La Libia raccontata da un’organizzazione umanitaria

Il Cesvi è un’organizzazione umanitaria italiana che opera a livello internazionale. Cesvi è presente in 26 paesi, ed opera in tutti i continenti per trasformare il soccorso umanitario per costruire progetti di lungo periodo che promuovono l’autosviluppo delle comunità beneficiarie. Attualmente, porta avanti, tra gli altri, un progetto umanitario rivolto alla Libia. Grazie alla loro disponibilità e attraverso le parole di Diego Carangio (Project Manager Cesvi in Libia) tentiamo di mettere a fuoco l’attuale e controversa situazione libica.

Da quanto tempo il Cesvi opera in Libia? Quali sono le attività di cui vi occupate?

Cesvi è presente in Libia dal 2011. Il 17 febbraio viene considerata la data d’inizio della rivoluzione libica e Cesvi, nel mese di marzo, era già a Benghazi. Dal 2011 ad oggi, abbiamo attuato vari progetti in Libia, principalmente riguardanti l’attività di supporto post-conflitto. Durante questo lasso di tempo, grazie alle attività svolte in situazioni di emergenza, si è stabilizzata la nostra presenza nel Paese: prima in Cirenaica, poi verso Sirte, Misurata fino ad arrivare a Tripoli. In una seconda fase, che va dal 2012 al 2014, quando la situazione andava stabilizzandosi, le attività principali si sono concentrati sul supporto e protezione ai settori più vulnerabili della popolazione: rifugiati, richiedenti asilo e migranti irregolari. Abbiamo fornito assistenza agli sfollati interni, figli della rivoluzione del 2011, alle varie minoranze interne libiche e in generale a tutte le persone che si erano ritrovate a subire le sofferenze ed i disagi dovuti alla situazione di conflitto del 2011. Nel periodo che va dal 2012 al 2013, le nostre attività si sono concentrate sull’assistenza ai rifugiati siriani e richiedenti asilo, poiché in seguito al conflitto in Siria c’è stata una enorme ondata di rifugiati – principalmente siriani, palestinesi e iracheni – che consideravano la Libia come zona di transito. Naturalmente, nel periodo più difficile del conflitto in Siria, il numero dei rifugiati che hanno raggiunto la Libia è aumentato drasticamente e di conseguenza il numero di persone che hanno cercato di raggiungere l’Italia e da lì l’Europa. L’intervento principale di Cesvi, in questo periodo, è stato sopratutto di tipo sanitario e pisco-sociale a supporto dei rifugiati siriani, dei richiedenti asilo dei migranti irregolari. Questo è quello che è stato fatto fino allo scorso anno grazie anche alla presenza in loco del personale espatriato, di cui sono parte nel 2013/2014, prima a Benghazi e poi a Tripoli. Successivamente, vista l’evoluzione dei conflitti e il peggioramento delle condizioni di sicurezza, a maggio 2014 il personale espatriato è stato evacuato e, a partire da quel momento, Cesvi ha cominciato a condurre una gestione a controllo remoto dalla Tunisia. Cesvi non ha una vera e propria base operativa in Tunisia ma, visto il nostro importante ruolo di Organizzazione italiana e la particolare vicinanza con la Libia, si è deciso di implementare questa gestione remota, considerando la Tunisia il punto di raccordo tra lo staff di sede e lo staff libico.

©marefa.org

Da chi è composto lo staff rimasto in Libia ad oggi?

Ad oggi, principalmente per questioni di sicurezza, è presenta in Libia solo staff nazionale libico, uno staff collaudato che collabora con Cesvi da diversi anni. I colleghi non hanno grosse difficoltà nel conseguimento di visti per raggiungere la Tunisia, mentre in questo momento, sarebbe troppo pericoloso per il personale espatriato entrare in Libia, dove i controlli alle frontiere sono molto rigorosi…ci sono stati momenti in cui per gli stessi libici era difficile uscire dal Paese.

