato e incasinato. Ci sentivamo quasi obbligati a fare casino più che a suonare bene. Ma siamo noi, quelli e questi, sono cicatrici che portiamo addosso». E oggi consapevoli che un nome non minaccia un’identità, lo hanno cambiato come la loro direzione «musicale e poetica».

Precursori italiani (ma prima abruzzesi) dell’indie, sono i volti attuali dell’elettrocantautorato, con una scrittura neoclassica che si specchia in approcci emotivi immortali alla Piero Ciampi, e una melodia internazionale ben lontana dai synth usati solo per riempire. Lasciano agli altri le etichette. «Non voglio fare il lifting alle mie emozioni, la chirurgia plastica dei miei pensieri. Non voglio maschere. Anche se alla fine questa nostra libertà è sembrata essere ancora una volta una provocazione, quasi a sbatterlo in faccia a chi ci accusava di non farlo più», sorride Luca.

Quindi no, nessuna maschera nella musica, nell’arte e nella vita. Neanche di fronte a ciò che più spaventa «come la morte, non l’accetto. A me non va». Ne è sicuro Romagnoli, non vogliono morire né invecchiare come cantano in La Notte nelle vene, e neanche scomparire – «anche se il piano b, distruggerci e andarcene lontano dall’occidente c’è sempre». Vogliono come un elefante avere un Avorio a cui non staccarsi. E non arrendersi al tempo che passa e porta via con se felicità e lacrime. Quelle che cantano in Per i tuoi occhi tristi, intimoriti dal domani perché sanno che forse chiusi «per dare un bacio, o per godere o per sentire un richiamo lontano o forse per scomparire», potrebbero non rivederli.

È un viaggio completo nel dolore, già accennato dal singolo Saturno fa l’Hula Hoop poi non rientrato nel disco, che raggiunge l’apice nell’oscurità di Come la luna. E diventa paura di crollare, e di perdere delle boe, fisse e sicure, come in Sto impazzendo. Pregando «in mezzo a questo vuoto cercami, nel mondo pieno di paura stringimi, in mezzo a questa notte scura salvami». Ma ogni cosa ha un suo tempo e questo disco lo dimostra. «È il disco di quando abbiamo sentito addosso la maturità – ammette Romagnoli -. Ci sono stati momenti in cui abbiamo temuto di perdere tutto, forse ogni cinque minuti, ogni giorno, ogni volta. Ma Marco e io abbiamo dentro questo senso di ribellione poetica all’eccessiva normalità della società, non potremmo fare altro».

E se maturare significa anche accettare ogni scelta del passato, per quelle del Management ci pensano i fan. E così il paradosso vuole che la canzone dove più sembrano loro, i vecchi loro – sempre che ci si possa prendere il lusso di identificarne due epoche – non l’abbia scritta la band. Quell’anima insolente e sfacciata che si ritrova in Sessossesso, un brano di tutti e nessuno, come il sesso che racconta, senza proprietà intellettuale i cui proventi saranno devoluti, e nasce in pura condivisione 2.0.  L’hanno aperto ai fan, che hanno confidato loro storie, segreti, perversioni compattate in un inno all’amore fisico «vissuto come gioia a prescindere dai gusti». E che si è trasformato «in un esperimento sociale macro, come una sorta di psicanalisi» per quei fan che magari non cercavano risposte ma solo la voglia di essere immortalati nell’eternità di una canzone.

E così, diventa un lascito dei tempi in cui la band leggeva Bukowski, citava Baudelaire e si ammazzava di birra. Rendendosi, nella musica italiana, gli indiscussi portavoce di quel malessere proprio della beat generation tramutato in inni al piacere del corpo e alla libertà, se distruttiva è meglio. E a ballate sull’incoerenza atavica dell’uomo, come Lasciateci divertire.

«Abbiamo attraversato una fase provocatoria, corporale, iconoclasta, fisica, gestuale. Abbiamo parlato della libertà sessuale, dell’emancipazione femminile, tutte cose in cui continuiamo a credere, cercando di combattere i pensieri medievali da cui siamo circondati. Ma tutto questo diventa pensiero emotivo, di riflessione, dolore». Dice oggi che sul comodino ha spostato Bukowsi per ridare posto a John Fante o a Luther Bliss «perché oggi faccio fatica a emozionarmi su cose nuove». C’è il tempo che passa, le persone oramai lontane. C’è il vuoto dell’assenza e la gioia di vivere male, quella malinconia che ha quel sentore poetico, bello, positivo. «Perché quando la poesia emoziona è fatta di ricordi che non vuoi dimenticare. Non rimpianti».

 

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