Come si riesce ad operare in assenza di un’organizzazione statale unitaria? In casi di necessità a chi vi rivolgete?

Cesvi è un’organizzazione indipendente, quindi non è legata a nessun governo. Chiaramente, è molto importante, per portare avanti il nostro intervento, dialogare e mantenere i contatti con le autorità locali. Il fatto che Cesvi, insieme ad UNHCR, sia attualmente in Libia, è anche il risultato del rapporto di “buon vicinato” coltivato negli anni con le autorità locali, che sono, per esempio, le municipalità.

In quali zone operate attualmente?

Le attività di Cesvi si svolgono in Libia occidentale e orientale, nell’area di Benghazi, di Tripoli e di Al Marj. In Cirenaica stiamo lavorando sopratutto a Benghazi con gli sfollati interni a seguito dei conflitti del 14 novembre scorso, quando il Gen. Haftar ha dato il via all’attacco contro Ansar al-Sharia a Benghazi. Da quel momento si è generato un movimento di cittadini che dal centro della città si sono spostati verso la periferia.

Di quante persone parliamo?

È difficile quantificare la situazione in numeri reali, tutti gli assessment vengono realizzati sulla base di proiezioni. Il conteggio al momento è in corso. Le condizioni in cui operiamo sono abbastanza difficili e potrebbero diventarlo ancor di più se il livello generale [del conflitto] non continuerà ad essere basso.

Quali sono le problematiche più frequenti?

Ad oggi, è necessario sopperire a diverse mancanze, tra cui quella di medicinali. L’accesso ai medicinali non è facile e anche l’importazione risulta abbastanza difficoltosa. Inoltre, nonostante la Libia sia un paese ricco di petrolio, mancano benzina ed elettricità. Lascio immaginare, sopratutto d’inverno, quali disagi possano provocare l’assenza di gasolio per i generatori e quindi per la corrente elettrica. Infatti, una delle azioni intraprese da Cesvi, in collaborazione con UNHCR, è quella di reperire tutti i beni necessari ad affrontare il periodo invernale. Quando non è possibile reperire gasolio per i generatori, distribuiamo sopratutto materassi e coperte poiché l’inverno è molto rigido. La zona della Cirenaica è una zona fatta di altopiani, dove l’escursione termica è molto elevata e la temperatura può scendere fino a 0°c. Le prime problematiche dunque sono legate all’inverno, alle temperature fredde e al fatto che non esiste riscaldamento. L’accesso al cibo fortunatamente non è ancora divenuto una priorità ma ovviamente i prezzi sono rincarati e chi ne soffre di più sono i rifugiati, i migranti ed i richiedenti asilo.

Ci sono differenze tra le condizioni degli sfollati interni e dei migranti esterni?

Generalmente, gli arabi vengono considerati come “fratelli”, questo prima riguardava anche i rifugiati siriani: durante il regime di Gheddafi, ad esempio, un cittadino siriano poteva utilizzare le strutture sanitarie libiche gratuitamente. Dal momento in cui la situazione di conflitto si è acuita, anche i cittadini siriani ne hanno risentito. Dopo gli scontri a Benghazi, molti siriani hanno visto perdere tutto quello che avevano costruito e sono stati spinti così a muoversi. Completamente differente la situazione dei migranti provenienti dalla zona Sub-Sahariana e Corno d’Africa. Questi individui sono “i più vulnerabili tra i più vulnerabili” : difficilmente riescono ad accedere a quei pochi servizi che in precedenza venivano offerti. In una scala di vulnerabilità tra libici, siriani e non siriani, dove tutti sono esposti agli stessi problemi, i migranti sono quelli che vivono le maggiori difficoltà.

Sono tutti diretti in Europa?

La maggior parte si. Anche perché, per fare un esempio, in una situazione di conflitto viene a mancare anche il lavoro e dunque le persone si muovono alla ricerca di una condizione migliore…questa è una costante. Vi è differenza poi tra chi è impossibilitato a ritornare nel proprio Paese d’origine e chi si trova semplicemente, per così dire, a cercare una condizione di vita migliore. Facile immaginare come in Libia, dove non c’è più alcuna autorità statale, sopratutto al sud dove c’è il deserto, la frontiera sia diventata una sorta di “colabrodo”. È veramente difficile controllare chi entra e chi esce.

Qual è attualmente la situazione degli sfollati interni e come viene affrontata? Potete confermare le cifre fornite da UNHCR?

L’ultimo dato ufficiale raccolto da UNHCR risale a novembre scorso e stimava circa 250.000 sfollati. La cifra comunque riguardava tutto il Paese. Le ulteriori violenze scoppiate a metà del 2014 hanno causato l’evacuazione dei civili dalle città ed il numero degli sfollati interni è aumentato (aggiungendosi a quello delle vittime del conflitto del 2011). Cesvi attualmente lavora in circa 30 campi sfollati ad est di Benghazi. La maggioranza degli sfollati interni ha trovato rifugio presso parenti o conoscenti o nelle comunità locali o riesce a trovare riparo in edifici pubblici, come le scuole. Non si tratta quindi sempre di “classici” campi, molte volte sono edifici pubblici abbandonati ed utilizzati per ospitare le famiglie sfollate. Gli edifici più utilizzati sono le scuole.

©Magharebia

Dunque i servizi pubblici sono interrotti?

Una delle sfide più grandi è garantire un’istruzione ai bambini e ai ragazzi: le scuole non sono più accessibili, poiché, come ti dicevo, circa il 90% delle strutture utilizzate come rifugi sono scuole. Siamo di fronte ad una realtà drammatica: un’intera generazione non ha accesso all’istruzione.

Riscontrate problematiche relative alla sicurezza?

I campi dove noi lavoriamo con gli sfollati sono situati in zone piuttosto tranquille e l’aver costruito, negli anni, dei rapporti di buon vicinato con le autorità locali contribuisce a rafforzare la considerazione positiva che tutti hanno degli operatori Cesvi. I nostri operatori vengono riconosciuti come persone che aiutano, come persone che sono lì per dare una mano alle categorie più vulnerabili, tra cui gli stessi libici, dal 2011 ad oggi. Le persone queste cose non le dimenticano.

In passato operavate anche all’interno dei centri di detenzione, vi occupate ancora di questo?

Cesvi ha supportato i centri di detenzione in Libia fornendo supporto sanitario di base. Tuttavia, dopo i violenti scontri avvenuti la scorsa estate, quest’attività per il momento è stata sospesa. Secondo i dati raccolti da Cesvi, a dicembre 2014, circa 731 persone erano detenute nelle prigioni libiche. All’interno di questi centri di detenzione gli standard internazionali non vengono rispettati: i detenuti subiscono trattamenti inumani e degradanti, l’accesso ai servizi igienici è insufficiente, così come quello all’acqua potabile e alle altre necessità di base. Gli standard di igiene sono piuttosto bassi e di conseguenza il rischio di contrarre malattie è allarmante. Anche nel 2015 il Cesvi aveva come obiettivo quello di operare all’interno dei detention center…ma per ora stiamo cercando di capire come evolverà la situazione.

In quali zone?

Per ora solo nella zona di Benghazi. Purtroppo abbiamo dovuto abbandonare alcune zone, come Ganfuda e Ajdabiya. Siamo dovuti andare via da Ajdabiya nel momento in cui si sono avvicinate le milizie di Ansar al-Sharia. Queste zone sono ormai luoghi di conflitto dalle quali la stessa popolazione migrante si è spostata. Non è rimasto fisicamente più nessuno e, ad oggi, tutti i centri in Cirenaica sono chiusi: Benghazi, Ganfuda e Ajdabiya.

Termina qui la prima parte di questa disamina. Nella seconda parte sono invece trattate altre tematiche, tra cui immigrazione, ISIS ed altro ancora.

 

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